Negli ultimi decenni, molti lemmi filosofici di successo hanno provato a mettere a fuoco la mutevolezza del mondo contemporaneo, la grande – ancorché superficiale - propensione al cambiamento di ciò che Debord chiamava «società dello spettacolo». Si è parlato di «postmodernità», a cui doveva far seguito un «pensiero debole». Di «crisi dell’esperienza tradizionale» e conseguentemente della scomparsa di modalità di organizzazione della vita strutturate fin nel dettaglio da istituzioni pubbliche solide e stabili. C’è chi ha gridato alla «scomparsa dei riti», chi ha evidenziato il carattere «liquido» del nostro tempo. Secondo un’espressione molto efficace, che qui facciamo nostra, il presente è – tra le altre cose – l’epoca in cui la principale «abitudine» è quella di «non avere abitudini». Per tenere il ritmo dei mutamenti sociali e produttivi (soprattutto tecnologici), è richiesto oggi un alto tasso di flessibilità e di adattamento al nuovo, all’imprevisto, alla contingenza, mentre è mal visto l’indugiare in condotte abituali di lungo corso e refrattarie alle trasformazioni. Varrà la pena, allora, fare un passo indietro e interrogarsi sulla nozione stessa di abitudine, spesso citata nella letteratura filosofica, ma molto di rado affrontata di petto dagli studiosi. Per farlo, offriamo al lettore un testo giovanile di Arnold Gehlen mai tradotto in italiano: Reflexionen über Gewonheit (in Gesamtausgabe. Philosophische Schriften I (1925–1933), Vittorio Klostermann, Frankfurt, pp. 98-111), in cui l’esponente dell’antropologia filosofica tedesca prova a tracciare un primo identikit di questo concetto così familiare ma anche così sfuggente[1].
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ἡ φύσις δαιμονία ἀλλ᾽οὐ θεία
Aristotele
Non ciò che si annuncia vivo, vigoroso
è quanto c’è di pericolosamente spaventoso. È
ciò che è comune, ciò che è eternamente ieri,
quello che è sempre stato e sempre ritorna,
ed è valido domani, perché è stato valido oggi.
Schiller[2]
Quanto è necessario alla vita, quanto la costituisce e la rende possibile, deve di certo essere qualcosa d’innato nel vivente. E la filosofia, volendo conoscere ciò che è, deve imparare a discernere il fondamentale dall’accidentale, da ciò che ci investe e che noi incontriamo – che non ci lascia intatti e tuttavia non ci trasforma. Così, la separazione tra «innato» e «acquisito» – sebbene spesso arbitraria e peraltro priva di un qualche diritto metafisico ultimo – è divenuto uno dei problemi principali della filosofia. In due occasioni recenti, Driesch ha nuovamente contribuito al dibattito[3]. Nel riflettere su tali argomenti, anche questo saggio si riconosce suo debitore per quanto concerne il metodo; vale a dire nella misura in cui, partendo dai fenomeni concreti della natura, esso tenta di esprimere qualcosa di più generale. Comincio con la seguente osservazione[4]: un leggerissimo contatto o un sottile getto d’acqua è solito indurre l’infusorio Stentor a ritrarsi nel canalino[5]. Lo stesso atto agisce, ripetuto, in modo assai più debole e infine per nulla. Se, attraverso grani di carminio stillati lentamente, vengono fatte seguire sollecitazioni più insistenti, l’animale reagisce inizialmente con torsioni progressive, poi con l’inversione del battito delle ciglia, quindi con il ritrarsi momentaneo nei canalini, infine con il distacco e la migrazione.
Sembrerebbero dunque esserci due possibilità per quanto concerne l’incontro con impressioni ripetute. La sequenza di stimoli costanti induce ad abituarsi a essi oppure a reazioni più forti, più estese e più generali. La sequenza di eccitamenti identici e ripetuti, nel modo in cui fondano l’abitudine, può perciò avere un doppio effetto: debilitante o rinvigorente. Mosso spesso, il muscolo diviene sempre più forte e incline all’azione. Esperiti spesso, stimoli che inizialmente sollecitavano una risposta diventano presto impercettibili.
Chiamiamo esercizio un caso particolare dell’effetto rinvigorente degli influssi ripetuti. Qui lo stimolo è rappresentato innanzitutto da un movente ripresentato continuamente, il quale induce il corpo, regioni muscolari via via nuove a ordinarsi insieme in modo sempre più naturale e armonico, fino al punto in cui la coscienza indietreggia, il movimento si compie «involontariamente» e, attraverso l’allenamento, si costituisce una sequenza stabile di azioni interiorizzate che si sviluppa in modo fluido e con facilità.[6] Sorgono in questo modo le sorprendenti facoltà dei giocolieri e degli acrobati, i quali in un certo senso hanno allenato il proprio intelletto nei loro arti. Tuttavia, qui come sopra – dove la ripetizione aveva reso lo stimolo completamente inefficace, «subliminale» – colpisce come l’abitudine delle azioni sembri tendere a sostituire la coscienza o quantomeno a intorpidirla. Essa rende, come dice Nietzsche, la nostra mano più ingegnosa e meno agile il nostro ingegno. Così, ciò che noi continuamente esperiamo esercita effetti segreti sulla nostra natura, distinguibili solo da chi è attento. Di conseguenza, già per qualche filosofo l’abitudine ha rappresentato un problema e si è quindi tentato di ricondurre ad essa tutte le funzioni più elevate come l’associazione, la memoria, financo la fantasia.[7]
Mi sembra tuttavia che l’abitudine non dica nulla di sé; solo un allargamento del nostro sguardo ci fa scorgere in lei un caso specifico di un problema più ampio e genuinamente metafisico; d’altra parte già sopra abbiamo avuto modo di descriverla niente meno che con il termine ripetizione. La ripetizione spiega, dunque, l’abitudine.
La successione imprevedibile delle generazioni, il loro esistere in massa l’una accanto all’altra nello stesso tempo, le instancabili leggi di natura (James le chiama: «le abitudini della materia»), la sequenza dei numeri e i casi della classe, il ricordo sempre pronto e la perseverante identità delle nostre azioni – tutte queste cose apparentemente così eterogenee sembrano trovare qui, nell’idea della ripetizione, una sorta di unità. E se riusciremo a conoscere questo luogo, allora conosceremo di certo anche l’abitudine. «La ripetizione è la nuova categoria da scoprire» (Kierkegaard)[8].
Consideriamo dunque cosa essa sia: ripetizione. Cosa significa che l’identico, il se-stesso si ripete – non è esso, in quanto identico, per ciò stesso insostituibile? Mi si può contare insieme ad altri – sono per questo lo stesso che gli altri?
Ogni molteplicità è inconcepibile se non intesa come ripetizione, se in lei non è riconosciuta la divisione interna che fa sì che si diano più di uno. Perché questo è l’enigma. Nel ripetuto mantengo due intenti: il preservare, il voler-essere-identico, il voler-essere-se stessi, ciò che si mantiene –; e, al contrario, ciò che spinge in avanti, il porre-in-uno, ciò che si trasforma, che cambia e incanta: la grande categoria della ἀλλοίωσις, alterazione [Übergang]. Soltanto questa è la ragione per cui c’è più di quell’uno che altrimenti sarebbe l’identico in sé. Il primo pretende però che riappaia sempre lo stesso nella totalità della trasformazione, ovvero che si dia, per usare una vecchia parola, individuazione. E l’essere di ciò che vuole solo essere se-stesso in ciò che nel mutamento si sforza di trarre l’identico fuori di sé, questo essere lo chiamiamo «ripetizione». Una delle ultime poche idee nel vivente. La ripetizione.
Se il puramente identico fosse realizzato, non si darebbe nulla al di fuori di lui. Ma accanto a quella di mutamento si dà la volontà d’identità. E il ripetersi è il minimo che il se-stesso debba lasciarsi strappare.
Conosco solo due teorie metafisiche che guardino alla ripetizione come a un’idea per la vita: le teorie di Ewald Hering e di Sigmund Freud[9]. Entrambe la concepiscono però in maniera puramente ricapitolante, come un qualcosa di in sé coerente. Io al contrario non credo ad alcuna inerzia pura della ripetizione, poiché essa non è affatto meno creativa e trasformativa. Si può comprenderla solo nel dualismo.
Chi non vede la volontà del non identico, la cui incomprensibile unità coll’identico chiamiamo «vita», la più pura forma fenomenica della quale è nota sia per quanto riguarda la coscienza che per quanto riguarda l’azione – dal momento che specialmente la percezione e la presa di possesso ci accrescono nel modo più profondo e ci conducono fuori di noi –, costui vedrà nella ripetizione solamente un’incomprensibile produttività dell’inerzia. Se non si considera l’individuazione, sarebbe pensabile che l’inerzia diventi ingegnosa con il mero fine di rimanere in se stessa. Ma l’individuo in quanto tale vuole solo e soltanto se stesso, conosce solo se stesso, e ama solo se stesso.[10] Così è impossibile che, a partire da sé, l’identico possa voler ripetere se stesso. Non è possibile dedurre la vita, come vuol fare Freud, dalle pulsioni, le quali esigono una condizione precedente alla vita. In generale, non è possibile comprendere la questione a partire da una idea. L’individuo, in quanto identico, non porta in sé in alcun modo la ragione della sua negazione [Aufhebung] – questa la deve a ciò con cui esso solo appare congiunto – il mutevole. Nulla di ciò che è ha come tratto caratteristico una qualche ragione per essere diverso da ciò che esso stesso è; ce l’ha tuttavia con riferimento a ciò che è presente al di fuori di sé – all’essere-con. Esso trova questa negazione in tutto ciò che intendo come mutamento: nell’azione, nella conoscenza e negli effetti che produce. Nell’amore e nella morte, e in molto di ciò che gli è prossimo. E ripetizione è quell’atto metafisico del tentativo continuo della negazione di essere-sé, nel quale tale discordia interna del vivente fa una delle sue confessioni eterne. In quanto segue cercherò di fissare alcune delle innumerevoli trasformazioni all’interno delle quali essa emerge.
Per osservare l’identico, si guardi alla serie dei numeri: il più puro esempio della disperazione della pura identità nell’idea dell’infinito procedere: 1–1–1… La matematica ci mostra insomma cosa accadrebbe se si desse solamente l’identico in solitaria ripetizione: spazio e tempo infiniti. Al che voglio ancora aggiungere che qui il mutamento non appare solo nella ripetizione, ma anche nella questione della possibilità dell’addizione. Poiché 3 non è 1–1–1, bensì il nuovo numero del loro raccogliersi insieme. (E tuttavia, come sapeva Leibniz, la matematica circoscrive la filosofia tutta. La funzione è l’azione del numero.)
Dunque, così come perfino nel puramente identico, nel concetto di numero, s’impone la ripetizione, così anche nel mutevole più puro appare l’identico: nella coscienza o, com’è possibile osservare ancora più chiaramente, nella fantasia (essendo questa il fondo della coscienza). E qui, l’identico emerge in due forme, sulle quali è il caso di spendere ancora qualche parola: come ricordo e come pensiero. Come si sa, si è spesso tentato di dedurre questo da quello; tuttavia, chi volesse comprendere il senso della ripetizione nel ricordo di un mutamento vissuto una sola volta, dovrebbe certamente capire, prima di tutto, cosa significhi l’idea d’identità nella coscienza in generale.
È certamente possibile intuire in quali circostanze il principio dell’identico si sia conquistato l’accesso al mondo della coscienza, della fantasia. Chiamiamo «pensare» per l’appunto la fantasia divenuta demonica, ossia non libera. Infatti, allorché imparò a pensarlo, l’uomo allontanò da sé il mondo in modo inaudito, distaccandovisi fatalmente. In questo senso il pensiero è il frutto della volontà di essere-sé e l’identità è, di conseguenza, la sua forma.
Di tale mondo era l’insopportabilità dell’effimero, l’impossibilità, nell’essere trascinato nell’infinitamente mutevole e nelle intenzioni sempre deluse della fantasia, di credere ancora – in qualche modo, in qualche cosa: questa è stata la ragione del primo, grandioso e più audace dei passi, il più gravido di conseguenze che l’uomo abbia assunto su di sé, inventando l’autocoscienza. Deve essere stata un’esperienza inconcepibile per noi poveri abitudinari allorché, per la prima volta, un uomo vide: non esiste solo il caos delle impressioni che ci tempestano, tra le quali riusciamo a trovare a mala pena il tempo per compiangere il loro scorrere via; no, è possibile guardarsi, vedere se stessi sullo sfondo del mondo. Così il demonico ha inventato l’estetico, perché tale idea è in parte ironica e, tuttavia, in parte sublime.
Diventa così evidente che, per mezzo della ripetizione, l’identico fece il suo primo grande passo verso la sua negazione. In tutte le regioni della vita, vediamo le realizzazioni di tali categorie, categorie morali. Da qui per esempio la gioia elementare per la ripetizione, l’anelito all’imitazione, – chi imita vuole trarre a sé, ancora una volta, adescandolo, l’imitato –; da qui la gioia nel rendere concreta la nostra fantasia; la gioia del creare e la soddisfazione per l’arte. Perché dall’identico e dal mutamento emergono lo spazio e il tempo, la moltiplicazione nell’essere con e accanto all’altro. Nel mezzo, la vita si sviluppa: incanto nella percezione, elevazione nella progenie e trasformazione nel concepimento. Così il mutamento, la trasformazione, la cui più pura realtà chiamiamo fantasia, non è legata, in quanto sono identico, a me stesso. Ciò che viene chiamata «anima» non è un identico perché la mia anima, si può dire, non è la mia anima, ma l’anima di tutto il mondo[11].
Da questo vivente solo si distaccano, su entrambi i lati, materia e logos, uno raffigurazione dell’altro (e creazione dell’altro), dominato dall’essere-sé, e perciò instancabile e senza tempo. Mentre tutto ciò che sta nel mezzo, e che solo conta, si stanca e fiorisce, aumenta e appassisce, patisce e agisce, consegnato alla ἀλλοίωσις, al cambiamento. La passione del voler-divenire è così in una giusta relazione di forze con sé. «Dove è debolezza delle pulsioni e dei desideri, non può trovarsi in alcun luogo né virtù né saggezza» (F.H. Jacobi). Per il qual motivo ancora è valido il detto di Schopenhauer: «Sta bene chi è nello stato in cui egli è tutte le cose; soffre lì dove esso è esclusivamente uno».
Vorrei fare ancora un’osservazione sull’idea della procreazione. Se si volesse comprendere il vivente solo a partire da una pulsione, allora o il vivente dovrebbe ripetere l’individuazione oppure si darebbe un rapporto assai ironico tra l’intenzione di consegnarsi all’atto sessuale e l’evento di un nuovo individuo. Mi pare che entrambe le cose siano impossibili. Nel concepimento la natura vuole, io credo, solamente ripetere la gioventù, la gioventù che appunto vuole divenire. Perché il giovane ha un valore dell’esistenza più elevato di chi invecchia, il quale si consegna all’abitudine. Ne parlerò ancora. D’altra parte, ogni nascita è in un certo senso – appunto come ripetizione – una regressione. Così, anche in questo nodo del mondo, entrambe le forze si tengono in equilibrio, così come, sul piano più basso, anche morte e nascita sono indistinguibili nella divisione del monocellulare.
Lo stesso parlare di «tempo» mi sembra una mera abitudine del pensiero. È forse questo tempo continuo, che può essere pensato, tanto diverso dall’infinita istantaneità dell’attuale, che solo esiste: dalla fantasia, dallo scopo e dal desiderio nell’azione, dove l’identità comincia e questo mondo si consolida in un istante, per poi sciogliersi subito nel ricordo; e l’ancora e ancora e ancora una volta, infinite volte ripetuto, creatio continua nel senso più autentico e fuga del mondo di fronte a se stesso (per comprendere la quale deve essere tenuto presente tutto quanto ho detto sul se-stesso, sull’identità), non meno che gioia per l’essere altro? Cosicché, sorge questa ambiguità della sensibilità [Anschauung], nella quale traspare ciò che nella caducità fenomenica di tutte le cose (già nel loro movimento. Il concetto disturba senz’altro questa impressione, motivo per il quale noi, non appena pensiamo le cose, non possiamo affezionarci ad esse per amore della loro caducità) – ciò che insomma nella caducità fenomenica delle cose appare così curiosamente persistente in esse. Sebbene non saranno, esse sono lo stesso che è stato. Tale visione [Anschauung] di un carattere eterno nella sua stessa perdita porta con sé il germe di un amore ultimo e metafisico.
I filosofi che ho menzionato[12] hanno certo notato l’esistenza di una tendenza della vita alla regressione, al ricordo e all’inorganico. Ma nell’inerte non risiede alcun germe possibile di quell’eroico e quell’attivo che noi possiamo di volta in volta osservare.[13] Si consideri ciò che viene chiamata «regolazione»: la tendenza nel vivente a riprodurre parti perdute e danneggiate; si consideri la combattività della vita, ovvero il fatto che, in generale, la vita resiste. Esiste una legge biologica fondamentale, per la quale lo stimolo moderato promuove la vita, quello più forte l’ostacola, il fortissimo l’uccide. Non credo si possa spiegare la promozione della vita a partire dall’inerzia; chi contempla attentamente la rigenerazione ha senz’altro la sensazione di qualcosa di creativo, e forse la natura costruirebbe più volentieri un nuovo organo, fantastico e inaudito, come ha tanto spesso già fatto, se non vi fosse in essa il momento dell’identico, e così anche questa ripetizione bifronte. Non ha senso polemizzare quando si ringrazia qualcuno per qualcosa. Ma era certo lecito mostrare i luoghi in cui il desiderio di divenire della vita ha, nelle teorie menzionate, ricevuto un riconoscimento.
Torno ora all’abitudine, ovvero alla domanda se essa ci porti a sprofondare oppure ci favorisca; e poi, perché essa rifugga la coscienza e la reprima. E come i due grandi fenomeni del ricordo e della fantasia si comportino di fronte a lei.
Qualora volessimo far valere la nostra identità contro le pretese della trasformazione, avremmo due possibilità: possiamo ignorare lo stimolo, rimanendo fermi in noi stessi, dimentichi nell’abitudine dell’entusiasmo del desiderio di divenire. Oppure possiamo, attraverso l’esercizio, cercare di fronteggiare l’impressione, fuggirla oppure distruggerla[14], mobilitando tutta la nostra potenza esistenziale contro di essa. E sebbene l’ultima possibilità, impostaci dalla vita, appartenga alle necessità di questa, essa contribuisce nondimeno al consolidamento e alla delimitazione della nostra essenza. Già Aristotele sapeva che il nostro carattere non proviene da una qualche oscura qualità, ma viene invece definito attraverso le azioni.[15] Cosicché, qualsivoglia specie d’abitudine contribuisce a quel lento divenire anorganico che chiamiamo invecchiare. Perciò, quando ci abituiamo a uno stimolo, che certo esige una risposta, e regoliamo la nostra azione – la quale, come ho detto sopra, è una forma di disimmedesimazione [Entselbstung] – allora la volontà d’identità ha sopraffatto in noi lo stesso desiderio d’azione. Per questo la coscienza, la quale è e vuole il mutamento, scompare, e ci abbandona come fossimo una massa inerte e ostinata, dal momento che la vita risiede nell’operare. Ogni inibizione dell’abitudine, la quale è disturbo dell’identità, la richiama però subito in scena.
Questa specie di abitudine è identica a una morte lenta. La vita procede su un binario sempre più stretto e misero, la coscienza diviene sempre più inerte e vischiosa, sempre più indispensabile il contesto, le cui morte e abitudinarie cose ci appartengono infine come noi ad esse. Chesterfield racconta una volta di un uomo che s’impiccò perché gli era venuto a nausea il doversi sfilare e rinfilare ogni giorno scarpe e calze.
Si tratta, come si vede, dell’abitudine della specie paralizzante. E da questa stessa considerazione comprendiamo quella rinvigorente. La osservo a partire dall’esercizio: quale che sia la cosa che voglio apprendere per mezzo di esso, nella mia intenzione si trova continuamente l’identità dell’azione – fino a quando tutti gli organi sono infine entrati a servizio di quest’intenzione, l’azione è divenuta la perfezione stessa, e la coscienza è, invece, svanita. Così un acrobata non è nulla se non nel momento della sua performance, di cui ognuno conosce la paura particolare e la pressione con la quale guardiamo una vita impiegata in tal modo, e solo l’illusoria vista di un apparente arbitrio contro le leggi della gravità, della natura e delle cose desta in noi la gioia, l’idea di ogni gioia, essendo: il desiderio di mutamento. Poiché esistono infiniti gradi di sovranità sulla vita; uno dei più basilari è quello della facoltà dell’«inconsueto», e la gioia per esso.
Anche qui, la coscienza attende solamente l’inibizione e la compromissione dell’abitudine. «Fino a quando l’azione procede puntuale e soddisfacente, non è dato riconoscerne la presenza. Non appena però essa deraglia, essa irrompe rapida ed energica» (Lloyd Morgan)[16].
Quale che sia il modo in cui essa appare, l’abitudine fissa perciò il nostro passato a noi stessi e rende una «vita improvvisata» (Nietzsche) impossibile. Solo lei impedisce che, come dice James, le vie più ardue e repellenti vengano abbandonate da coloro che sono stati ammaestrati a camminarle. Platone, secondo Diogene Laerzio, e Aristotele, nell’Etica Nicomachea, sono d’accordo che essa non solo significhi molto, ma tutto. E così come il genio è in fondo poco più che la capacità di percepire le cose in modo inconsueto, così le categorie inventate dai nostri antenati – per vedere il loro mondo – ci ostacolano nel trovare le nostre. Nelle questioni dell’opinione e dell’esperienza dovrebbe sempre valere: si omnes patres sic, at ego non sic.[17]
Se dunque l’abitudine di noi stessi è il residuo della nostra storia, ossia delle ripetizioni e delle autoimposizioni, e perciò delle mancanze della nostra storia e, in essa, identica al ricordo, un’occasione continua per la regressione, allora deve essere il nostro proposito più serio quello di non lasciar formarsi alcuna abitudine e di dissolvere quelle già fissate. E nella misura in cui le nostre osservazioni svolte fino a qui sono corrette, allora abbiamo già trovato lo strumento per questo scopo. Qui infatti possiamo aspettarci un qualche soccorso solo dalla fantasia. Solo lei è in grado, e lo è senz’altro, di rendere il nostro passato definitivamente passato, di trasportare il residuo inerte della nostra materialità nel cambiamento e, allo stesso modo in cui essa rinnova la voglia d’azione del corpo, di rinfrescare in nuove opinioni [Anschauungen] la nostra indurita coscienza. E tuttavia, l’abitudine è per l’agire ciò che l’universalità è per il pensiero (Bergson). In effetti, non appena ci rappresentiamo in modo abbastanza vivo i cambiamenti delle nostre abitudini, queste sono già trascorse, e perciò una fantasia meramente ripetente è, dopo tutto, assolutamente dannosa; poiché essa significa un’irruzione delle nostre pulsioni in questo mondo puro. E se è sicuro che le nostre fantasie sono sempre più complete dei nostri ricordi, è altrettanto sicuro che noi non agiamo mai a partire da esse, bensì solo dall’idea di ciò che dovrebbe essere. Chi scambierebbe ciò che ancora ha da venire con ciò che è già stato? E quand’anco volessimo riprodurre un ricordo, questo dovrebbe affrettarsi dal passato nel futuro e porre di fronte a noi, in modo ancor più vivo, ciò che sappiamo essere alle nostre spalle[18]. Solo così, in quanto fantasie, i nostri ricordi portano con sé quello scintillante, promettente barlume che a volte ci sorprende e ci fa credere che il nostro passato sia stato più bello di quanto lo abbiamo effettivamente vissuto – mentre noi in verità sogniamo solamente un futuro più ricco di quanto non sia il presente.
Le abitudini delle nostre azioni sono tuttavia molto più semplici da sormontare che non quelle della nostra conoscenza. E tra le due quest’ultima è di certo quella più pericolosa[19]. Per chiunque voglia rendere ragione del mondo nel conoscere, e dunque particolarmente per il filosofo, è necessario un consapevole e ininterrotto sforzo di distruzione di ogni abitudine del conoscere. Perfino imparare a pensare significa in primo luogo deporre concetti acquisiti, e mille volte praticati, dal nostro ambiente. Il θαυμάζειν, allo stesso tempo origine e obiettivo della filosofia, si mette in moto solo di fronte all’inusuale, e mi pare che veda veramente ed essenzialmente le cose solo chi le vede «come se fosse la prima volta». E se ci si chiarifica che ogni cosa altro non attende che venir conosciuta per poter appunto operare, allora si comprenderà, come Descartes, la necessità di abbattere e ricominciare da capo l’edificio di tutta la nostra conoscenza[20]. E dal momento che, per formulare una volta la questione in questo modo, è la nostra storia la sola che ci separa dalla verità – (in qualsivoglia senso qui concepibile) – allo stesso modo solo la disinvoltura, l’apertura entusiastica di fronte al mondo, in breve, la buona volontà rendono possibile il passaggio in ciò che non siamo. E qui risiede il senso in cui conoscenza, amore e azione, in quanto nostre tre grandi possibilità, vogliono lo stesso in modo armonico. Una cosa forse non inutile da sapere, dato che ancora indugia il tempo dell’anima, della libertà e dell’attività, mentre quello del raccoglimento e del silenzioso riprendere fiato è giunto.
Perciò, sebbene il passato accolga in sé tutto ciò che è voluto essere; sebbene sul nostro versante del mondo nascano, dalle nostre speranze più sfavillanti, solo abitudini – dato che l’identico in noi continuamente s’isola e s’irrigidisce –: nella fantasia, in questo «pericoloso vanto dell’uomo» (Fr. Schlegel), risiede ogni possibilità di una vita autentica. Bisogna solo sapere che il mondo è tanto equo da garantire questa purissima gioia solo a chi ottempera alle richieste della serietà. Qui, non aver fallito – non smettendo mai la molteplicità dispersa della nostra costituzione di sedurci – è la condizione della fertilità della fantasia; la quale, altrimenti, ci disfa come una «salma vivente», andando dietro, senz’impegno, come l’inerzia della parte vegetativa del nostro corpo o come la nervosità di quella sensibile, solo alla sua volontà parziale. Quando essa riesce però, onnipresente com’è, a «mettere in lieve, libero e fluido movimento l’anima languida» (Goethe), essa si ritrae, lasciando il campo a un più severo signore, la volontà, per rievocare, da quel momento in avanti, come i fiori invernali, le sole gioie trascorse – che forse torneranno.
Note [1] Traduzione dal tedesco di Valerio Aparo. [2] Fatta eccezione per le citazioni dall’Etica di Spinoza (trad. it.: Spinoza, B.: Etica, Bompiani, Milano 2009) e dalla Gaia scienza di Nietzsche (trad. it.: Nietzsche, F.: La gaia scienza e Idilli di Messina, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 2013, p. 193: § 247) tutti i brani citati da Gehlen sono stato tradotti ex novo [n.d.t.]. [3] Nel saggio Kritisches zur Ganzheitslehre, «Annalen der Philosophie» V, Heft 9–10, 1926, occasionalmente sui «conditioned» e «non conditioned habits» di Watson; così come nella «Zeitschrift für Parapsychologie», Okt.-Heft 1926, nel suo esperimento di una teoria dei fenomeni occulti. [4] Dati tratti da: Burkamp, Die Kausalität des psychischen Prozesses und der unbewussten Aktionsregulationen, 1922, p. 54 ss. [5] Lo Stentor è un genere di protozoo, il cui apparato digerente è costituito da una bocca contornata di ciglia e da un canalino (esofago) retrattile [n.d.t.]. [6] Sullo stesso fenomeno cfr. Bergson, Materie und Gedächtnis, p. 31, 103, e in particolare James, Psychologie, 1920, p. 130 s. [7] Così in particolare James, op. cit., p. 256. [8] E poi prosegue: «Chissà? Forse ciò che dico potrebbe servire per una nota nel sistema. Idea grandiosa! Così almeno non avrei vissuto invano!» [9] E. Hering in: Über das Gedächtnis als allgemeine Funktion der organisierten Materie, Rede von 1870. Freud in: Jenseits des Lustprinzips. [10] Un autentico amore del Sé per se stesso sarebbe l’assolutamente demonico. Cfr. Spinoza, Ethica, V, 35: Dio ama se stesso con un Amore intellettuale infinito. [11] La durata è il concetto limite della ripetizione. Che significato ha dunque l’idea: «la mia immortalità»? [12] Esiste, oltre a tutto questo, anche la concezione di una ripetizione puramente creatrice – e dunque nuovamente non dualistica. La si trova in Eckermann, Gespräche mit Goethe (Insel. p. 443 s.). Qui egli dice: «la pianta procede di nodo in nodo e termina con il fiore e con il seme. Nel regno animale non è diverso. Il baco, la tenia procede di nodo in nodo e forma infine una testa. Presso gli animali superiori e gli umani sono le vertebre che si giustappongono l’una all’altra e terminano con la testa, nella quale le forze si concentrano. Ciò che avviene nei singoli avviene anche nelle corporazioni. Le api, anch’esse una serie di unità che si uniscono, producono allo stesso modo qualcosa che forma una fine, e che può essere considerata come la testa del tutto, il re delle api. Come questo avvenga è un mistero difficile da esprimere, ma posso dire di avere le mie idee al riguardo». [13] Quando Lloyd Morgan cerca di distinguere l’abitudine dagli «istinti acquisiti» – ciò non significa forse chiedersi se esiste una qualche possibilità di diventare nuovamente immediati? [14] Sulla base di ciò, il lettore consideri ancora le azioni dello Stentor. [15] Tra il mio sapere e le mie proprietà, le mie proprietà e le mie azioni non esiste alcuna differenza determinabile. Sono ciò che ho visto e sarò ciò che farò; farò ciò che saprò. [16] Da questo fatto alcuni pensatori (Nietzsche, Ach, Bergson, Paul Haeberlin, Lloyd Morgan) hanno dedotto una teoria della coscienza generata dall’inibizione del processo vitale. Si paleserebbero, anzitutto, disturbi nella vita organica della coscienza. Tale teoria ha un suo traguardo nella dottrina della positività assoluta del dolore di Schopenhauer. – Non è forse più semplice concepire tutto questo a partire dall’assunzione di una preferenza conoscitiva per ciò che è privo di valore? Non è forse il male il solo che volentieri e pienamente si consegna – con la spudoratezza che gli appartiene –, mentre ogni buona azione termina nell’inconcepibile, totalmente inesauribile per chi l’osserva? Non è forse per questo la compassione più arzilla della gioia condivisa, e il disprezzo più pronto che l’ammirazione, dal momento che ciò che è triste e infimo s’impone alla vista della conoscenza? Ciò che è colmo di valore e degno d’amore trascende a tal punto il conoscere che la nostra sensibilità, incapace di scrutare, trapassa in quel desiderio pressante di azione e attività che viene chiamato creativo, e che essa si limita a ripetere. Contra ancora Spinoza IV, 64: La conoscenza del male è una conoscenza inadeguata. [17] Schopenhauer, seguendo Abelardo. [18] Così per lo meno sembra nelle vere e proprie azioni. D’altro canto i ricordi possono stimolare, proprio in quanto ricordi, anche affetti molto intensi, come il rimorso o il rimpianto. È dunque come se qui il passato avesse ancora degli effetti in quanto passato e non, come altrove, in modo mediato attraverso trasformazioni indotte. Il ricordo è un argomento assai potente per quell’Idealismo che, per queste cose, per es. lo stesso Spinoza professa: cfr. Eth. III 18, IV 62: «L’uomo è affetto dall’immagine d’una cosa passata o futura col medesimo affetto di Letizia e di Tristezza che dall’immagine d’una cosa presente»; «In quanto la Mente concepisce le cose secondo il dettame della ragione, essa è affetta ugualmente tanto se la sua idea sia quella d’una cosa futura o passata, quanto se sia quella d’una cosa presente». Se un ricordo può diventare il fine di una fantasia e quindi nuovamente concreto – ossia ciò che del futuro è passato divenire nuovamente presente –, come può, questo, venir concepito se non attraverso categorie idealistiche? È difficile dire quale idea sia più raccapricciante: che nulla sia veramente passato, o che esista la caducità. [19] A Hume va il merito di aver riconosciuto per primo la violenza dell’abitudine nella nostra conoscenza. [20] Diventare folli per i più universali, impliciti e tenaci valori richiede una forza mentale fuori dal comune, e un legame intimo della coscienza con le più elementari necessità della vita, le nostre passioni. Così quando s’instilla il dubbio metodico di Descartes, il cui sorgere egli descrive in modo così vivido; quando Berkeley rifiuta i concetti universali; quando Kant scuote la fede ingenua nella realtà delle cose; oppure quando Nietzsche combatte contro la morale. In questo modo, si spiega quanto dice Descartes: «Da ciò segue che chi ha imparato meno da ciò che finora abbiamo chiamato filosofia è il più adeguato ad imparare la vera filosofia» (Scritto a Picot). Qui risiede la ragione della stima universale per l’originalità, la quale conduce sempre ad un pensiero necessario.
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Arnold Gehlen (1904 - 1976) filosofo e sociologo tedesco. Nel 1933 fu chiamato all'università di Francoforte, allontanato dall'insegnamento e costretto all'esilio dai nazisti. Nel 1934 passò all'università di Lipsia, nel 1938 passò all'università di Königsberg e nel 1940 a quella di Vienna. Alla caduta del nazismo, fu privato della cattedra. Nel 1947 fu chiamato alla cattedra di Sociologia presso la Scuola superiore di scienza amministrativa di Spira. Nel 1961 si trasferì alla Technische Hochschule di Aquisgrana, dove insegnò fino al 1969. Fu presidente della Società filosofica tedesca (1942).
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