Pubblichiamo il ritratto di Javier Heraud, poeta peruviano e membro dell'Ejército de Liberación Nacional.
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Chissà se Javier Heraud aveva letto Nizan e chissà quale eco aveva destato in lui la sfida lanciata contro una rappresentazione consolidata, consolatoria e falsa della giovinezza: «Avevo vent’anni.Non permetterò mai a nessuno di dire che è l’età migliore della vita» [1]. È probabile che conoscesse lo scrittore, visto il suo interesse per la poesia e la lingua francese che lo portarono a soggiornare a Parigi, nell’autunno del 1961, studente dell’Alliance française, in boulevard Raspail, per raggiungere la quale attraversava ogni giorno i giardini del Luxembourg, mentre le foglie cadevano e una panchina davanti al busto di Verlaine lo attendeva per una breve sosta prima della lezione. Quello che è certo è che non poté sapere se Paul Nizan aveva visto giusto, perché non gliene lasciarono il tempo. Aveva ventun anni il 15 maggio 1963, quando una raffica di colpi sparati dalla polizia peruviana lo uccise sul fiume Madre de Dios, nei pressi della frontiera con la Bolivia. Qualche tempo prima aveva scritto una poesia singolarmente premonitrice, Elegía [2], una sorta di confronto a viso aperto con la morte, questa sconosciuta di cui ignorava tutto, salvo che non avrebbe cercato di sfuggirle.
Non rido mai/ della morte./ Ciò che mi succede/ è semplice:/ non ho paura/di/morire/tra/uccelli ed alberi.
E così fu: nel bel mezzo della foresta, fra il rigoglio della vegetazione tropicale e il canto degli uccelli, la morte gli fece visita e lui l’aspettò, in piedi, un fucile in mano e gli occhi a scrutare per l’ultima volta quel punto di pura luce in cui l’azzurro del cielo si confonde con quello dell’acqua, pronti ormai a chiudersi «alla tenera/ speranza di/continuare a vivere/ancora un giorno,/un nuovo giorno [3]».
Fosse visione poetica, o ragionato esito di una scelta politica ed esistenziale definitiva o ricreazione di un modulo splendidamente lavorato da un grande poeta peruviano che lui amava molto, César Valléjo [4], o le tre cose insieme, resta che in Elegía seppe anticipare la propria morte, con un linguaggio piano, quasi colloquiale, tanto più evocativo quanto più lontano da eroici furori.
È ovvio, la morte ancora/non mi ha fatto visita, /e vi domanderete: cosa conosci, allora? Non conosco niente./Anche questo è sicuro./So, però,/ che quando/ arriverà io sarò ad aspettarla,/sarò ad aspettarla in piedi/oppure seduto a colazione./ La guarderò dolcemente/ (perché non si spaventi)/ e siccome non ho mai riso/della sua tunica, l’accompagnerò,/ solitario e solitario.
Era un ragazzo terribilmente serio, Javier Heraud: prendeva sul serio la vita e la morte, era, come scrisse il padre pochi giorni dopo il suo assassinio in una lettera inviata alla Prensa di Lima, «seriamente impegnato nella ricerca di una vita utile e di creazione» [5]. C’erano in lui un fondo di tristezza e un senso di solitudine che componevano un temperamento elegiaco che lo portava a cantare le vecchie case morte e le foglie ingiallite a terra, ma su questa acuta sensibilità da cui sarebbe potuta germogliare una poesia attenta a sollecitazioni di gusto decadente, si innestò invece, con la forza di una passione capace di cambiare un destino, lo sdegno verso l’ingiustizia di un cuore puro e di una coscienza integra. E così il giovanissimo poeta divenne un guerrigliero deciso ad imbracciare le armi, come scrisse alla madre, «por la alegría, por mi patria, por el amor que te tengo, por todo en fin». Per rovesciare la sua tristezza personale - la tristezza di un ragazzo precocemente consapevole del gran lavorio della morte intorno a lui - nell’allegria di un popolo che ritrova la libertà e, con essa, la gioia di vivere.
Javier Heraud era nato nel 1942 a Miraflores, provincia di Lima, in una famiglia benestante e sembrava destinato ad un brillante avvenire: precocemente appassionato allo studio, sin dai primi anni di scuola, frequentati in un Collegio britannico della capitale peruviana, si era segnalato per la sua intelligenza ed il suo talento artistico, fino a conseguire il primo premio di Letteratura alla conclusione del ciclo scolastico. Era poi entrato (primo in graduatoria) alla Facoltà di Lettere della Pontificia Universidad Católica del Perù e, nello stesso anno, 1958, aveva iniziato ad insegnare inglese e castigliano in un Istituto industriale, qualificandosi come professore più giovane del Paese. E a scrivere . Nel 1960, appena diciottenne, un suo lungo componimento, El río, pubblicato nella prestigiosa collana Cuadernos del Hontanar, raccolse entusiastici consensi; nel dicembre dello stesso anno riportò il primo premio nel concorso «Giovane poeta del Perù» con la raccolta di versi El viaje.
Le fotografie ci consegnano il ritratto di un ragazzo atletico (primeggiava anche nelle attività sportive), dal bel volto bruno, lo sguardo intenso e sognante.
Sembrava, insomma, promesso all’amore, al successo professionale, ai riconoscimenti accademici, alla gloria letteraria. Non fosse stato per quella morte che gli camminava paziente al fianco e per quel sudario di tristezza che avvolgeva il Perù, afflitto da povertà, corruzione, strapotere delle oligarchie colluse con gli Usa, pesanti ingerenze dei militari nella vita politica.
Vive intensamente, Javier, come se una voce interiore lo spingesse a disputare al tempo il suo magro bagaglio : in una manciata d’anni concentra tante esperienze quante potrebbero bastarne in un’intera vita. Frequenta anche i corsi di diritto alla Universidad Mayor de San Marcos, molto vivace intellettualmente, continua ad insegnare, viaggia in Europa e matura una coscienza politica. Nel 1961 si iscrive al Movimiento Social Progressista, di orientamento socialdemocratico, partecipa alle manifestazioni contro Nixon e parte per Mosca su invito del Forum mondiale della Gioventù. Si fermerà per due settimane, cercando, sulle tracce di Lenin, di Gorki e di Gagarin «di ritorno dal suo volo/con un fiore che ha colto sulle stelle, di mandar giù le mie pene/ e di tirare fuori la mia minuscola allegria, proprio lì nel centro dell’incendio,/ nel mezzo della Piazza Rossa» [6]. L’immagine che il poeta ci consegna della capitale sovietica pecca di eccessiva idealizzazione, ma bene traduce la speranza di Javier (e che fu quella di milioni di esseri umani) di avere finalmente trovato un luogo dove la vita respirasse al ritmo degli uomini, degli innamorati che si baciano sotto gli alberi frondosi, dei bimbi che giocano con gelati e palloni, mentre «i piccioni colmano tutt’intorno/l’aria ad ogni nostro passo».
Di ritorno da Mosca, si ferma a Parigi, le cui vie percorre instancabilmente chiacchierando di letteratura e Perù con Mario Vargas Llosa che lo ricorda come un ragazzo dai modi indifesi e dal carattere pacifico, con il quale ha visitato librerie e musei e passato una notte a leggere poesie. Un’altra tappa in Spagna e poi rientra in patria, da cui riparte di lì a poco dopo avere vinto una borsa di studio per Cuba. Nel frattempo, ha abbandonato il Movimiento, ritenendo che non è sufficiente proclamarsi rivoluzionari per esserlo. All’Avana, dove studia cinematografia e conosce Fidel Castro, la rivoluzione è invece una presenza viva che si tocca e si sente, si è fatta vita quotidiana di un intero popolo. Javier misura appieno la differenza con «la mia triste patria, il mio popolo imbavagliato, i tristi bambini, le loro strade spopolate di gioia». Vargas Llosa riceve da lui una lettera dai toni infuocati, traboccante di entusiasmo per l’isola caraibica che non manca di stupirlo, conoscendo l’indole calma e malinconica del suo giovane amico. Si mostra persino ottimista, improvvisamente certo che un futuro bello e grandioso attende anche il loro paese.
Javier, come non gioca con la morte, non gioca nemmeno con le parole e le idee; ha lasciato la formazione progressista peruviana per il suo inconcludente massimalismo, ha potuto constatare a Cuba che un cambiamento radicale, capace di ridare alegría ai disperati è possibile, sin dall’adolescenza è animato da un rigoroso senso di un dovere liberamente scelto. Perché non tentare in Perù, in quel momento in mano ad una giunta militare installatasi in via provvisoria fino a nuove elezioni che diano una maggioranza necessaria a eleggere il presidente in una Repubblica sconvolta dalle lotte fra avverse fazioni, ciò che è riuscito a Cuba? Intravista la strada, Javier Heraud non è uomo da non percorrerla sino in fondo.
E così si lascia alle spalle gli studi ed entra nell’Ejército de Liberacíon Nacional (Eln) con il nome di Rodrigo Machado, forse in omaggio ad uno dei suoi poeti prediletti, lo spagnolo Antonio Machado, un verso del quale (la vita scende come un ampio fiume) aveva collocato in epigrafe al suo componimento El río. Un’altra premonizione, in un’esistenza che sembra scritta da un romanziere alla ricerca di corrispondenze e rimandi che traccino il cerchio di un destino tragico. La sua vita, infatti, di lì a non molto scorrerà fino all’ultimo respiro su un ampio fiume, il Madre de Dios, a 4000 Kilometri dall’Avana.
L’Eln, di ispirazione comunista, è presentato da uno dei suoi fondatori, Héctor Béjar, come una libera associazione di rivoluzionari senza particolari affiliazioni politiche, nella convinzione mutuata dall’esperienza castrista che, prima ancora del partito, viene l’azione.
Parte dalla capitale cubana nel gennaio del 1963 con un gruppo di militanti decisi ad aprire un fuoco di guerriglia in Perù, con l’appoggio del Che [7]. L’intenzione è quella di entrare clandestinamente nel paese attraverso il confine boliviano e raggiungere la valle della Convencíon y Lares dove era in corso una lotta contadina guidata da Hugo Blanco, il dirigente trotskista della Confederación Campesina del Perù; lì aprire un fronte armato da estendere poi su tutto il territorio nazionale. Secondo la ricostruzione fatta dal corrispondente de El Comercio, Jorge Díaz, che cercò di ripercorrere con precisione la drammatica vicenda [8], i quindici raggiungono in aereo Rio de Janeiro, poi su camion Sao Paulo, da dove prendono il treno per la città boliviana di Cochabamba, dalla quale si dirigono a Santa Cruz. Qui, il viaggio si fa durissimo, attraversano El Beni, dipartimento della selva, a dorso di muli, spacciandosi come compratori di castagne. Infine, penetrati in territorio peruviano, con l’aiuto di una guida giungono nel pomeriggio del 14 maggio nei dintorni di Puerto Maldonado, capoluogo della regione Madre de Dios, ai margini della foresta amazzonica.
Esausti, infangati, in cerca di medicine per combattere una grave infezione parassitaria causata dalla puntura di una zanzara della selva, l’avanguardia del gruppo, guidata da Alaín Elías e composta da sei guerriglieri fra cui il poeta, si presenta la sera in un hotel della cittadina, destando immediatamente i sospetti del personale; sembra, comunque, che già circolassero voci sulla presenza in zona di un manipolo armato e che le forze dell’ordine fossero in allerta. In breve, giunge un ufficiale di polizia che chiede loro i documenti. Di fronte al loro rifiuto, chiama i rinforzi e il gruppo viene condotto alla prigione locale. Durante il tragitto, uno dei guerriglieri spara ( le armi se le erano procurate in Bolivia grazie al Partito Comunista Boliviano) e colpisce mortalmente un agente. I suoi colleghi feriscono a loro volta due ragazzi, mentre nel trambusto che ne segue gli altri riescono a scappare. Javier e Alaín [9] trovano rifugio in un cayuco, una piccola canoa indigena, prontamente inseguita sul fiume dalla polizia. C’è una sparatoria, qualcuno, aizzato dalle guardie, tira anche dalla riva, il barcaiolo e un poliziotto cadono, Alaín è ferito al collo e non riesce più a remare, la barca è alla deriva, i due fuggitivi alzano bandiera bianca, ma continuano ad essere bersagliati dalle pallottole. L’avvocato Jorge Cricet Heraud, padre di Javier, accorso a Puerto Maldonado per riconoscere il cadavere dichiarò che sul corpo del figlio erano stati rinvenuti trenta colpi, alcuni di un proiettile esplosivo utilizzato solitamente per la caccia grossa.
Grandi furono la sorpresa, lo sconcerto e gli interrogativi sollevati dal brusco passaggio del giovane poeta da enfant prodige delle lettere peruviane a guerrigliero ucciso nel corso di un conflitto a fuoco, tanto più che quanti lo conoscevano e stimavano ne avevano tratto l’impressione di un ragazzo riflessivo, gentile, dai gesti parchi e tutto dedito allo studio. Eppure, è proprio nelle sue naturali disposizioni – quella purezza d’animo, quella generosità, quel disinteresse e candore che amici e familiari gli riconoscono unanimemente – che va cercata la molla profonda che lo spinse ad una scelta senza ritorno. E nella sua poesia.
Ha avuto però inizio molto prima:/accadde in aprile (crudele e morbido aprile)/quando una mattina ci trovammo d’accordo. Come finirà tutti potranno saperlo. ( Sono stufo e non finisco questa poesia). Ma vado a combattere ed in battaglia/ per amore del mio paese, dei miei paesaggi,/per amore dei poveri della mia terra,/ per amore di mia madre, del suo affetto,/ per amore di mio padre, della sua durezza,/ per amore dei fratelli e degli amici,/ per amore della vita e della morte,/per amore delle cose di tutti i giorni, /per amore dei giorni dell’autunno, /per amore dei freddi dell’inverno [10].
Il Poema especial trova, d’altra parte, perfetta corrispondenza nella già citata lettera alla madre che Javier scrisse prima di partire dall’Avana e che lasciò alla moglie di un compagno, con la richiesta di consegnargliela qualora egli fosse morto nel corso dell’impresa progettata. Lo studente che imbraccia le armi per la gioia, per il Perù, per l’amore filiale, ringrazia la madre di averlo cresciuto «onesto e giusto, amante della verità e della giustizia» e la invita ad affrontare il dolore della perdita con la consapevolezza che il sacrificio del figlio è pegno di speranza per un Paese rinnovato.
Sembra, dunque, che Javier abbia preso le armi per troppo amore, un amore attinto dall’universo intero, un legame viscerale con le diverse espressioni del mondo – paesaggi, uomini e cose – che impone una straordinaria assunzione di responsabilità, un impegno personale inderogabile da assolversi con urgenza.
Il Poema especial non solo ci permette di gettare uno sguardo veritiero su una scelta difficile che a molti parve incomprensibile, ma ci salva dalla facile tentazione di trasformare un ragazzo morto da guerrigliero in un angolo sperduto della foresta amazzonica in un eroe imbalsamato nella sua impossibile avventura. Niente di più prosaico, ma neppure di meno scontato, dell’ «amore delle cose di tutti i giorni», niente di più comune dell’attaccamento per la propria famiglia o di più tradizionale della devozione alla patria. È nell’intima adesione agli affetti radicati sin dall’infanzia che l’amore di Heraud diventa sentimento universale sospinto dalla necessità di tradursi in azione, in una prospettiva salvifica (sono nuovi soli di salvezza che egli cerca) cui le mille sconfitte e il successivo disincanto che noi abbiamo attraversato non possono togliere il suggello dell’autenticità.
È proprio l’ispirazione intimista del poeta adolescente (alla quale non è estranea qualche suggestione modernista nel solco, così fecondo in America Latina, di Rubén Darío) che lo porta progressivamente, come originale sviluppo della stessa, alla presa di coscienza politica [11]. Il viaje che dà il titolo alla sua seconda raccolta, soffermandosi sul suo itinerario spirituale, con le partenze e i ritorni da una casa che è anzitutto luogo dell’anima, la scoperta che «la vita è solitudine fra gli uomini», la presenza discreta ma insistente della morte è l’anticamera per il lungo, faticoso e pericoloso viaggio che da Cuba lo porterà in piena foresta amazzonica, fino a quel río dove ad attenderlo è una battuta da caccia grossa.
D’altra parte, la raccolta si concludeva su un amaro epilogo: «sono soltanto/ un uomo triste/ che esaurisce le sue parole».
Finite le parole, gli restava la vita: così l’amico e critico letterario Sebastián Salazar Bondy provò a comprendere e spiegare la radicale scelta di Javier, il quale, tuttavia, non arrivò davvero a prendere congedo dalla poesia come, quasi un secolo prima, il suo coetaneo Rimbaud, ben deciso a divenire un altro nelle solitudini degli altopiani etiopici. La poesia continua ad offrirgli «un lampo meraviglioso, / una pioggia di parole silenziose, / un bosco di palpiti e speranze, /il canto dei popoli oppressi, /il nuovo canto dei popoli liberi»[12]. La poesia, dunque, da viaggio interiore ad arma di liberazione e naturale forma d’espressione dell’uomo finalmente libero, senza per questo tradire la sua più intima ispirazione che porta a cogliere, a partire dalla propria, quell’universale sofferenza dalla quale scaturisce un sentimento di umana fraternità e un conseguente impulso o, meglio, ragionata decisione di agire.
E così, «armati di parole e fucili, / armati di ansie nuove» [13], lui e i suoi compagni, in maggior parte studenti, dopo un periodo di addestramento a 2000 metri di altezza sul Monte Tarquinio [14] varcarono la loro linea d’ombra, approdarono d’un colpo a una tragica maturità. I fucili non furono abbastanza potenti per sostenere la loro nuova ansia di rifare il mondo e andarono presumibilmente ad arricchire la riserva d’armi del posto di polizia di Puerto Maldonado, dal nome presago di sventura, in una storia che sembra tutta cucita con il filo inesorabile di segnali premonitori. Le parole di Javier continuano a zampillare, pure e intatte e ad accendere qui e là ancora nuove ansie.
La concezione militante della poesia cui giunge il ragazzo in procinto di impegnare a fondo la propria esistenza su una strada dove di certo c’è solo il rischio mortale non prevede, però, scorciatoie, non rinuncia alla ricerca formale e non si appiattisce in proclama o appello. Forte è la consapevolezza, in Arte poética, che «la poesia è un lavoro difficile / dove si perde o si vince / al ritmo degli anni autunnali»: il tempo fa giustizia dell’illusione giovanile che essa scaturisca dalle mani del poeta come un dono elargito dalla natura e si trasforma in «un lavoro da vasaio,/ argilla che si cuoce fra le mani, /argilla modellata da fuochi fulminei».
Se gli mancò il tempo di diventare un paziente artigiano della parola, seppe tuttavia maneggiare con perizia le scintille di un’ ispirazione che traeva forza da una lingua luminosa e nitida e dal dialogo profondo tra esperienza interiore e mondo, tra lo spazio domestico con la sua buccia e i vasti paesaggi della sua terra, tra nostalgia per un passato da disputare alla distruzione e proiezione verso un futuro tutto da costruire. Gioca un ruolo essenziale in questa tensione creativa un’attenzione mai sciatta e quasi dolorosa per «le cose di tutti i giorni», alle quali la poesia regala un respiro più grande che batte al ritmo di quello dell’ universo. Il punto è che, come poeta e come uomo, questo ragazzo aspira alla totalità, alla ricomposizione dei contrari, alla cucitura della ferita che essi rappresentano per un animo straordinariamente sensibile quale il suo e fortemente segnato da una precoce formazione letteraria.
Non desidero la vittoria, né la morte / non desidero la sconfitta né la vita, / solo desidero l’albero con la sua ombra, / la vita con la sua morte [15].
La rivoluzione è l’altra faccia dell’assoluto e condizione di una ritrovata comunità con gli uomini. Se essa mancò all’appuntamento, Javier trovò, tuttavia, l’albero con la sua ombra e la vita con la sua morte e proprio in una cornice familiare al suo mondo poetico: un ancho río, un grande fiume. Nell’ultima parte del componimento che lo aveva consacrato poeta più giovane del Perù, geniale promessa per la letteratura sudamericana, l’impetuoso fiume giunge dopo un lungo cammino attraverso campi, pascoli e città sino all’Oceano e deve rinunciare al suo canto luminoso, alle sue grida furiose, alle sue limpide acque per mescolarsi con quelle torbide del mare.
Verrà il giorno,/ e nei mari immensi/ non vedrò più i miei campi/ fertili,/ non vedrò i miei alberi/ verdi,/ il mio vento intorno/il mio cielo chiaro,/il mio lago scuro,/il mio sole,/le mie nubi, non vedrò nulla,/nulla/unicamente il cielo azzurro, immenso,/ e/ tutto si dissolverà in/ una pianura d’acqua,/ dove non saranno canti o poesie,/ solo piccoli fiumi che scendono, / fiumi abbondanti che scendono a unirsi/ nelle mie nuove acque luminose, acque/ spente [16].
Sul Madre de Dios, in piena foresta amazzonica, la canoa indigena che aveva raccolto Javier e Alaín in fuga da Puerto Maldonado arrestò bruscamente la sua corsa, mentre tutt’attorno gli alberi proiettavano la loro ombra maestosa sulle acque e gli uccelli cantavano indifferenti la stessa canzone dall’inizio dei tempi. La Vita remava faticosamente, la Morte scivolava veloce sulle lance della polizia, la poesia voltava la testa dall’altra parte d’altronde, non era la prima volta che la si assassinava) e il fucile da due soldi recuperato in Bolivia era più inutile dei remi. Intorno all’enfant prodige delle lettere peruviane, primo premio di tanti concorsi scolastici, professore più giovane del Paese, amatissimo figlio di una famiglia della borghesia di Lima, guerrigliero per amore della pienezza della vita, si confusero l’azzurro del cielo e delle acque e gli alberi e gli uccelli.
….alla fine morirò
in una sera qualsiasi
fra uccelli
e alberi [17].
Note [1] P. Nizan, Aden Arabia, La Découverte/Poche, Paris 2002, p. 55. [2] La poesia è tratta dal volume, a cura di Julia Maciel, Tre poeti assassinati, Vallecchi, Firenze 1978 , pp. 107-9, che propone all’attenzione del lettore italiano una breve presentazione di Roque Dalton, Javier Heraud e Francisco Urondo ed alcuni loro componimenti, in lingua spagnola e in traduzione italiana. Javier Heraud è presentato dagli scrittori Mario Vargas Llosa che lo incontrò e intervistò a Parigi, Julio Ramón Ribeyro, il quale sottolinea che per la prima volta dall’epoca di Mariano Melgar – il poeta che aveva combattuto nell’Ottocento per l’indipendenza del Perù ed era stato fucilato dai realisti – un artista non si limita a contestare l’ingiustizia sociale, ma paga con la propria vita la coerenza con le proprie idee e Sebastián Salazar Bondy che aveva pubblicato una nota sul suo lungo poema El río. [3] Cfr., La poesia, ivi, pp. 97-99. [4] Cfr.. C. Vallejo, Pietra nera sopra una pietra bianca, in Poesia delle Americhe Ottocento e Novecento, Skira, Milano 1997, pp. 530-3: «Morirò a Parigi con la pioggia, / in un giorno del quale ho già il ricordo./ Morirò a Parigi – e non esagero – / forse, come oggi, un giovedì d’autunno», (traduzione di Roberto Paoli). [5] La lettera è riportata in Tre poeti, op. cit., pp. 89-90. [6] Piazza Rossa 1961, ivi, pp.117-9. [7] Illustra il progetto una fonte interna allo stesso E.L.N. , consultabile su https://web.archive.org/web/20170115092653/http://perso.wanadoo.es/guerrillas/movguerrperueln.htm [8] https://web.archive.org/web/20130616015015/http://blogs.elcomercio.pe/huellasdigitales/2013/05/javier-heraud-a-50-anos-de-una.html ; la ricostruzione concorda essenzialmente con le informazioni reperibili sula pagina dell’Eln segnalata alla nota precedente. [9] Sopravvissuto, racconterà anni dopo quella tragica mattina: https://web.archive.org/web/20130613225553/http://www.larepublica.pe/15-05-2013/heraud-el-poeta-que-murio-entre-arboles-y-disparos; cfr. anche la già menzionata lettera del padre. [10] Poema especial, in Tre poeti, op.cit., p. 123. [11] È significativo che nell’intervista radiofonica sulla poesia peruviana contemporanea rilasciata nel settembre 1961 a Parigi a Vargas Llosa, non ancora convertito alle virtù del neoliberismo, Heraud abbia sottolineato che la contrapposizione tra poesia pura e poesia sociale non ha più ragione d’essere; cfr: https://www.vallejoandcompany.com/dialogo-inedito-vargas-llosa-heraud/ [12] Arte poética, in calce alla quale l’autore pone, significativamente, due date: Madrid, 1961 e L’Avana, 1962, in Tre poeti, op.cit., p.125. [13] Poema especial, cit. [14] Il Pico Tarquinio, con i suoi 1974 metri, nel cuore della Sierra Maestra è il punto più alto di Cuba. [15] Khrisna o los deseos ( Khrisna o i desideri) che si può leggere su https://www.marxists.org/espanol/heraud/poemarios/viaje/index.htm che offre diversi componimenti e lettere di Heraud in lingua originale. [16] El río è consultabile ivi; è stato tradotto in italiano dall’ambientalista Franco Sotgiu : http://francosotgiu1.blogspot.com/2012/11/javier-heraud-el-rio-il-fiume.html. I versi qui proposti prendono le mosse da tale traduzione, con qualche rimaneggiamento da parte di chi scrive. [17] L’opera di Javier Heraud, amata e letta ancora oggi in Perù, è pressoché sconosciuta in Italia; le sole traduzioni disponibili, a quanto mi risulta, si riducono ad una decina di poesie
(di cui alcune sono dei frammenti di composizioni più vaste) pubblicate su Tre poeti op. cit., testo ormai fuori commercio e alla traduzione integrale de El río, consultabile in rete. Per una presentazione del poeta, rinvio anche al mio http://blog.petiteplaisance.it/javier-heraud-1942-1963-non-rido-mai-della-morte-s. Il regista Javier Corcuera gli ha dedicato nel 2019 un film, visionabile su https://filminitaliano.org/153357-el-viaje-de-javier-heraud.html
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Fernanda Mazzoli. Si è occupata di letteratura orale e processi di stregoneria, lavorando in particolare su fonti ungheresi e collaborando con alcune riviste; ha pubblicato nel 2016 per Sensibili alle foglie un testo sulla deriva aziendalistica della scuola pubblica (insegna in un Liceo linguistico), Scuola liquida. La liquidazione della scuola pubblica, ha curato nel 2019 una nuova traduzione de L’insurgé del comunardo Jules Vallès per Petite Plaisance che ha editato nel 2020 il suo racconto Di argini e strade. Un racconto di pianura e nel 2022 il saggio In viaggio con Pinocchio. Collabora con la redazione della rivista «Koiné» e scrive recensioni sul blog Invito alla lettura della casa editrice Petite Plaisance.
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