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La letteratura nell’epoca delle previsioni



Questo intervento è apparso in una prima stesura su Nazioneindiana nel 2019. Lo ripresento qui in forma modificata perché mi sembra che tocchi alcuni aspetti del discorso pubblico particolarmente presenti oggi. g.m.


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La nostra vita è costellata di previsioni che condizionano in maniera sempre più vincolante il presente. Dalle simulazioni demografiche alle variazioni del PIL e del debito pubblico, dalle professioni più ricercate fino agli elenchi delle prossime scoperte e invenzioni, anche le statistiche e la divulgazione scientifica incorporano sempre più futuro. Questa attività previsionale, nelle sue forme ufficiali, è rivolta perlopiù a fenomeni singoli, a differenza dello storicismo ottocentesco che mirava a cogliere leggi e tendenze generali, ed è basata su metodi quantitativi, calcoli e misurazioni di vario genere; quest’ultimo aspetto la distingue da alcune forme previsionali dell’antichità come l’aruspicina. Un altro aspetto che differenzia l’attuale forma di previsione è che le teorie in base alle quali essa è formulata sono falsificabili. Proprio qui sorge un primo problema concreto, lasciando da parte tutto il dibattito epistemologico sulla falsificabilità di una teoria, ossia che nell’ambito economico, che per più di un motivo occupa una posizione di assoluta centralità nelle nostre società, tutta una serie di operazioni finanziarie compiute da governi e da privati deve ricorrere per obbligo di legge all’attività previsionale di specifiche istituzioni, solitamente private. É evidente pertanto che, laddove sussiste un obbligo di legge nel ricorrere a previsioni formulate secondo certi modelli teorici da istituzioni autorizzate, questi non possono essere falsificati, se non andando contro la legge. Infatti l’attività del soggetto autorizzato per legge a compiere previsioni non è posta sullo stesso piano di quella dei falsificatori e finché la legge glielo permetterà potrà riproporla senza discutere alcuna obiezione, mentre naturalmente un’attività critica di questo genere presuppone una comunità tra pari per svolgersi liberamente. É questo il caso, per citare quello più significativo, delle agenzie di rating che nelle loro previsioni, a fronte di numerosi errori di fatto e di pesanti e circostanziate contestazioni del loro impianto teorico, continuano a esercitare la loro attività secondo le prerogative che la legge loro attribuisce.

Questa situazione, assolutamente inedita nella modernità perlomeno nelle democrazie, ha anche delle ricadute su tutte le forme di discorso pubblico. In primo luogo si assiste all’uso di gerghi specialistici in funzione enfatica: è il caso di quella che Jean Paul Fitoussi ha chiamato la neolingua dell’economia, chiamando così la tendenza a ribattezzare con nuovi termini concetti e fenomeni già conosciuti per impedirne il riconoscimento, come accadeva in 1984 di Orwell. Altrettanto importante è la tendenza della discussione a privilegiare nuove previsioni rispetto alla verifica dell’attendibilità di quelle precedenti (in altri termini, l’oggetto principale del discorso nel 2019 saranno le previsioni per il 2020 e non la verifica della correttezza di quelle del 2018 relative al 2019): tale tendenza finisce con il produrre l’impressione nel pubblico di un’inesorabilità delle previsioni nel descrivere attendibilmente il futuro e con l’indurlo a trascurare tutti quegli aspetti del presente che non sono oggetto di previsione. Un’altra, più complessa, potrebbe essere chiamata la performatività indiretta della previsione. Infatti assistiamo al proliferare nel discorso pubblico di previsioni che, sebbene non formulate secondo quei crismi che ho esposto sopra e magari riguardanti ambiti diversi dall’economia, finiscono con l’orientare pesantemente comportamenti nel presente. Producono un tale effetto, ovviamente, solo quelle previsioni che provengono da individui o istituzioni autorevoli ossia in possesso dell’autorizzazione legale o simbolica di fare previsioni. É il motivo per cui assistiamo all’intervento di economisti anche in ambiti di dibattito quali l’istruzione, la sanità o la tutela dell’ambiente che non sarebbero nelle loro competenze, anzi proprio in questi ambiti le previsioni per il futuro sono la fonte di comportamenti e scelte presenti. Per spiegare questo particolare situazione bisogna ricordare che i performativi nella teoria degli atti linguistici è una classe di verbi esecutivi che nel momento stesso in cui vengono enunciati realizzano l’azione (per esempio «Vi dichiaro marito e moglie»), tuttavia nota Emil Benveniste (Problemi di linguistica generale, trad.it. 2010, p.327) che i performativi non sono definibili solo con categorie logiche e grammaticali, ma dipendono anche dalle circostanze sociali concrete extralinguistiche nelle quali sono detti: per esempio se non è un pubblico ufficiale autorizzato a pronunciarle, «Vi dichiaro marito e moglie» sono semplici parole in libertà. Così parole come «Prevedo che il sistema sanitario pubblico sarà entro breve tempo al collasso» diventeranno un atto linguistico, non in senso rigorosamente logico, ma indirettamente in quanto causa di conseguenze pratiche, se a pronunciarle sarà chi è autorizzato a far previsioni.

Questi esempi, a mio avviso, dimostrano che la previsione è ormai diventata una procedura che regola l’ordine del discorso con molta più efficacia di altre tradizionali, quali la censura o l’interdetto, perché organizza il discorso intorno al principio d’autorità senza però un’azione esplicita di divieto da parte dell’autorità in questione, cioè celando l’esistenza di questo principio. Infatti la previsione esclude quegli elementi di cui non vuole parlare semplicemente rendendoli irrilevanti come privi o non degni di futuro. Non è un caso che la contestazione più dura di questo nuovo principio d’autorità con la celebre battuta sul diffidare delle previsioni di astrologi ed economisti sia venuta da Joseph Ratzinger, cioè non solo da un pontefice, ma da un teologo che ha impostato tutto il suo lavoro teorico sul recupero per la Chiesa di quel principio d’autorità che già nella tarda modernità era finito irrimediabilmente in altri mani.

Benché questo stato di cose non abbia a che fare direttamente con la parola letteraria, essa in qualche modo ne risente. La parola letteraria è quella che nel corso della modernità mantiene un rapporto con la parola profetica, già scomparsa all’inizio della modernità e sostituita dall’utopia, anzi in un certo senso è propria la modernità letteraria a realizzare pienamente l’accezione biblica del termine profezia, che non è quella di predizione del futuro, ma è la critica del male presente nel mondo, in particolare «la profezia nell’Antico Testamento rappresenta sostanzialmente la contestazione del potere politico e sacerdotale dominante da parte di un personaggio escluso o – diremmo oggi – esterno al sistema, che sa leggere i segni del tempo aldilà degli interessi consolidati e rappresenta la voce di Dio per la condanna dell’ingiustizia e la proclamazione di un cammino di redenzione, di pace e di salvezza del popolo ebraico» (Paolo Prodi, Il tramonto della rivoluzione, 2015, p.29). É per esempio la condizione del flâneur baudelairiano, che Benjamin mette all’origine della poesia della modernizzazione capitalistica, quella che evidenzia meglio l’eredità della parola profetica nell’accezione sottolineata da Paolo Prodi. Chi è infatti il poeta flâneur, se non colui che per la sua oziosità e quindi marginalità al sistema produttivo diventa acuto osservatore critico della società del lavoro capitalistico e per la sua radicale malinconia implicito portavoce di un’altra vita e, talvolta di un’idea utopica di giustizia? Questa eredità della parola profetica nella letteratura non è uno stile né un genere di discorso né tanto meno una serie di contenuti impegnati, ma è la posizione, sociale e morale, da cui lo scrittore fa partire il proprio discorso ed entro la quale organizza la propria esperienza. È insomma la condizione simbolica entro cui si trova a operare lo scrittore. Nella fase postmoderna questa eredità della parola profetica viene liquidata sia perché assistiamo alla fine dell’utopia, e con essa di ogni altrove possibile, sia perché contestualmente il successo di mercato diventa l’unica forma socialmente accettabile di legittimazione di un’opera letteraria. Naturalmente questa forma di legittimazione è secondaria e subordinata rispetto a quella principale di chi detiene l’autorità per fare previsioni, ma è l’unico modo in cui la parola letteraria può ambire a una considerazione pubblica. E tuttavia, qui assistiamo a una curiosa deriva dialettica: la parola letteraria legittimata dal successo di mercato nel discorso pubblico non può richiamarsi semplicemente a questa forma di legittimazione perché il fine ufficiale del discorso pubblico è stabilire la verità o, quanto meno, un’opinione condivisa. Per tutto il resto la parola letteraria diventa parola privata.

Man mano che si realizza quell’ordine del discorso che vede nella previsione il suo dispositivo principale non è solo la parola letteraria che diventa privata, ma ogni discorso che non è compreso nel meccanismo di previsione. I poeti si lamentano (per la verità da parecchi secoli, ma con più frequenza negli ultimi anni) che la poesia non conti più nulla, ecco si può dire che sotto questo aspetto, e solo sotto questo aspetto, ogni forma di discorso si poetizza a fronte dell’inesorabilità della previsione. Eppure la previsione, per quanto gerarchicamente posta in una posizione chiave, non può sostituire tutte le forme del discorso pubblico. Ci sono alcuni ambiti in cui la previsione non è efficace o non viene riconosciuta come autorevole e quindi in questi contesti regna una certa anarchia del discorso.

Ora la parola letteraria può conservare in sé una traccia del suo precedente statuto pubblico nella letterarietà ossia nell’inserirsi consapevolmente in una tradizione. Questa formula astratta significa nello specifico che opere che dialogano testualmente in forma diretta o allusiva con la tradizione del passato, dell’epoca in cui la letteratura era un discorso pubblico, potranno essere riconosciute nel futuro come la continuazione di un discorso in un’epoca che sembra averlo cancellato. Questo elemento di letterarietà non è così trascurabile perché ha in sé uno spirito storico in rottura con il presente e di consapevolezza che ciò che è passato non è del tutto passato, ma si rivela una possibilità alternativa del futuro. La parola letteraria, per quanto squalificata dal suo non poter fare delle previsioni riconosciute socialmente (non soddisfacendo il criterio logico di falsificabilità), in questi ambiti non ben governati del discorso pubblico può trovare il punto di uscita dalla dimensione privata verso una nuova dimensione pubblica.



Immagine

Elaborazone da un’opera di Vitaldo Conte.


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Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo (2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). È stato redattore di «alfapiù», supplemento in rete di «alfabeta2», e attualmente del sito letterario «Nazione Indiana».


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