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La Gola

Mensile di cibo e delle tecniche di vita materiale



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In via Caposile 2, a Milano, ora c’è una farmacia dove un tempo aveva sede la Cooperativa Intrapresa e dove è nata «La Gola». Per molti che vi avevano collaborato sarebbe stata meglio un’agenzia di pompe funebri, a tal punto la morte di Gianni Sassi e di Antonio Porta ha segnato la fine di un decennio felice per la storia di Milano e per la «cultura materiale». Questo termine era stato plasmato proprio lì, in piazza Martini, quando si era cominciato a pensare a una rivista sul cibo, sull’alimentazione. La parola food non circolava ancora, e si preferiva con materiale alludere al materialismo (storico) e ironizzare su di esso.

L’idea di una rivista era nata in Gianni Sassi e la trasmetteva all’interlocutore con la pacata autorevolezza di chi mette a nudo un vuoto culturale in una città che, a guida socialista, sembrava invece gettare uno sguardo supponente su tutta l’Italia. Perché «La Gola»? Era una scelta leziosa se portata nei festival dell’Unità, irriverente per il peccato di cui era stata tacciata, insolita per letterati e professori e per ogni genere di talenti che vi scrivevano.

Il primo numero, dell’ottobre 1982, non giustificava tale scelta, e del resto non si apriva con un editoriale. Antonio Attisani, facente funzione di direttore, aveva condotto «Sipario» e recitato al Piccolo Teatro in Joaquin Murieta. Al vertice, occulto, c’era l’art director Gianni Sassi che l’aveva immaginata e ne componeva i numeri? Anche questo resta incerto, perché la struttura era aperta a collaboratori occasionali e assidui, e il comitato di direzione era destinato a svuotarsi e riempirsi di lì a poco. Se ne andrà subito Gianni-Emilio Simonetti, quindi Claudia Monti e ancora Francesco Leonetti, compresente in «alfabeta» Nanni Balestrini era fuoruscito, e solo due nomi appariranno sino alla fine, Antonio Porta e Marco Maria Sigiani. Una struttura fluida era l’unica che la cultura materiale si potesse permettere, evitando collusioni con l’industria, l’università, l’editoria e la politica. Solo intellettuali autodidatti che «La Gola» contribuirà a formare.

Entrando in via Caposile 2 il progetto era visibile nei cartelloni che Sassi aveva disegnato per la Coop; si prendeva un corridoio e a destra c’era la stanza dei grafici, più oltre si finiva nella sala di redazione e nello studio di Sassi, scrivania, divano (dove si appisolava alle due) e la Tavola sparecchiata di Spoerri su una parete. La Tavola era, se non il programma, l’occulto suggeritore di quello spettacolo grafico e culinario, e lo si capiva in mille modi: Sassi citava le avanguardie e in esse collocava «La Gola», sollecitava nei collaboratori la voglia di non sentirsi tali ma di far parte di un’azione apparentemente gastronomica, in fondo artistica. C’era e non c’era quando, un giorno alla settimana, si riuniva il gruppo dei collaboratori, con qualche faccia nuova, oppure compariva per disegnare ai presenti il contributo di un giovane artista al numero programmato per il mese seguente. A ogni uscita il mensile si apriva al nuovo, senza che si percepissero gerarchie o servizi, articoli commissionati. Del resto la Tavola di Spoerri, più che sparecchiata, rappresentava una fine pasto con mozziconi di sigarette e serviva anche a liberare gli ospiti e a farli parlare liberamente. Si fumava molto in via Caposile.

Ma, al di là dei primi numeri, «La Gola» come cresceva? Con l’autorevolezza che la penna prestata alla cultura alimentare da professori di lingue, poeti, bibliotecari, scrittori, giornalisti, architetti, storici dell’arte e dell’agricoltura, filosofi del design e un italianista, Emilio Faccioli, conferiva a un campo poco conosciuto dalle scienze umane, gestito da medici e, solo recentemente, da tecnologi. Uno di questi ultimi, Marco Riva, li abbandonava per venire alle riunioni.

Gli anni Ottanta erano aperti a tutti, scienza e storia e Rai. Si seguiva la sera Di tasca nostra di Tito Cortese che affrontava comparativamente prodotti e marche, ma a un certo momento guardavo attentamente lo spot pubblicitario di un olio sceneggiato da Antonio Porta, e avevamo accolto un alto dirigente di corso Sempione, Folco Portinari. Non era la Rai degli chef, e gli spettacoli organizzati da Sassi, le feste alla Besana, ripetevano la 24 ore di Erik Satie, piani a coda coperti di frutta, realizzati dal musicista Walter Marchetti, che i presenti piluccavano.

Come tenere insieme pensieri, atti e cibi cosi diversi? Considerando la cultura alimentare un punto di convergenza e di unità intorno a temi, come il pomodoro, come il colore, che trovavano negli stessi artisti, amici di Sassi, un interesse, una risposta immediata. Dopo la fine della «Gola» industria e produzione tradizionale, cibi in scatola e prodotti tipici divorzieranno violentemente rappresentando due facce del fabbisogno, e soprattutto dei suoi valori incarnati, per il nuovo fronte, da biodiversità, sostenibilità e ambiente. Ma per tutti gli anni Ottanta, in via Caposile, si è costruito un baricentro che permetterà alla cultura materiale di diventare la culla di neonate discipline alimentari e gastronomiche.

L’interesse per l’innovazione era quello non di una università ma di un’avanguardia capace di proporre il primo concorso di design del pane, e di celebrare a Feltre, nel corso del Pranzo del porco e del pavone, un banchetto che riconduceva a una cultura rinascimentale di cui i lettori erano particolarmente ghiotti. Ai Solisti Veneti fu richiesto il commento musicale. Il fatto che in nessuna università italiana, tranne forse nella Bologna di Piero Camporesi, si istituissero seminari o corsi su temi analoghi, e soprattutto sulla nascita di una cultura alimentare specificamente italiana, ha fatto della «Gola» un referente forte e tanto durevole che, dopo la sua chiusura, entrerà immediatamente nella storia.

Anche progetti di lungo periodo, al loro nascere, si sono confrontati con essa. La creazione di «Arcigola» da parte di Carlo Petrini nel 1986, dalla quale scaturirà il movimento Slow Food, fu favorita dal riconoscimento della rivista milanese e del suo peso culturale e mediatico. Non era un percorso univoco né parallelo, perché lo spirito associativo era quanto mai estraneo a via Caposile, dove tuttavia ogni visione del futuro e di quel passato vicino, che cominciava ad affascinare i piemontesi di Bra, richiedeva attenzione, un articolo, un numero. L’identità cittadina e milanese di Sassi, di Antonio Porta, di me stesso, nuovi coordinatori dopo la dipartita di Attisani, e della «Gola» medesima in un quartiere popolare, non periferico, vicino all’Ortomercato nelle due versioni di corso XXII Marzo e via Lombroso, restava tuttavia il perno di ogni nuova prospezione. Legami forti esistevano con Milano poesia e un antagonismo tacito e pesante con le giunte socialiste di Palazzo Marino e con gli intellettuali stipendiati che esse schieravano a propria difesa. La divisione politica, a sua volta, doveva esser letta con il fatto che in via Caposile erano ascoltati tutti, ex banda armata, borghesi provinciali, collaboratori dell’«Unità», uomini del marketing, e invitati, se il loro apporto appariva interessante, a scrivere. Quanto al Pci, che nel 1984 aveva perso Berlinguer, era da curare, da ricostituire portando nelle feste dell’Unità, al posto delle famigerate salamelle, la cucina creativa di Decio Carugati.

Due formati, quotidiano (1982-1986) e tabloid (1987), poi la chiusura nel 1988. Chi vi lavorava avvertiva la fragilità di un’impresa guidata dal libero pensiero e volta all’impegno intellettuale, portato avanti con metodo, fonti documentarie, idee dibattute, disegni d’artista, ma poco incline a mercanteggiare e a vendere l’anima al miglior offerente. Neanche i vini di Antonio Piccinardi, nel più perfetto stile marketing, bastavano ad alimentare l’impresa, e la moda, con Cinzia Ruggeri, appariva sperduta, isolata in quella immensa, frequentatissima cucina.

Era un’avanguardia che, malgrado nel primo numero fosse apparsa la pubblicità dell’M20 Olivetti, non aveva computer in sede, e Sassi vegliava sulle operatrici che con le forbici e la colla componevano ogni singolo numero. Un suo grido davanti a un lavoro imperfetto poteva correre lungo tutto il corridoio, ma pochi minuti dopo si spegneva lasciando posto a una voce quieta con cui ti spiegava una sua strategia Fluxus. Così è nata – nei dibattiti settimanali, nel lavoro di redazione, con un numero da licenziare e uno da costruire contemporaneamente, nello studio grafico – la cultura del cibo a Milano e in Italia, un puzzle di X pezzi che in nessun paese europeo avrebbe conosciuto rivali, e sarebbe stato importantissimo nel fondare il ventennio successivo conferendo autorevolezza a coloro che sceglievano di misurarsi scrivendo di cibo.

Tre, dunque, i punti fermi: 1) «La Gola» legittima e promuove la cultura alimentare fuori degli ambiti istituzionalmente vocati e ne fa il tema identitario dell’Italia. 2) Subordina gli approcci disciplinari, le singole competenze scientifiche o culinarie, a un dibattito aperto e costante, vera fonte di ricerche originali e di orizzonti nuovi. 3) Mette il mondo dell’arte, assimilato dagli editori di libri a una galleria di nature morte, alla guida della rappresentazione e della comunicazione del cibo. Dopo «La Gola» ricerca e nuove linee guida saranno pensate e ripensate al di fuori delle università, coinvolgendo attori diversi e mettendo in gioco, sotto esame, i profili scontati del produttore, del tecnologo, del cuoco. Pochissime le imitazioni e senza grandi risultati, fra queste un numero unico, Lhonnète volupté. Art culinaire, art majeur, curato a Parigi da Paul Noirot nel dicembre 1989.

Dove finirà «La Gola» dopo la sua cessazione, dopo la morte di Sassi? Nelle nature morte e nell’Evaristo Baschenis di Alberto Veca, nella cultura del design e in «Ottagono» di Aldo Colonetti, in «Slow» di Slow Food e nell’Università di Scienze Gastronomiche progettata da Carlo Petrini e da me. Se si guarda a questi esiti, Sassi è più presente che assente. Ha coinvolto scrittori, artisti e studiosi in una cultura che dopo di lui non si dirà più materiale, e si è eclissato lasciando uno strano vuoto, quello di un intellettuale che raccordava cibo, poesia, arte e grafica in una tessitura dietro le quinte con una curiosità inquieta, sorprendente, che coinvolgeva, a sprazzi, la danza di Valeria Magli e i cappelli in mostra in via Solari. Attendeva dall’interlocutore idee, anche pazze, che la sua voce quieta lasciava inquiete o rendeva sensate, e sembrava allora un padre spirituale che avesse compiuto la sua missione e, nello stesso tempo, fosse sempre sull’orlo di contraddizioni in grado di risucchiarlo.

L’ultima volta che l’ho visto riceveva nella sala del Comune di Milano l’Ambrogino d’oro. Poco dopo moriva, ma ha continuato a parlarmi, se questo ricordo vale qualcosa.



Immagine: John Cage e Gianni Sassi, Milano, 1980. Foto di Fabrizio Garghetti.

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Alberto Capatti ha insegnato Storia della cucina e della gastronomia all’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, di cui è stato il primo rettore. Fa parte del comitato scientifico di casa Artusi. Ha diretto i mensili «La Gola» e «Slow». È autore di numerosi saggi sui temi della cucina e della gastronomia.


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