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La generazione degli anni vissuti



In occasione della riedizione di «La generazione degli anni perduti. Storia di Potere Operaio» di Aldo Grandi, edito da Chiarelettere, Cecco Bellosi ci ha indirizzato il suo testo, dedicato in buona parte alla sezione di Potere Operaio di Como, dopo Padova la più importante del Nord Italia. Ringraziamo l’editore e gli autori per il testo.


* * *


Assaporando riga dopo riga le pagine di questo libro, fresco ormai di vent’anni di età anagrafica, mi hanno attraversato una convinzione e un’emozione intense. Potere Operaio è stato, tra i gruppi della sinistra extraparlamentare, l’unica organizzazione politica radicale che ha attraversato le veloci, infinite stagioni, del passaggio dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Settanta. Sinonimi di radicale: risolutivo, totale, profondo, drastico.

O, anche e solo, andare alle radici.

Ecco: Potere Operaio è stato quelle cose lì.

Altri gruppi sono stati o estremisti e populisti, o esteticamente stalinisti e politicamente retrivi. Alla fine si sono ricomposti, come spesso accade nell’incontro tra estremisti e pleistocenici, in una breve e angusta avventura parlamentare.

Potere Operaio no: il suo ceto dirigente, i suoi quadri, i suoi militanti sono finiti quasi tutti in galera. Fosse solo per questo, dovrebbe essere motivo di orgoglio l’avervi militato. Diceva un Franco Piperno d’epoca, caustico come sempre: «Non si può essere rivoluzionari pretendendo di avere la fedina penale pulita».

Gli altri la pretendevano. Noi no. Gli altri parlavano di rivoluzione, Potere Operaio ha provato a viverla. Accompagnato da una solida matrice teorica, l’operaismo, che era stato in grado di leggere la trasformazione di classe dall’operaio professionale, legato al proprio lavoro, all’operaio massa, rinchiuso dentro la grande fabbrica fordista e tayloristica.

La classe come motore e, allo stesso tempo, impeccabile tarlo demolitore del capitalismo. La rude razza pagana di Mario Tronti. L’autore di «Operai e capitale», il nostro romanzo di formazione nel cuore d’Europa.

Come «Cent’anni di solitudine», il suo versante latinoamericano.


Il 1969 è stato vissuto e interpretato dal movimento operaista come il 1905 in Italia vagheggiato in «classe operaia» da Tronti. Dall’esplosione delle lotte alla FIAT in primavera agli scontri del tre luglio in Corso Traiano all’autunno decisamente caldo è stato l’anno della più alta e diffusa forza espressiva dell’operaio massa.

Ne è seguito un decennio rosso, anche se il 1917 non è mai arrivato.

A settembre del 1969 è nato Potere Operaio. Il gruppo provava a raccogliere i frutti delle lotte precedenti e a rilanciare il tema maledettamente concreto del salario come variabile indipendente in grado di far saltare il sistema. La parola d’ordine degli aumenti uguali per tutti, alla fine, era stata impugnata anche dal sindacato, che provava così a riprendere il controllo su una situazione completamente sfuggita di mano.


Nell’estate del 1969 ho fatto un viaggio piuttosto avventuroso con altri tre compagni in Calabria. In cerca di conferme o di scoperte. Avevamo sentito parlare del lavoro politico svolto da un gruppo marxista-leninista, nella versione maoista, tra i contadini e volevamo toccare con mano quella piccola leggenda metropolitana. Abbiamo trovato solo piccoli e oscuri funzionari di partito rinchiusi nelle loro sedi.

A quel punto poteva apparire un viaggio inutile, se non per la compagnia: un’amicizia durata una vita. Invece a Marina di Camerota abbiamo incontrato un compagno di Como, Ronni, proveniente dall’esperienza di «classe operaia», che si era mostrato scettico rispetto alla nostra meta politica e che invece ci aveva consigliato di andare a Capo Vaticano, dove erano in corso dei seminari tra gli operai della FIAT, in ferie nelle loro origini, e il movimento studentesco romano.

Oreste Scalzone. L’incontro.

Si stava sotto un tendone ai margini della spiaggia, con rari bagni tra una riunione e l’altra, dedicate all’analisi delle lotte di primavera e alle prospettive d’autunno. Finalmente respiravo un’aria nuova nelle cose, non nelle parole al vento.

Oreste mi diede appuntamento a Milano, a settembre. Partecipai così, del tutto casualmente, in via Modena, alla nascita di Potere Operaio, il giornale e il gruppo. Capivo poco o niente, se non che avrei dovuto studiare molto per comprendere i discorsi di Toni Negri e Sergio Bologna. Al momento, prevaleva la fascinazione.

Il giornale usciva grazie alle cambiali sottoscritte dalle persone vicine ai militanti. Anche mio padre ne firmò alcune, onorandole, lui che non avrebbe mai firmato una cambiale per sé in vita sua.

In autunno, cominciai a frequentare alla Casa dello Studente i corsi di Ferruccio Gambino e Giairo Daghini su Il Capitale, e la nebbia iniziò a diradarsi.


A Milano Potere Operaio era un gruppo di pochi eletti, rafforzato in seguito dagli arrivi esterni. A Como invece era diventato l’organizzazione egemone all’interno del Comitato Operai Studenti. Il movimento si era innestato sull’esperienza in «classe operaia» negli anni precedenti di un gruppo di operai delle fabbriche tessili, dotati di una solida cultura pratica, e di un manipolo inquieto di giovani intellettuali alla ricerca di una dimensione teorica capace di interpretare le trasformazioni in atto.

Interessati alla politica, al cinema, alla letteratura.

L’aneddotica del tempo ricorda un Sergio Annoni d’annata, operaio della Tintoria Lombarda, narrare la sua versione de Il Capitale a Mario Tronti in dialetto lariano. Con Tronti ad annuire perplesso: non per i contenuti, ma per la lingua barbara.

L’operaismo a Como aveva pervaso il movimento. A Potere Operaio aderirono in particolare i collettivi degli istituti industriali come il Setificio e la Magistri Cumacini, ma anche quelli del Liceo Scientifico e del professionale. Oltre ad alcuni giovani operai. Un gruppo di trontiani entrò invece nel Partito Comunista provando ad agire la tattica del dentro e contro. Con scarsi risultati in un Partito più ossidato che altrove.

Durante l’autunno del 1969 ci furono molte iniziative di lotta, anche a Como. Collezionai, con altri compagni, oltre una decina di denunce per i reati di blocco stradale, violazione di domicilio, resistenza a pubblico ufficiale. Sarebbero stati amnistiati a maggio del 1970.

Intorno a noi, si era costituito un comitato di avvocati per la difesa gratuita. Tra loro Felice Sarda, l’amico che mi avrebbe sempre seguito nelle vicende processuali successive.

Il momento più intenso è stato quando, dopo una grande manifestazione sindacale in Piazza del Duomo, siamo partiti in corteo seguiti da un migliaio di persone. Abbiamo costretto la Standa a chiudere, abbiamo proseguito prendendo a sassate la sede dell’Unione industriali e abbiamo spazzolato alcune fabbriche, arrivando infine alla Camera del Lavoro a occupare la sala dei convegni con un’assemblea di lotta.

Nel suo genere, un evento unico.

Attorno a Potere Operaio cominciò a raccogliersi un servizio d’ordine coeso ed efficace, che si sperimentava in scaramucce quotidiane con i fascisti. Fino all’assalto alla sede del movimento sociale italiano in via Milano, con i mobili che piovevano dalle finestre.

Poi è arrivato il 12 dicembre.

Nei giorni precedenti era stato arrestato Francesco Tolin, il direttore responsabile del giornale. Che aveva il torto, essendo iscritto all’ordine dei giornalisti e pubblicisti, di metterci la firma.

Con generosità: ne poteva avere solo guai.

Potere Operaio era uscito con il titolo: «La violenza non è né buona né cattiva: la violenza è».

Una verità apodittica.

Esiste la violenza degli oppressori e, a volte, quella degli oppressi. La prima è considerata legittima dallo Stato, la seconda no.

Come aveva ribadito Francesco Tolin al processo: «Quando il padrone sospende migliaia di operai, come è successo alla Mirafiori, gli operai si ribellano. Alle violenze padronali corrisponde la violenza operaia. Ma mentre la violenza padronale è considerata legittima e anzi viene esaltata, la violenza operaia è condannata. Il nostro giornale ha fatto la cronaca delle violenze. La violenza operaia non dipende da me: ha le sue forme autonome».

Lo Stato stesso è violenza, spesso più spietata rispetto a chi viola le sue leggi. E la violenza degli Stati si esercita tutti i giorni, a tutte le latitudini. Basta pensare a condanne come la pena di morte o l’ergastolo, una pena di morte erogata goccia a goccia.

La strage di Piazza Fontana è stata uno choc per tutti.

Fino a quel momento le lotte erano state contro il capitale; ora lo Stato appariva non più solo come un’emanazione del capitale, ma come il nemico diretto. L’autonomia operaia e il salario come variabile indipendente, che in quell’anno avevano messo in crisi il sistema, non potevano farlo saltare. La risposta era stata più che eloquente.

Con questo cambio di paradigma dovevano fare i conti anche gli operaisti.

La conferenza di Firenze nel gennaio del 1970 innescò la riflessione attorno alla risposta del capitale, che con la ristrutturazione tecnologica avrebbe inglobato il lavoro vivo nel lavoro morto, diminuendo i livelli di occupazione, e alla necessità di ampliare la dinamica salariale alla società, ponendo al centro i temi dell’abitare e di quello che oggi si direbbe il diritto a una vita dignitosa.

Dove cominciava ad affacciarsi il termine salario garantito.

Ma al centro del dibattito ci fu soprattutto la dialettica tra spontaneità e organizzazione, tra chi riteneva l’organizzazione uno strumento tattico dell’autonomia operaia e chi invece poneva il problema dell’organizzazione come un necessario passaggio strategico.

La scelta leninista.

Nella consapevolezza che occorreva dotarsi di dispositivi per poter resistere all’attacco dello Stato che si stava dipanando tra la repressione delle lotte nelle piazze e le stragi usate nella funzione di una terribile deterrenza. Eravamo solo formiche laboriose di fronte al gigante, ma bisognava pure iniziare, a partire dai servizi d’ordine nelle manifestazioni.

Non è vero che Potere Operaio abbia sottovalutato l’impatto della strage sugli anni successivi, anche perché uno dei protagonisti della controinchiesta su Piazza Fontana, La strage di Stato, era Marco Liggini, un compagno molto vicino a Potere Operaio.


Nella settimana successiva al 12 dicembre venni convocato per una riunione in via Modena, alla redazione del giornale. Sapevo che non mi sarebbe stato chiesto di scrivere un articolo, anche perché rispetto a quelli che per me erano mostri sacri mi sentivo al primo giorno della scuola elementare, quando tutto ti appare enorme rispetto a te. Mi chiesero di occuparmi del trasferimento della stampa del giornale in Svizzera. C’era stato l’arresto di Francesco Tolin, e sembrava un’avvisaglia, ma poi era scoppiata la strage, e non era più un’avvisaglia. Conoscevo i sentieri. E conoscevo dei compagni in Canton Ticino, che avrebbero potuto aiutarci, come poi hanno sempre fatto.

Con grande generosità.

Quindi la cosa si poteva fare. La redazione non fu costretta a trasferirsi all’estero, ma il clima era quello. Lo stesso che avrebbe costretto Giangiacomo Feltrinelli, di lì a pochi giorni, a traguardare in Svizzera. Vittima della montatura perfetta su Piazza Fontana. Molti anni dopo alcuni pentiti fascisti, nel processo per la strage di Piazza Della Loggia a Brescia, concluso con la condanna postuma degli autori, hanno raccontato che il loro disegno era quello di uccidere Giangiacomo Feltrinelli nella sua residenza di Villadeati in Piemonte, facendovi ritrovare dei timer uguali a quello di Piazza Fontana. Di proprietà di Franco Freda e Giovanni Ventura, stragisti del 12 dicembre, che lo Stato ha protetto fino alla fine. Come si usa con i servi fedeli.

Il primo gennaio 1970, dopo una grande nevicata, con l’aiuto di un amico contrabbandiere, ho accompagnato Giangiacomo in Svizzera.

Avevo ventun anni.

Qualche giorno prima, il 21 dicembre, avevo partecipato al primo tentativo di manifestazione dopo la strage, organizzato dal movimento studentesco davanti alla Statale, a pochi metri da Piazza Fontana. Eravamo poco più di mille, accerchiati. L’atmosfera respirava terrore, ma la volontà era di ribellarsi. Ci si lasciò con l’impegno a una manifestazione di massa un mese dopo: il 21 gennaio del 1970, in Piazza Santo Stefano. Eravamo in diecimila: la nebbia cominciava a diradarsi, superando i dubbi e la paura. Arrivati da Como, ci siamo disposti in due cordoni di servizio d’ordine, subito dopo i dieci cordoni dei Katanga, il servizio d’ordine del Movimento Studentesco, poi diventati tristemente famosi per sprangare più i compagni dei fascisti.

Ma allora non era ancora così.

La carica della polizia fu violentissima, accompagnata da un fitto lancio di lacrimogeni. I Katanga riuscirono a tenere botta, ma dietro bisognava far defluire il corteo. Toccò a noi reggere l’ultimo urto, e fu il nostro battesimo in uno scontro vero. Soffocati dai lacrimogeni e impegnati in un corpo a corpo di botte date e prese, riuscimmo a portare a termine il nostro compito.

Il 31 gennaio venne indetta una nuova manifestazione. Arrivarono cinquantamila persone: la polizia rimase a distanza. Nessuno era tornato a casa. Se la strategia della tensione ha ottenuto un risultato, è stato quello di averci reso ancora più convinti delle nostre ragioni.

Il nostro servizio d’ordine si era collaudato sul campo, imparando a difendersi ma anche ad attaccare. Soprattutto quando cominciammo a usare le bocce.


Il 1970 è stato un anno di ripresa lenta dell’iniziativa politica e di apprendistato sul piano logistico e organizzativo.

Allo stesso tempo era maturata l’idea di un confronto con gli altri gruppi, in particolare Lotta Continua e Il Manifesto, per affrontare la fase con una forza più adeguata. Anche se Lotta Continua si stava immedesimando sempre più come il partito, e Il Manifesto era ancorato alla tradizione storica del movimento operaio. Parve naturale a quel punto eleggere come segretario politico Alberto Magnaghi, architetto urbanista mite e gentile, capace nell’arte della mediazione, a differenza dei dirigenti storici di Potere Operaio. Per un verso o per l’altro, poco idonei a questa mansione.

Franco Piperno era il leader carismatico, che affascinava tutti con frasi incisive, caustiche, sarcastiche, in cui il venenum stava sempre in cauda; Toni Negri era il professore geniale e visionario, altro che cattivo maestro, che catturava l’attenzione con i suoi ritmi sincopati e le sue frasi scrigno, in cui non potevi perdere una parola per non perdere il filo di idee che andavano sempre proiettate oltre il qui e ora; Oreste Scalzone era l’affabulatore instancabile, sempre vicino ai compagni, dedito giorno e notte alla causa rivoluzionaria.

Qualità che nessuno di loro avrebbe mai perso.

Magnaghi ha pagato caro aver accettato quell’incarico: nonostante sia stato sempre contrario alla lotta armata e, sul piano personale, anche alla violenza, è finito in galera per anni prima di essere assolto da ogni assurda accusa.

La Giustizia.

Il tentativo di fusione fredda con Il Manifesto comunque si fece, da entrambe le parti, anche se mancava una base comune. Ma non sempre la razionalità paga.

Il breve incontro si consumò dentro il tendone del circo Medini a Milano. Al centro del dibattito, il passaggio dai comitati di base ai comitati politici nelle fabbriche e nei territori. Erano presenti quasi centocinquanta rappresentanze operaie. Ma mancava l’amalgama tra le due formazioni. Potere Operaio era ormai proiettato verso una prospettiva rivoluzionaria in Italia, Il Manifesto sponsorizzava le rivoluzioni in tutto il mondo, soprattutto in America Latina, ma era molto scettico, per dirla con un eufemismo, sulla possibilità di uno sviluppo rivoluzionario in Italia.

In quei due giorni di fine gennaio 1971 mi toccò occuparmi del servizio d’ordine, per cui continuavo a muovermi tra fuori, dove ruminavano apparentemente beati i cammelli, e il tendone. Con altri compagni ci scambiammo solo una battuta: «Con questi qui non andiamo da nessuna parte». E in effetti l’alleanza durò lo spazio di un mattino.

A metà del 1970 avevamo ripreso i contatti con Giangiacomo Feltrinelli e i GAP, la sua organizzazione. A Milano, con la brigata Valentino Canossi, un operaio morto sul lavoro, avevano fatto saltare alcune ruspe nei cantieri. Ma miravano anche alla comunicazione.

Per questo Giangiacomo, diventato il compagno Osvaldo, mi chiese di portare dodici radio tedesche dalla Svizzera. Servivano per le trasmissioni di Radio GAP: montate su un’auto erano in grado di interferire con le trasmissioni della RAI, in particolare con il Telegiornale delle venti, il notiziario più ascoltato. A Milano l’interruzione del programma, che iniziava con «L’Internazionale» e «Qui radio Gap», toccò solo alcuni condomini in Corso di Porta Romana, ma doveva essere soltanto la prima prova. Il discorso all’interno di Potere Operaio cominciava ad andare oltre il servizio d’ordine che, di suo, stava facendo il salto dai sampietrini alle bocce. Venne Valerio Morucci da Roma a insegnarci la preparazione delle molotov a innesco chimico. Andammo a provarle nell’oasi del Bassone a Como. Anche noi, come prima i compagni romani, rimanemmo inebetiti e meravigliati a vedere come funzionavano a ogni lancio.

Sul piano politico, il 1970 era stato l’anno del lavoro di fabbrica all’Alfa Romeo, alla Pirelli, all’Autobianchi di Desio.


Il mio apprendistato si svolse all’Alfa con Toni, Gianni e altri compagni arrivati a Milano dal Veneto. La vita scorreva frenetica: prima delle sei del mattino dovevamo essere davanti alle porte di Arese per volantinare il primo turno; quindi, in sede; poi, prima delle due del pomeriggio, ancora ad Arese, a volantinare il secondo turno e a fermarci a parlare con gli operai che uscivano dal primo, alcuni dei quali cominciavano ad avere rapporti più stretti con il nostro gruppo; quando il termometro delle lotte saliva, si tornava anche all’uscita delle dieci di sera per fare il punto della situazione e discutere degli sviluppi dei giorni successivi. Ci furono anche i primi blocchi sull’autostrada e cominciava a prendere forma l’assemblea autonoma degli operai dell’Alfa, che avrebbe inciso fortemente sulla situazione in fabbrica negli anni successivi.

Alla sera, quando era possibile, andavamo a consumare l’unico pasto da Nino, una delle trattorie di cui Milano era piena e che adesso non ce ne sono quasi più. Nino era un vecchio compagno socialista, da cui spesso cenava Corrado Bonfantini, che nella Resistenza era stato comandante delle Brigate Matteotti e in quel periodo era parlamentare del Partito Socialista. Ci aveva preso in simpatia e quando non avevamo i soldi ci pensava lui a saldare il conto. Anche questo succedeva nella Milano popolare di quegli anni: la nostra nuova sede, in via Maroncelli, era vicina all’Isola, il quartiere di Ezio Barbieri, il bandito dell’Isola, e della ligera.

Dopo aver imparato il lavoro di porta all’Alfa, andai con un altro compagno all’Autobianchi di Desio, dove gli operai stavano mettendo in crisi la produzione con il salto della scocca sulla catena di montaggio. Lì la classe era di tipo più tradizionale, ma molto combattiva, fino a trovarsi al centro di una lotta molto dura. Gli incontri con gli operai si svolgevano in una bocciofila vicina. Terminate le riunioni, qualche volta ci fermavamo a giocare a bocce con Mauro Rostagno che, insieme a un’altra compagna, interveniva per Lotta Continua. Con lui, dotato di una capacità naturale a socializzare, era nato un bel rapporto umano, in cui scolorivano le differenziazioni politiche.


Il 1971 è stato l’anno dell’accelerazione.

Verso tutto.

Le lotte si estesero dalla fabbrica al territorio. Soprattutto sul tema della casa e dei trasporti gratis attraverso la pratica dell’appropriazione. Come per la riduzione dell’orario di lavoro, al di fuori delle dinamiche contrattuali. L’occupazione delle case attraversava tutte le grandi città, in particolare Roma e Milano.


Ricordo un’occupazione in zona Ticinese a Milano, dove, dopo lo sgombero e la rioccupazione di due palazzine popolari, andammo a prendere i sassi sulla massicciata del treno, scontrandoci con la polizia. Mi presi un candelotto lacrimogeno su una gamba; non mi accorsi nemmeno di sanguinare, perché ebbi subito addosso un poliziotto con cui ci rotolammo per terra: nel corpo a corpo persi gli occhiali. Al termine degli scontri ci ritrovammo alle edizioni Sapere, in Piazza Vetra, dove mi fasciarono la ferita. Scesi per prendere la macchina, la Cinquecento rossa che ne ha conosciute di storie, accompagnato da Toni, che mi chiese se me la sentivo di guidare. Avevo la vista annebbiata per il male alla gamba e perdipiù ero senza occhiali, per cui non ci vedevo un’ostrega; Toni mi chiese se me la sentivo di guidare. «Come no?», risposi quasi risentito. Infatti, andai a sbattere contro il palo di un divieto di sosta davanti al quale avevo posteggiato la macchina. E Toni a guardarmi perplesso, come a dire: «Lo sapevo».

A luglio c’erano stati gli scontri al concerto dei Led Zeppelin al Vigorelli, andati avanti tutta la notte.

Quell’estate Giangiacomo ci aveva affidato il compito di studiare un possibile assalto al Casinò di Saint Vincent, in Valle d’Aosta. Andarono prima dei compagni e delle compagne romani; poi toccò a noi milanesi. Ero salito con Carlo Fioroni, che in quel periodo era considerato un compagno affidabile anche se imbranato e un po’ strano, e due compagne. Ai romani toccò la ricognizione interna, con qualche serata ai tavoli di gioco; a noi quella esterna, con levatacce prima dell’alba e ore e ore passate con i binocoli su una collina per cogliere i momenti di passaggio del denaro. Per risparmiare, stavamo in una baita che aveva i servizi fuori, in uno sgabuzzino.

Quasi meglio i prati.

Capimmo tempi e modi dei movimenti di passaggio del denaro, preparai una relazione dettagliata. A settembre, quando rividi Osvaldo a Milano, si dimostrò soddisfatto della meticolosità della relazione, rivelandosi scettico sulla fattibilità dell’operazione. Ma questo si sapeva anche prima: la Valle d’Aosta ha un solo sbocco in entrata e in uscita, e all’epoca aveva una concentrazione di forze di polizia proprio a Saint Vincent.

Giangiacomo era appena tornato dal Sudamerica: portava con sé due libri appena tradotti in italiano: Tupamaros in azione, la teoria e la pratica. E, nella pratica, appariva l’assalto al Casinò di Montevideo.

Subito dopo mi affidò un altro incarico: portare due fucili mitragliatori dalla Svizzera in una base in viale Sarca a Milano. In quel periodo era venuto con noi, transitando direttamente dallo PSIUP, Silvano, che da quel momento sarebbe diventato il compagno Siro. Più grande di noi, aveva uno studio di tessuti ma prima aveva fatto, in modo molto riservato, il contrabbandiere. Portava con sé dei seri problemi di salute, con degli improvvisi attacchi d’asma in un fisico già minato, ma anche una forte determinazione. Aveva una NSU Prinz, una macchina bruttissima ma in cui si potevano celare due fucili all’interno dei fanali posteriori. Ma non due M16. I fucili mitragliatori in dotazione ai soldati americani in Vietnam: erano troppo lunghi e non riuscivamo a smontarli. Alla fine facemmo l’unica cosa che non andava fatta. Uscire con i due M16 sotto il sedile. Ci andò bene. Arrivammo all’appuntamento disinvolti: il sudore del passaggio ce lo eravamo tolto durante il viaggio.


Alla fine di settembre 1971 ci fu al Palazzo dell’EUR a Roma la Terza Conferenza di organizzazione, il Congresso di Potere Operaio, cui parteciparono mille delegati. Siamo scesi in pullman. Con noi viaggiavano tre libri forniti dalla Libreria Sapere: i «Quaderni Rossi», nella riedizione quasi ad hoc, e due testi editi da Einaudi. Il primo, ovvio, era Operai e Capitale, il libro cult degli operaisti. Il secondo, il più richiesto a sottolineare la metamorfosi in corso in Potere Operaio, era I Fratelli di Soledad, le lettere dal carcere di George Jackson. Con la dedica: «A Jonathan Peter Jackson, che morì il 7 agosto 1970, con il coraggio in una mano e il fucile nell’altra; a mio fratello, e compagno e amico…il vero rivoluzionario, il guerrigliero comunista nero nella sua manifestazione più pura». Jonathan aveva 17 anni. L’anno dopo, nel 1971, George Jackson sarebbe stato ucciso dai secondini nel carcere di San Quentin.

L’irruzione del carcere e della ribellione afroamericana accanto alla lotta di classe. Impensabili fino a quel momento nella tradizione operaista.

A Roma si confrontavano tre posizioni.

La prima, maggioritaria, faceva capo a Franco Piperno: cavalcava le lotte sociali oltre la fabbrica, sottolineava la necessità di un intervento al Sud e, soprattutto, la necessità dell’organizzazione: il partito che doveva guidare il processo rivoluzionario. La seconda, un po’ più sfumata, era interpretata da Toni Negri: ribadiva l’importanza delle lotte di fabbrica; assecondava l’intervento sul territorio, anche se non si esprimeva sullo sviluppo delle lotte al Sud; concordava sulla necessità di un’organizzazione in grado di accompagnare la rivoluzione. Sembravano differenze lievi, ma nel giro di un anno e mezzo sarebbero diventate un baratro di incomprensioni e contrasti. La terza, decisamente minoritaria, faceva riferimento agli operaisti classici, con lo sguardo rivolto costantemente alla fabbrica e alle forme di autoorganizzazione operaia.

A unire le prime due posizioni era il termine insurrezione, inteso nella dimensione sociale dell’insorgere e lessicale di un moto collettivo di rivolta contro l’autorità costituita. Questo termine sarebbe invece stato fatto pagare caro, e tutto, quando lo Stato ha tirato fuori dal cassetto degli strumenti repressivi il reato di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, un articolo inserito appositamente nel codice Rocco per stroncare ogni forma di opposizione organizzata al regime. Ma o l’insurrezione riesce, e allora il reato non esiste più, perché gli insorti hanno preso il potere; o è, al massimo, un tentativo, e il reato di tentata insurrezione non è neanche previsto. Negli anni Ottanta questa accusa è stata estesa a tutti i militanti delle Brigate Rosse per alzare il tetto della carcerazione preventiva.

Poi non se ne è fatto nulla in termini processuali.

Invece sarebbe stato il leit motive delle accuse contro Potere Operaio.

Al Congresso era evidente per molti che dire organizzazione in quel momento significava prevedere la costruzione di un livello armato. A dotarsi di strutture illegali in quel periodo erano quasi tutti i gruppi extraparlamentari, chi con motivazioni difensive: l’atmosfera cupa di un possibile golpe continuava a spirare, chi pensando che un rivoluzionario prima o poi la rivoluzione deve provare a farla.

Potere Operaio era tra questi, ma è stato l’unico gruppo a dirlo apertamente. Lo aveva sintetizzato Toni Negri al termine del suo intervento, quando venne eletto segretario generale: «Qui ognuno di noi deve sapere che essere militanti significa giocarsi tutto».

In termini di impegno, passionalità, dedizione.

L’atmosfera del Congresso era attraversata da una forte tensione emotiva. Con lo slogan sovrastante: «Tupa, tupa, tupa, Tupamaros», cui si contrapponeva un sempre più timido «Potere Operaio».

Una di quelle sere, in una riunione riservata senza titolo e quindi apparentemente senza contenuto, venne formalizzato Lavoro Illegale, da allora LI. Eravamo stati convocati in una trentina: ne uscimmo ancora più motivati. Quella sera era stato nominato il responsabile nazionale, Valerio Morucci. Sia lui che ogni responsabile di sede avrebbe dovuto rispondere a un referente politico, che sul piano nazionale era Franco Piperno.

A sottolineare che sarebbe stata la politica a governare il fucile. Non il contrario. Sul lungo periodo non è andata proprio così. Per Milano e Como il referente politico era Oreste, con cui non ci fu mai alcun problema.

Rivista ad anni di distanza, la spinta verso il Lavoro Illegale fu la quarta componente del congresso. Una variabile che sarebbe diventata sempre più indipendente.


Como, forse dopo Padova, al Nord era la sede più numerosa del gruppo. A Siro e a me venne affidato il compito di costruire LI sull’asse Milano-Como-Svizzera. Attraverso Osvaldo, una vera miniera di informazioni, avevamo saputo che nel principato del Liechtenstein le armi di tutti i tipi e, posto unico in Europa, anche le pistole e i revolver erano in libera vendita. All’ingresso di Vaduz, un cartello con la scritta «Waffen und Munition» accoglieva delle categorie particolari di turisti. La prima volta acquistammo delle Walter PPK. La vendita era libera, ma solo per un’arma a testa al giorno e dietro presentazione di un documento di identità.

Ovviamente falso.

Se ti presentavi mezz’ora dopo con la stessa faccia e un documento diverso, la commessa si limitava ad accoglierti con un sorriso complice. Come in un qualsiasi negozio di dadi e cioccolato.

Le carte di identità, a parte quelle emesse regolarmente dai Comuni, all’epoca appartenevano a due categorie: quelle che avevamo sottratto in veloci incursioni nei municipi di periferia e quelle acquistate. Le prime si sparsero nella solidarietà di classe europea, arrivando all’ETA antifranchista e alla RAF. Le seconde erano pronte per l’uso immediato, ricostruite in tipografia, e costavano cinquantamila lire. Un passaporto in grado di aggirare i controlli di frontiera molto di più. Ma erano garantiti.

In Piazza Tirana al Giambellino, allora un’enclave sia per i compagni che per la ligera, li vendeva a cielo aperto, su un tavolo verde, il Bumba, quando non stazionava al Due a San Vittore.

Lì vicino, a fermata di tram.

Una Milano trasversale, in cui convivevano, senza alcun problema che non fosse qualche rissa nella nebbia, compagni, vecchi pensionati che giocavano insultandosi a scopone scientifico, giovani aspiranti rivoluzionari e dopo un po’ neanche tanto aspiranti, giocatori di bocce, biscazzieri di dadi, malavita di popolo. Come il Cerutti Gino di Giorgio Gaber.

Quelle carte, quei passaporti, ma il mercato si estendeva anche ai motorini con o senza libretto, ci interessavano molto, ma richiedevano anche denaro per l’acquisto. Diversi compagni del servizio d’ordine si arrestarono lì, senza passare a LI, pur riconoscendolo come un passaggio necessario. Negli anni settanta la lotta armata è stata il punto estremo, mai estraneo, al movimento. A determinare la nostra scelta sono stati il sogno dell’assalto al cielo, il vincolo dell’appartenenza, il principio dell’assolutismo etico.

Anche a Como la ricerca di LI appariva più forte del segnale di pericolo. La selezione era comunque necessaria e trovammo i nuovi compagni di Lavoro Illegale in alcuni studenti degli istituti industriali, in qualche operaio ribelle e motivato, arrivando a cooptare, fresco reduce dal Beccaria, un giovanissimo ragazzo anarchico senza patria né casa, ma molto abile nell’uso degli spadini, ottenuti con le chiavi per aprire le scatole di sardine, per prendere le macchine.

A suo modo, anche quella era un’arte.

Eravamo in piena fase di addestramento.

A sparare andavamo in una miniera abbandonata in val di Scalve, nell’alta bergamasca, in alcuni anfratti della Valsassina, in una grotta sopra Tremezzo, in cui ci calavamo dall’alto con una corda. Una leggenda diceva che, cadendo lì dentro, si sarebbe finiti nel Lago di Lugano.

Ma a dire dei tempi, quando in fila indiana salivamo verso quella grotta, i ragazzi del paese ci schiacciavano l’occhio complici. Una volta ce li siamo trovati nascosti là in cima. Volevano partecipare anche loro.

Questo era il clima.


In quel periodo ci imbattemmo in due questioni politiche di cui avremmo fatto volentieri a meno. La prima, locale, riguardava la sede di Como. Con i suoi oltre cento militanti, aveva diritto a un segretario di sezione. Alcuni compagni legati alla tradizione storica dell’operaismo candidarono legittimamente uno di loro. Volevano controllarci.

Da parte mia, non potevo certo candidarmi. Significava assumermi il controllo di me stesso, una cosa che non ho mai fatto. Quindi, sapendo di avere con me la maggioranza, proposi come candidato un altro compagno che proveniva dalla tradizione operaista, ma che ci vedeva con grande simpatia. Cesare venne quindi eletto, e non ci chiese mai nulla. Soprattutto da dove venissero i soldi che gli davamo per pagare regolarmente l’affitto della sede. Però, da uomo navigato qual era, con noi si divertiva.

La seconda appariva molto più insidiosa. I nostri rapporti con i GAP, in particolare con Giangiacomo, stavano diventando sempre più intensi, al punto che anche noi non capivamo più bene quanto fossimo militanti di LI, dei GAP o di una federazione tra le due strutture. Questo aveva finito per provocare un acceso scambio epistolare tra Osvaldo e Saetta.

Tra Giangiacomo e Franco.

Le cose comunque continuarono come prima, senza provocare ulteriori frizioni. Un po’ per la lentezza della posta clandestina, a volte superiore a quella di Poste Italiane, un po’ perché forse a nessuno serviva andare in fondo a una questione che aveva avuto sin dall’inizio dei connotati comuni.

Nonostante le differenze politiche.

Poi arrivò il 12 dicembre del 1971. O, meglio, la notte del giorno prima. La sede di Potere Operaio di Milano aveva deciso di forzare la mano verso una giornata di guerriglia metropolitana accompagnata dai bagliori intensi ed effimeri delle molotov.

Duecentocinquanta.

LI aveva ricevuto l’ordine da chi aveva l’autorità per farlo di starne fuori: movimento clandestino e movimento di massa cominciavano irreparabilmente a separarsi. Così me ne andai a casa dei miei sul Lago, con l’idea di tornare a Milano la mattina di domenica 12 dicembre a vedere gli scontri.

Da lontano.

Il 10 dicembre venni chiamato per rientrare: neanche il tempo di assaporare una giornata in pace. Ma allora era sempre così. Scesi a Milano il mattino dopo molto presto con quattro compagni del servizio d’ordine di Como. Lavorammo come matti tutto il giorno, respirando benzina a pieni polmoni. A darci una mano, era arrivato da Roma un compagno esperto come Sergio Zoffoli, Zoff per tutti.

Per le sei di sera tutto doveva essere pronto per venire caricato sulle macchine che arrivavano da fuori Milano. La manifestazione aveva carattere nazionale. Sintonizzati sulle radio della polizia, sapevamo che i controlli all’uscita dell’autostrada si stavano rivelando lunghi e minuziosi. Ma più passava il tempo, più il trasbordo diventava un azzardo, e noi nervosi: l’appartamento in cui stavamo, in via Galilei, era a cinquecento metri dalla questura. Dopo le dieci di sera partivano le volanti per il pattugliamento notturno, rinforzato in quei giorni, e una buona parte sarebbero passate di lì. Preoccupato, alle otto piombai in sede, abbastanza vicina, dicendo che da lì a un’ora non avremmo potuto caricare più nulla.

Invece i compagni arrivarono a mezzanotte. Ero molto inquieto.

Dopo averli riforniti: le molotov stavano in contenitori di cartone come le casse di libri o di vino, uscii per ultimo dall’appartamento con un altro compagno di Como per spostare l’ultima macchina carica di bottiglie. Stavamo scendendo senza alcuna tensione le scale, quando un nugolo di poliziotti, salendo di corsa, quasi ci travolse. Incredibilmente non ci fermarono, come se non ci avessero visti. Arrivammo in sede e nella notte ci fu una riunione piuttosto burrascosa: alcuni avvocati sostenevano che gli arrestati rischiavano di rimanere in carcere per vent’anni. Nell’appartamento, oltre ai nostri, ci stavano due o tre persone che avevano come unica responsabilità di essere amici del padrone di casa. Tutti davano per scontato che, interrogati, non solo avrebbero provato come sarebbe stato naturale a chiamarsi fuori, ma che avrebbero parlato anche degli altri compagni che si trovavano fino a un attimo prima nell’appartamento. Cioè di noi due.

Per questo siamo riparati per alcune settimane in Svizzera. Invece quei ragazzi non dissero nulla, comportandosi in maniera esemplare. Il movimento, in quegli anni, era fatto anche di queste cose.

Dopo due mesi erano tutti fuori.


Rientrato in Italia, passai la notte dell’ultimo dell’anno a casa di Siro con lui e Valerio: nell’altra stanza il tavolo era pieno di armi. Avevamo dedicato gli ultimi due giorni dell’anno a un nuovo viaggio in Svizzera: Valerio voleva recuperare in fretta il tempo perduto per le molotov dell’11 dicembre. I mesi successivi li trascorsi a Milano in condizioni di semilatitanza. Su incarico di Osvaldo, cominciai a svolgere un’inchiesta per sequestrare un dirigente dell’Autobianchi. Contemporaneamente ci furono alcuni interventi di sabotaggio all’Alfa Romeo, con il sigillo dei binari per i treni e l’incendio di alcune auto in partenza per i mercati. La logica appariva ineccepibile nella sua semplicità: se c’è un problema di sovrapproduzione, basta distruggere il prodotto finito. Il feticcio della merce, un tema caro a quel vecchio neoluddista di Gianfranco Faina.


L’inizio di primavera del 1972 fu particolarmente movimentato. Le Brigate Rosse portarono a termine il primo sequestro volante, quello del dirigente della Sit Siemens Hidalgo Macchiarini. L’11 marzo si svolse la manifestazione per la quale, oltre dieci anni dopo, sarei stato condannato al processo 7 Aprile. Quel giorno i fascisti avevano organizzato un comizio elettorale in Largo Cairoli. A Milano. E questo venne letto come una provocazione: ormai era evidente a tutti, e non solo a noi, il loro coinvolgimento nelle trame di Stato e, in particolare, nella strage di Piazza Fontana. Per cui decidemmo di attaccare il comizio. A evitare la ripetizione dell’11 dicembre, ciascuno dei militanti del servizio d’ordine arrivò alla manifestazione con almeno due bocce addosso: da responsabile, e un po’ esagerato, ne avevo quattro. Ci attardammo negli scontri con la polizia, posta a difesa dei fascisti, in via Cusani. Il programma prevedeva anche di attaccare anche il «Corriere della Sera», in quel momento su posizioni particolarmente favorevoli alla repressione delle lotte, e una concessionaria della Renault come atto di protesta contro l’uccisione in Francia di un operaio, Pierre Overnay, a opera di un guardiano della fabbrica. I pochi poliziotti davanti al «Corriere» ripararono all’interno e l’ultima molotov la lanciammo su una Ferrari esposta, chissà perché, nel salone della concessionaria della Renault. A quel punto, insieme ai dirigenti del servizio d’ordine di Lotta Continua, che ci avevano seguito nel corteo, prendemmo una decisione avventata: quella di tornare verso Largo Cairoli, pur sapendo che la manovra a tenaglia di polizia e carabinieri ci stava accerchiando. Arrivati in Piazza San Simpliciano, rimanemmo imbottigliati. C’era una sola possibilità per uscire da quella morsa: sfondare con una controcarica il gruppo di celerini che aveva occupato la piazza sul lato che incontra Corso Garibaldi. Una buona parte dei compagni di Lotta Continua riparò dentro la Chiesa, forse nella convinzione che fosse un luogo inviolabile come nel Medio Evo. Li arrestarono tutti. Noi, mossi dalla forza della disperazione, ci avventammo contro il cordone di poliziotti che, colti di sorpresa, aprirono un varco. In corso Garibaldi languiva il cantiere del Teatro Fossati in lenta ristrutturazione: scavalcammo le transenne, arrivando in via Legnano. Completamente sgombra. Nessuno dei nostri era stato preso.


Il mattino del 16 marzo uscii di casa con Oreste a prendere i giornali. Per precauzione, nei giorni successivi alla manifestazione, dormivamo presso le abitazioni di altri compagni. Meno esposti. Il «Corriere della Sera» titolava in fondo alla prima pagina, quindi come una notizia dell’ultima ora, su un presunto terrorista trovato morto vicino a un traliccio. Accanto, una foto un po’ sbiadita tratta dalla carta di identità, con il nome di Vincenzo Maggioni.

Ci voltammo, girando l’angolo senza dire una parola. Appena rientrati in casa, ci lasciammo prendere da un pianto di dolore e spaesamento. Non potevamo avere alcun dubbio: era Giangiacomo.

Senza di lui niente sarebbe rimasto uguale. Ma, da subito, occorreva muoversi. Prima di tutto per capire che cosa fosse realmente successo. Poi, per tenere botta. Poi ancora, per rivendicare l’identità rivoluzionaria del compagno Osvaldo. Infine, per valutare le ripercussioni che potevano riversarsi su di noi. Anche se questo era proprio l’ultimo dei nostri pensieri.


Dopo l’impatto traumatico, ci attivammo con una fretta frenetica. Trovammo subito alcuni compagni dei GAP e delle BR, che confermarono quanto avevamo intuito. Un maledetto timer difettoso. I due compagni che si trovavano con lui sotto il traliccio erano rimasti uno ferito e l’altro stordito dall’esplosione, ma erano riusciti ad arrivare a fatica in una base per farsi curare. E a raccontare l’accaduto con le voci rotte dall’emozione. Il loro trauma fu irreversibile: era stata la loro prima, e anche ultima azione armata.

Con i nostri compagni decidemmo di rimanere uniti, senza alcun sbandamento, e di partecipare al funerale di Giangiacomo Feltrinelli. Ci presentammo in una cinquantina davanti al Cimitero Monumentale, con le bandiere di Potere Operaio. Il vice questore Vittoria ci impedì di entrare con le bandiere, per cui ne lacerammo alcune per ricavarne dei nastri che abbiamo depositato, uno dopo l’altro, sulla bara, a ricomporre una bandiera rossa.

Il giornale «Potere Operaio» uscì con la foto stilizzata a tutta pagina di Giangiacomo Feltrinelli e il titolo «Un rivoluzionario è caduto». Per il suo onore. Per il nostro impegno. Per la verità.

Le ripercussioni ci furono quasi subito, anche se limitate. Ma ci eravamo trovati all’improvviso con un latitante da mantenere, due compagni ricercati dei GAP che non avevano voluto confluire nelle BR per venire con noi, e l’affitto di qualche base da pagare.

Siro, che aveva dei contatti con dei mercanti d’arte in Svizzera, studiò un colpo nella villa di Renato Guttuso a Velate, sulle colline di Varese. Il pittore in quel periodo non c’era, quindi in teoria la villa era vuota, perché il custode abitava con la famiglia nella casa attigua. La portineria. A evitarla, dopo un lungo giro nei parchi delle ville vicine, ci eravamo calati sul retro con una corda da alpinisti. Eravamo in tre e l’unico armato ero io, con una Walter PPK. Siro e una compagna ci aspettavano al cambio macchina.

I due compagni entrarono con facilità: eravamo diventati degli esperti. Per parte mia, dovevo controllare l’esterno. Il lavoro sarebbe durato quasi un’ora, perché i quadri andavano staccati dalle cornici e avvolti con delicatezza. Vedevo ogni tanto le loro pile. All’improvviso si accese una luce: il custode, armato di fucile. Evidentemente stava dormendo lì e non a casa. Sentii i due compagni saltare dalla finestra del primo piano. Adesso toccava a me coprirli, perché intanto l’uomo era uscito con il fucile e me lo trovai di fronte. Alzai il cane della pistola e gli urlai di buttarlo via. Lo fece senza dire nulla. A quel punto risalii anch’io la scaletta, riunendomi agli altri compagni.

Eravamo letteralmente in brache di tela, con tre latitanti da nascondere. Dopo una discussione durata alcuni giorni, decidemmo di assaltare una banca. La rapina a una banca ha qualcosa di politico in sé. Ma molto in sé. Il salto, prima del bancone, doveva avvenire dentro di noi. La nostra educazione, la nostra storia, le nostre coscienze.

Dopo due settimane eravamo in banca. Con un piano ben studiato, soprattutto nella via di fuga. Prendemmo quasi venti milioni: una cifra consistente all’epoca. Non tutto era filato liscio, perché ci avevano sparato addosso, mancando la macchina. Potevamo respirare: alla sera, davanti ai soldi ammucchiati, ci sentivamo come bambini davanti al gioco del Monopoli. Ma non durarono molto: gli affitti, i latitanti, nuove armi, una piccola base acquistata, qualche finanziamento al giornale: oblazione di compagni sostenitori. E di lì a qualche mese eravamo di nuovo in banca.

Il nostro punto di riferimento era sempre più Kamo e sempre meno l’operaio massa.


A novembre mi sposai: per la prima volta nella mia vita mi sentivo veramente innamorato. Il matrimonio venne declinato in due fasi: quello ufficiale, con tutti i parenti, anche se i miei testimoni erano Oreste e un altro compagno; e quello con i compagni, una settimana dopo, nella stessa trattoria. Quella sera eravamo in centocinquanta, Alberto Magnaghi suonava la fisarmonica, i compagni del Giambellino le chitarre. E tutti a intonare le canzoni di lotta: in particolare, l’inno di Potere Operaio. Di quei centocinquanta commensali, più di cento negli anni successivi sarebbero finiti in galera. Ovviamente, me compreso.

Era proprio una vivace compagnia. Non solo musicale.


Il 1973 fu un anno bello sul piano personale: a maggio è nata nostra figlia, Chiara. Ma molto problematico sul piano politico. Nell’impegno militante subimmo le prime ferite. Nel corso del 1972 eravamo cresciuti, in tutti i sensi. LI di Como-Milano contava ormai su una ventina di compagni. E, a Como, una vasta rete amica. Per le BR, alle riunioni venivano Mario Moretti e Alberto Franceschini: avevamo stabilito con loro un rapporto per gli scambi di documenti e più in generale nella logistica, e provarono anche a convincerci ad andare con loro. Ci si trovava in una villa in città, proprio sul Lago. I proprietari non c’erano mai: in compenso, i custodi erano due dei nostri.

Ci eravamo divisi in cellule, in cui inserire i nuovi compagni per avere una più efficace compartimentazione. Fino ad allora, ci conoscevamo tutti. La mia cellula portò a termine alcuni attentati alle sedi fasciste di Milano. Ci andò bene per caso, o per fortuna. Stavamo scendendo dalla solita Cinquecento per salire sulla macchina che ci serviva per l’operazione, quando il compagno seduto dietro, dalla parte opposta a quella del guidatore, mise il colpo in canna alla pistola. Riaccompagnando il cane, gli partì un colpo. Il proiettile forò la carrozzeria della macchina venti centimetri dietro il mio sedile: con un’angolazione diversa di un centimetro mi avrebbe trapassato la schiena. Un colpo di pistola dentro una Cinquecento ha molti decibel. Rimanemmo storditi per un attimo, decidendo comunque di andare sugli obiettivi.

La militanza.

Poi successe la storia della banca di Vedano. Due compagni arrestati, uno di loro ferito. Frequentavano la sede di Como, dove si cominciò a respirare un’aria molto pesante. Avevamo addosso tutti: la polizia, i partiti, la stampa, anche i militanti che non capivano. E qualcuno di loro se ne andò. Tra loro anche qualcun altro che capiva: Siro, dopo un periodo di ritiro silenzioso, approdò a una scelta new age. Comprensibile.

All’orizzonte breve appariva il convegno di Rosolina, su un mare desolato. In casa dei veneti. A prepararlo, i congressi di sede. Franco Piperno era venuto a Como, ritenuta una sede importante. Nonostante le lacerazioni e le ferite, la linea della continuità organizzativa vinse di brutto. Il partito del doppio livello, quello legale e quello illegale, appariva ancora vivo e vegeto.

Pareva.

Ma contro l’ormai intenso lavorio demolitore di Toni Negri che, con il consueto forte acume intellettuale e la sagace capacità di agire in modo politicamente scorretto, mirava ormai apertamente allo scioglimento di Potere Operaio nel movimento dell’autonomia, sarebbe stata necessaria una forte volontà di rilancio. Che avrebbe probabilmente avuto comunque un breve respiro, perché era la logica del doppio livello a essere superata dai fatti: da una parte le prime BR andavano con tenace determinazione verso l’organizzazione politico-militare complessiva, dall’altra cominciava a diffondersi in maniera dirompente il movimento dell’autonomia operaia e della violenza diffusa, in cui si sarebbero inseriti non solo i negriani, ma anche, su un altro versante e con un taglio più militante, il gruppo che faceva capo a Oreste e che si sarebbe rafforzato con i fuoriusciti della Corrente e della Frazione di Lotta Continua, due componenti dall’intensa presenza operaia nelle fabbriche di Milano e soprattutto di Sesto San Giovanni.

Figli e ribelli dell’officina.

In una curiosa dinamica che ha caratterizzato il Decennio Rosso: dal grande movimento delle lotte della primavera del 1969 alla formazione dei gruppi organizzati, in particolare Potere Operaio e Lotta Continua, all’afflusso convinto nel magma incandescente dell’autonomia operaia fino al Settantasette, per chiudere con una nuova forzatura verso le organizzazioni armate.

Fino alla sconfitta di tutti. E il carcere per molti.

Il problema non è tanto che abbiamo scambiato lo splendido crepuscolo della classe con la sua aurora. Il problema vero è che in quella lotta senza quartiere tra classe operaia e capitale ha vinto il capitale. E ha perso tutta la sinistra, a partire da quella storica. Che si è sfarinata come neve al sole.

I dati della sconfitta sono inequivocabili. Negli anni Settanta i due terzi della ricchezza prodotta andavano al lavoro, un terzo al capitale. E a noi sembrava poco, per la sproporzione numerica tra classe operaia e capitale. Oggi ben oltre i due terzi vanno al capitale, ben meno di un terzo alla forza lavoro.

La forza lavoro è solo merce, la classe operaia è coscienza di se stessa e del proprio potere. La differenza sta tutta qui.

E il capitale vuole tutto, lasciando poche, insignificanti briciole alla precarietà, alla fatica e alla povertà ridotta in miseria. Un risultato che ha conquistato con la hybris delle politiche neoliberiste assunte nel mondo occidentale, e non solo, dopo la cinica e drammatica sperimentazione della scuola di Chicago nel Cile golpista di Augusto Pinochet.

Il neoliberismo ha seminato indigenza e diseguaglianza, schiavitù dal consumo e distruzione dell’ambiente. Finirà per implodere, autodistruggendosi. Se un nuovo movimento di massa, capace di coniugare le proteste contro la distruzione del clima e dell’ambiente con la lotta di classe, non lo farà esplodere. Perché, come diceva Chico Mendes: «L’ambientalismo senza lotta di classe è giardinaggio». Solo allora si potrà dire di nuovo, come si è provato a Genova nel 2001: «Ben scavato vecchia talpa».

Il tarlo fertile dell’operaismo.

Tra conflitti di classe, di genere, di generazione. Solo una parte dei giovani, anche nel superamento dei conflitti etnici, sa guardare al futuro. Tutti gli altri stanno brucando come vacche stanche il presente.

A Rosolina, come LI di Como, non ci siamo andati. Eravamo ovviamente incazzati con il gruppo di Toni e la sua attività frazionista, ma in quel momento eravamo arrabbiati anche con Franco. Dopo l’esproprio di Vedano, aveva scritto un brutto articolo sul giornale, scaricando completamente i due compagni che erano stati arrestati. Intendiamoci, chiunque di noi fosse caduto avrebbe dovuto raccontare di essere un bandito e non un militante di Potere Operaio. Ora, a parte che con Oreste, che è venuto con noi in banca, sarebbe stato letteralmente impossibile atteggiarsi a bandito, nessuno avrebbe potuto crederci nel momento in cui chiunque di noi fosse stato catturato. E nessuno lo aveva creduto per i due compagni arrestati.

Venivamo tutti da Potere Operaio, eravamo in Potere Operaio. I due compagni avevano rispettato la direttiva, e tutti noi ci aspettavamo una presa di distanza formale e non sostanziale. Invece quella era stata espressa in maniera sostanziale.

Forse Franco cominciava a sentire troppo il peso della scelta di LI e del fatto che quella struttura non era più controllabile dalla dirigenza politica. Ma non andava bene. Anche perché nessuno di noi ha mai tenuto per sé i proventi degli espropri. Per noi il denaro, anche quel denaro, era lo sterco del diavolo: per questo ce ne sbarazzavamo il prima possibile, passandolo subito al responsabile logistico. Il quale, di suo, rendicontava con precisione certosina.

Franco era apparso molto stanco, contrario ma quasi rassegnato all’estinzione di Potere Operaio. L’atmosfera era pesante anche perché a Roma c’era stato l’episodio di Primavalle. Un attentato con la benzina contro la porta dell’appartamento del segretario di sezione del Movimento Sociale, dalle conseguenze imprevedibili: morirono due dei suoi figli. L’idea, o forse più che l’idea la volontà era che non fossero stati dei compagni. Quando tre militanti della sezione di Primavalle vennero inquisiti e dichiararono di essere estranei, ci abbiamo voluto credere tutti. La verità era diversa. Era stata una decisione presa in completa autonomia, da apprendisti stregoni, senza l’avallo di nessuno. Nessun altro ne sapeva niente, e anche questa è la verità. Ma fino a quel giorno erano stati dei militanti.

La verve di grande e raffinato polemista di Piperno in quel momento si era alquanto affievolita. Da parte nostra non potevamo accettare quell’epilogo. A Potere Operaio avevamo dedicato, con una dedizione assoluta, quattro anni della nostra vita. Negri ne decretò la fine, senza neanche il passaggio rituale dell’espulsione. Il gruppo sopravvisse per un anno, sfarinandosi in fretta, con una segreteria composta da tre compagni non riconosciuti come dirigenti da nessun militante, se non in parte Mario Dalmaviva. Furono costretti, in un arco di tempo molto breve, al ruolo di notai della morte di Potere Operaio.

La fine vera si era realizzata in quella desolata landa del Nord Adriatico. Soprattutto per questo non siamo andati a Rosolina. Non avendo vissuto direttamente quel passaggio traumatico, non siamo stati attraversati in maniera duratura dai rancori successivi.


Quello di Potere Operaio, con il suo senso di appartenenza, è il ricordo più intenso della mia vita: una comunità in continua fibrillazione. Come il mercurio. Disposta a solcare fino in fondo il sogno rivoluzionario. Anche nelle successive evoluzioni teoriche e pratiche, dall’operaio massa all’operaio sociale, alla moltitudine soggetta e consumata dai dispositivi digitali. E soprattutto all’attualità della lettura del «Frammento sulle macchine» nei Grundrisse di Karl Marx con le trasformazioni del general intellect dalla tecnologia incorporata nel capitale contro la classe operaia alla critica dell’ideologia del lavoro salariato, fino alla contrapposizione attuale tra il general intellect sussunto nel capitale cognitivo e la possibile liberazione dell’individuo sociale.

Sempre sulla breccia. Perché il paradigma operaista, quando ti è entrato dentro, non ti esce più: è un metodo di pensiero spiazzante, a volte anche per se stessi, una forma di riflessione e di conoscenza originali, un riconoscersi sempre, anche a distanza di tempo e di spazio.

Quasi nessuno degli ex di Potere Operaio, a differenza di altri gruppi, si è inserito o sentito a suo agio nelle correnti di pensiero e di potere via via dominanti. Buona parte di noi non ha fatto carriera ma ha assaporato la galera; altri hanno comunque continuato a declinare il loro sentimento comune in nuovi vettori del conflitto sociale, altri ancora si sono ritirati in una dignitosa vita privata. Senza mai disconoscere quell’esperienza, a volte anche con degli sprazzi di nuova curiosità.

Proprio per questo Potere Operaio non è stato la generazione degli anni perduti, ma la generazione degli anni vissuti.


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