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Terza guerra mondiale

Per farla finita con la politica del sacrificio


 

 


Nell'urlo delle piazze, collage e china, Francesca Della Santa; foto di Stella Chirdo
Nell'urlo delle piazze, collage e china, Francesca Della Santa; foto di Stella Chirdo

Pubblichiamo un estratto da Nella Terza guerra mondiale. Un lessico politico per le lotte del presente scritto da connessioni precarie, uscito oggi per DeriveApprodi.

Terza guerra mondiale non è solo una categoria analitica, ma un’ipotesi politica che parte dal rifiuto della geopolitica come pretesa di governare la guerra. In che modo essa stabilisce una discontinuità rispetto alle altre due guerre mondiali e alla guerra globale dei primi anni Duemila? Come è possibile opporsi e quali sono le parole per farlo? Queste le domande a cui il libro prova a rispondere.

 

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Si parla spesso di pace, ma da tre anni viviamo dentro a una guerra. Di recente Donald Trump ha promesso di farla finire, eppure non possiamo considerarlo un pacifista. Non è d’altronde nemmeno possibile credere al pacifismo dell’Unione Europea quando afferma che ogni pace futura potrà essere garantita solo dalle sue armi. Che migliaia di donne e di uomini in Ucraina o altrove non debbano più rischiare la vita sui campi di battaglia, che non debbano più temere di perderla sotto le bombe o per le privazioni è un fatto senza dubbio positivo e atteso. La Palestina però dimostra che la guerra può continuare anche dentro e oltre la tregua. Una tregua non è mai la pace, soprattutto se lo stesso presidente che la favorisce in Ucraina utilizza negli Stati Uniti una misura di guerra vecchia di 200 anni per deportare centinaia di migranti. La pax trumpiana non sarà la nostra pace. Da tempo siamo di fronte a un intreccio mortifero di guerre, tregue, conflitti, oppressioni che si rinforzano e si motivano a vicenda. Il nesso costitutivo tra ordine politico e guerra civile sembra riattivarsi in continuazione (Colombo 2021; Lazzarato 2024). Questo stato di cose produce reazioni opposte: la guerra può essere considerata come una conseguenza scontata se non addirittura necessaria della condizione attuale della società, oppure può essere indicata come l’evento estremo, l’unico che deve essere assolutamente evitato, affinché possa esserci un rapporto sociale. Nel primo caso la guerra finisce per essere indifferente, nel secondo caso finisce per mettere tra parentesi, se non per ignorare, che essa è comunque parte di un rapporto sociale. Noi intendiamo sottrarci a questa alternativa. Non parliamo di Terza guerra mondiale per proporre un modello nel quale fare rientrare tutte le guerre attualmente combattute. Non parliamo di Terza guerra mondiale per annunciare uno scenario catastrofico e carico di morte, in modo da provocare una reazione pubblica tale da impedire ulteriori, nefaste conseguenze. Non ci interessa fomentare la paura. Per noi parlare di Terza guerra mondiale ha un significato eminentemente politico. Ciò che ci interessa è mettere a tema il modo in cui la guerra presente può e deve finire. La domanda che ci poniamo è: come può finire questa guerra, se non ci si vuole accontentare del ciclo infinito di combattimenti, tregue e riarmi? Come è possibile «vincere» questa guerra? Come è possibile pensarne la fine, sottraendola al monopolio geopolitico che fa degli Stati o dei regimi parastatali gli unici attori della guerra? Parliamo di Terza guerra mondiale perché partiamo dalla considerazione che, come le due precedenti, essa non consiste solamente e, nemmeno prioritariamente, in uno scontro tra Stati, nella loro ricerca di una qualche egemonia su scala globale. Nelle guerre definite mondiali la posta in gioco non è stata solo la lotta tra gli Stati per il predominio, ma in maniera altrettanto, se non ancor più rilevante, il modo di esercitare il comando sul lavoro vivo. Le guerre sono diventate mondiali quando esso è diventato globalmente un fattore allo stesso tempo costitutivo e antagonistico per la riproduzione della società capitalistica. Le guerre mondiali non sono guerre tra Stati alla ricerca di una proiezione più o meno imperiale, ma sono guerre che investono e ridefiniscono la società capitalistica su scala globale. Il declino dell’egemonia statunitense ha stabilito le condizioni di possibilità di un multipolarismo al quale in apparenza corrisponde una molteplicità di regimi di guerra che sembra essere l’espressione sia del conflitto tra le diverse fazioni del capitale, sia delle infinite dispute territoriali o religiose che caratterizzano la società globale. Allo stesso tempo, tuttavia, è evidente la necessità del capitale di inseguire la molteplicità delle figure del lavoro vivo per sfruttarle in luoghi e tempi diversi, imponendo loro modalità specifiche di riconoscimento, che determinano la possibilità di essere viste e di poter prendere la parola (Butler 2009). La Terza guerra mondiale non opera alcuna violenta e immediata unificazione nelle condizioni di sfruttamento e di oppressione. Nell’incontro e nello scontro con le diverse figure della molteplicità sociale essa rivela la propria specifica funzionalità nei tentativi di produrre momenti di pacificazione sociale, ideologica e delle forze produttive – di conciliazione di parti in conflitto attraverso parziali ed occasionali risarcimenti – che consentono al capitale di operare su scala globale. Non bisogna perciò cadere nella trappola del concreto, fermandosi alla molteplicità di posizioni materiali e alla conseguente proliferazione di categorie sociologiche che descrivono più o meno fedelmente le forme dell’oppressione e dello sfruttamento. Così non arriveremo mai a costruire il campo complessivo di visibilità di cui abbiamo bisogno, perché la moltitudine di figure politiche e sociali è la forma del problema, non la sua soluzione. Un campo complessivo di visibilità permette invece di cogliere non solo le differenze, ma anche le connessioni tra quelle che altrimenti appaiono come singolarità assolute, tra le quali è difficile se non impossibile stabilire una qualsiasi comunicazione. Il multipolarismo in sé non è dunque una garanzia per la libertà dei movimenti sociali, perché, sebbene possa restituire una fotografia più o meno precisa dell’esistente con tutte le sue profonde differenze che resistono a ogni omogeneizzazione, rischia di dare dei diversi poli un’immagine tutto sommato uniforme nella quale le lotte e i processi di valorizzazione del capitale si combinano e si susseguono senza soluzione di continuità. Il problema che abbiamo di fronte è come individuare la possibilità di uno scarto radicale rispetto a questa realtà e alla logica della guerra che la informa, per rimarcare la netta alterità tra la guerra e la politica delle lotte, spostare la prospettiva sui movimenti sociali che, nonostante tutte le differenze che li caratterizzano, possono stabilire una comunicazione transnazionale in grado di attraversare i fronti e di metterne in questione la stessa costituzione. Solo così si può lavorare alla costruzione di un campo di visibilità nel quale la fine della Terza guerra mondiale non sia una pace provvisoria o una qualche vittoria che racchiude una sconfitta, ma l’affermazione del potere del lavoro vivo nella riproduzione della società. Non si tratta di un progetto utopico, perché già le guerre mondiali del passato possono offrire qualche indizio pratico.

 

[…]

 

 

Organizzarsi contro la guerra

Come lottare dentro e contro la Terza guerra mondiale? La risposta più immediata dovrebbe essere quella di valorizzare fino in fondo quelle insubordinazioni transnazionali del lavoro vivo che impediscono la chiusura statale e internazionale del loro governo. Ciò significa sostenere politicamente tutti quei comportamenti che mostrano che la guerra è un misero strumento per il governo dell’esistenza di miliardi di persone. La risposta alla guerra dovrebbe essere la rivendicazione politica della dimensione transnazionale del lavoro vivo, la necessità pratica della legittimità dei suoi movimenti, del suo rifiuto delle oppressioni vecchie e nuove, della sua indisponibilità allo sfruttamento. Spesso oggi invece la risposta è la resistenza, cioè il posizionamento all’interno della guerra e dei suoi fronti. Eppure, nella resistenza non si incontra un progetto di liberazione collettivo, ma soltanto un irrigidimento dei fronti opposti della guerra, un movimento di rafforzamento dei blocchi e non una loro dissoluzione. In Ucraina la resistenza è stata arruolata nelle fila dello Stato, alimentando la divisione dei campi e precludendo così la possibilità di trovare alleati in coloro che da ogni lato si ribellano alla logica di guerra scappando, disertando, lottando per sopravvivere, sottraendosi allo sfruttamento con lo sciopero. La Terza guerra mondiale sembra destinata a riassumere il catalogo dell’orrore di quelle che l’hanno preceduta e in un certo senso preparata. Il ritorno del nazionalismo e il militarismo in moltissimi paesi che fino a pochi anni fa dichiaravano di rifiutarli, le pretese imperiali della Russia, il genocidio in Palestina, il ritorno dell’incubo nucleare sono evidenti a tutte e tutti. Il problema che poniamo è come farla finita non con questa o quella guerra, ma di come far finire la Terza guerra mondiale sapendo che la pace tra gli Stati può non essere la sanzione di quel mutamento dei rapporti di potere, di quell’ingovernabilità del lavoro vivo, che il transnazionale lascia chiaramente intravedere. Siccome partiamo dalla constatazione che gli Stati fanno la guerra, l’opposizione alla guerra può essere solo un rifiuto del modo e dei motivi per cui la fanno. L’opposizione alla guerra non si risolve schierandosi all’interno di un fronte, sopravvalutando alcuni caratteri e tacendo tatticamente di altri. Una guerra mondiale non è una guerra civile, anche se può essere l’occasione per ridefinire praticamente ogni politica dei fronti e dei campi, che è esattamente il contrario della constatazione dell’onnipresenza indeterminata dello scontro (Münkler 2003). È oltremodo improbabile – e in fondo non è nemmeno auspicabile – che questa guerra combattuta sotto il segno del transnazionale finisca con un vincitore, o stabilendo un nuovo equilibrio internazionale che insedi nuovamente qualche Stato nel ruolo di guardiano dell’ordine mondiale. Dentro a questa guerra si consuma l’ennesimo atto dell’ormai secolare crisi della sovranità. Prendere sul serio questa crisi significa anche registrare che, per i movimenti del lavoro vivo all’interno di questa guerra, non c’è una via d’uscita immediatamente inscrivibile all’interno della tradizione statale. Questa constatazione pone con urgenza la necessità di sperimentare l’organizzazione di forme politiche in grado di consolidare nel tempo la forza dei movimenti sociali. Nella tradizione comunista schierarsi dentro e contro la guerra non ha mai significato accettarne l’ineluttabilità. Essa non è nemmeno mai stata semplicemente l’occasione per un’eventuale insurrezione. La guerra non è stata considerata solo come la continuazione della solita politica con altri mezzi, ma come l’occasione per cambiare la politica stessa (Lenin 1915; Lenin 1917). Le possibilità reali di questo cambiamento impongono di porre il problema di connessioni politiche in grado di stabilire un campo di visibilità e di comunicazione che, senza negare le loro differenze, consenta alle figure del lavoro vivo di sottrarsi alle classificazioni di cui sono costantemente oggetto grazie alla guerra. Schierarsi con chi subisce gli effetti della guerra è dunque doveroso, ma non è sufficiente. C’è la necessità di farla finita con la guerra come paradigma delle nostre lotte. Ciò significa che queste ultime non devono essere necessariamente organizzate mimando la presenza di eserciti contrapposti, con le relative posizioni di autorità, di comando e di ubbidienza, un immaginario fatto di battaglie campali, di palazzi presi e poi mai veramente conquistati, di favolosi scontri finali e di vittorie che poi non sono mai definitive. La storia delle rivoluzioni ha abbondantemente dimostrato quanto complesso e problematico sia stato il loro rapporto con la guerra (Balibar 2009). Criticare questo rapporto significa riconsiderare il nesso storico tra la guerra stessa e la lotta di classe, chiedendosi se sia davvero necessario fare della guerra una sorta di preparazione alla rivoluzione futura (Lazzarato 2022). Si può invece muovere dal presupposto che il criterio del politico su cui la lotta di classe si fonda comprende elementi di una razionalità estranea non solo al discorso della guerra e quindi alle sue manifestazioni materiali (Negri 1980), ma anche al modo in cui la politica moderna ha stabilito un nesso inscindibile tra guerra e politica. La lotta di classe non si inscrive semplicemente all’interno della dialettica tra amico e nemico, così come non si risolve nell’identificazione di fronti contrapposti, la cui esistenza porta a sospendere qualsiasi giudizio su ciò che accade all’interno del proprio fronte. Se l’opposto concettuale e pratico della guerra non è una pace intesa come assenza di conflitti, come pacifismo a ogni costo, né tanto meno come governo dei processi di unificazione politica grazie o nonostante i conflitti, allora la lotta di classe è l’opposto della guerra, proprio perché pone la questione della pace, del conflitto e della violenza su basi che la politica moderna ha fatto di tutto per neutralizzare (Tronti 2024). La pace per cui dobbiamo lottare assume fino in fondo il carattere mobile e differenziato del lavoro vivo contemporaneo e, a partire dalla sua stessa costituzione, appronta processi organizzativi che puntano a valorizzarne al massimo le potenzialità politiche invece che imbrigliarlo in strutture che di buono hanno solo la loro storia. Non è d’altra parte possibile esportare sul piano transnazionale le esperienze locali per quanto esse siano significative. Il transnazionale impone di lavorare su una scala reale, sapendo che nel processo organizzativo dovranno essere messe a valore e criticate tutte le differenze che finora hanno impedito di costruire un’opposizione concreta alla guerra. Costruire un’organizzazione transnazionale non significa semplicemente trovare un modo per sopravvivere dentro a questa guerra, ma lavorare per porvi fine, creando le condizioni per non uscirne sconfitti. La pace non può essere perciò solo la fine della guerra tra gli Stati, ma il segno della presenza politica di tutti coloro che nelle condizioni attuali pagano il prezzo della valorizzazione globale del capitale (strike the war). Il rifiuto della guerra è già presente nelle lotte che avvengono all’interno della Terza guerra mondiale, come lotte contro le modalità attuali di riproduzione del capitale. Lottare per la fine della guerra esige la produzione di uno spazio per il lavoro vivo che attraversa i fronti e i confini e dunque un salto organizzativo che faccia i conti con il transnazionale. Qualunque ipotesi che si riferisca a un ordine non più esistente – la società delle nazioni e i suoi movimenti nazionali e internazionalisti – non è all’altezza del rifiuto della guerra come logica di riproduzione capitalistica. L’organizzazione transnazionale non può ridursi alla somma o all’alleanza delle strutture organizzative esistenti, spesso radicate su scala nazionale e inclini a dare priorità a problemi locali. Deve invece essere all’altezza delle esigenze del lavoro vivo, che nella guerra vede l’ostacolo a ogni suo possibile movimento. Esso chiede perciò la fine dei conflitti bellici tra gli Stati e i regimi, ma si oppone contemporaneamente alla violenza quotidiana che legittima socialmente il patriarcato, il razzismo e lo sfruttamento come sacrificio in nome della nazione.

 


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connessioni precarie è un’area politica, attiva in diverse realtà italiane, che assume come motivo centrale del proprio intervento la condizione globale e differenziata del lavoro contemporaneo, l’intreccio tra patriarcato, sfruttamento e razzismo e il rifiuto della guerra in tutte le sue forme. Da anni è inoltre impegnata all’interno di piattaforme transnazionali per la costruzione di iniziative e mobilitazioni di precarie, migranti e studenti.

 

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