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La caduta nel tempo di Albert Caraco



Un ritratto di Albert Caraco scritto da Marco Rizzo.


* * *


E tu mio cuore perché batti?


Come una malinconica vedetta

Osservo la notte e la morte.


(Guillaime Apollinaire)



Una lingua per la furia

Per conoscere Albert Caraco (1919-1971), scrittore dal temperamento saturnino perlopiù ancora ignoto al pubblico italiano, occorre tenere presente alcune domande cruciali, che a mio avviso ne definiscono il profilo intellettuale e il lascito della sua opera. Esiste una lingua capace di rendere visibile lo stato disastrato del mondo, una lingua in grado di dare forma all’angoscia senza cedere di un millimetro al panico? Si può raccontare la catastrofe dell’autodistruzione dell’umanità senza fare appello alle fin troppo facili tentazioni della speranza o della consolazione? E infine, come dare degnamente voce alla furia senza apparire ridicolmente agitati o peggio scadere nella predica indignata e senza consistenza[1]?

Sfogliando le pagine di Breviario del caos (tradotto da Tea Turolla per Adelphi nel 1998; Franco Volpi, con una formula azzeccata, definisce questo «piccolo denso taccuino», «un distillato dei corrosivi pensieri del suo calamaio»[2]) ci si trova davanti a qualcosa di inedito, a un contrassegno distintivo che rende questo testo irriducibile alla koinè degli scrittori nichilisti: il tentativo di dire il mondo che non sarà. Lo sguardo di Caraco si fa carico di raccogliere il fascio di tenebra dei tempi a venire, con una lancinante (e letta oggi, sorprendente) percezione della degradazione ambientale inesorabile indotta da una presenza umana sul pianeta divenuta sempre più numerosa e vorace, presagendo un vero e proprio crollo di civiltà in cui sprofonderemo senza neppure accorgercene, incapaci di arrestare la caduta. E fa ciò nel bel mezzo dei «Trent’anni gloriosi», andando incontro a quella solitudine radicale che solo i profeti e gli spiriti liberi sanno sopportare:


Siamo condannati, e quelli di noi che lo sanno non possono più farsi ascoltare, e anche se potessero, preferirebbero mantenere il silenzio. A che serve ormai predicare ai sordi e disilludere i ciechi? Forse che impediremo loro di perseverare nel movimento che li travolge? Stiamo andando dritti al futuro più orribile, che comincerà dall’oggi al domani, ci ritroveremo in esso senza nemmeno capire quel che ci accade, non ci resterà che morire disperati nell’universo inabitabile. Gli uomini si facevano guerra per il possesso del suolo, domani si ammazzeranno tra loro per accaparrarsi l’acqua, e quando arriverà a mancarci l’aria, ci scanneremo per respirare in mezzo alle rovine. Noi aspettiamo che la scienza faccia miracoli e presto ne esigeremo l’impossibile, ma essa è superata dalle nostre necessità e mai più sarà in grado di soddisfarle, siamo in molti miliardi di troppo a chiedere il Paradiso in Terra, ed è l’Inferno quello che rendiamo inevitabile, con l’aiuto della nostra scienza, sotto il bastone dei nostri pastori imbecilli. Il futuro dirà che gli unici chiaroveggenti erano gli Anarchici e i Nichilisti. (p. 105)


Il volumetto di Caraco si articola in brevi blocchi di impianto aforistico simili a questo, che come delle formelle apposte alla porta d’ingresso di una chiesa, vogliono introdurre i lettori a una messa da requiem per ogni velleità umana di progresso, per ogni illusione a buon mercato sulla bontà dell’esistere. Ciò che per Leopardi è un punto di arrivo, un testamento intellettuale e morale che sigilla le Operette morali, ovvero la persuasione che l’infelicità umana è qualcosa di necessario e di imposto dalle leggi del cosmo, e che le masse umane che rifiutano di confrontarsi con questa verità sono degne di disprezzo, per Caraco è invece l’apodittica pietra di fondazione del suo edificio: non si dà eccellenza se non riducendo al minimo il commercio col mondo e con gli esseri, che non meritano ai suoi occhi alcuna pietà per la miserevole sorte che li attende. Nelle gelide sorgenti da cui scaturiscono i pensieri di Caraco, la radicale condanna della vita in sé e al contempo una risoluta repellenza per le illusioni della cultura del suo tempo convivono con un acuto senso della catastrofe e del decadimento tipico della cultura occidentale del Novecento, nell’intuizione di una «fine della Storia»prossima ventura (ma di segno assai diverso da quanto preventivato da Kojève e poi proclamato da Fukuyama) che trova una sua fonte di ispirazione nell’antico pensiero gnostico:


È ormai sparito l’ottimismo che per quattro secoli fu il retaggio di tanti europei, la Fatalità ritorna nella Storia, e ad un tratto ci chiediamo dove siamo diretti, ci interroghiamo sul perché di quello che ci accade, la bella fiducia dei nostri padri in un progresso illimitato, congiuntamente a una vita sempre più umana, è dunque svanita: noi giriamo in tondo e non riusciamo più nemmeno a capire le nostre opere. Il che significa che le nostre opere ci superano e che il mondo, trasformato dall’uomo, sfugge un’altra volta alla sua intelligenza, più che mai noi edifichiamo nell’ombra della morte, la morte sarà la legataria dei nostri fasti, e si avvicina l’ora del denudamento, in cui le nostre tradizioni cadranno, una dopo l’altra, come indumenti, lasciandoci nudi, esposti al giudizio, nudi fuori e vuoti dentro, con l’abisso sotto i piedi, il caos sopra la testa. (p. 12)

Gli scenari apocalittici che Caraco traccia in questo testo non indulgono tuttavia ad alcuna narcisistica voluptas dolendi tendente all’autocommiserazione, sono improntati piuttosto a una fredda e forsennata denuncia del tracollo che verrà, tracollo che gli esseri umani sono troppo stupidi per comprendere e troppo deboli e vili per fermare: «Preferiamo immolarci piuttosto che ripensare il mondo, e lo ripenseremo soltanto in mezzo alle macerie» (p. 19). Lo sguardo beffardo che questo anarchico nichilista dedica alle ideologie moderne e alle loro pretese di migliorare il mondo e l’uomo ha i suoi bersagli privilegiati nella tecnologizzazione incontrollata, nel sovrappopolamento, nella stupidità, assurdità e dannosità di ogni umana azione e convinzione. Nello sfogliare questi bozzetti del disastro siamo messi di fronte a un pessimismo fermamente rassegnato, mai lamentevole, che si riversa furentemente nella condanna radicale di ogni ordine (per Caraco, fatalmente destinato a deflagrare in guerre sempre più micidiali), nella desolata prefigurazione di una rovina definitiva vista come inevitabile e nell’elogio della sterilità volontaria come strumento di pulizia del mondo, nonché di sabotaggio di tutte le morali sacre e profane portatrici di distruzione, ma sempre con la parola «umanità» sulla bocca. L’approdo ultimo non può essere altro che la contemplazione sconfortata dell’approssimarsi del rischio di estinzione della specie, inavvertita dalla «massa dei sonnambuli spermatici»:


Noi crediamo nel miracolo, fosse pure abbandonandoci alla fatalità, ci lasciamo andare a ciò che ci trascina, sperando in un cambiamento che nulla giustifica, tranne la fede che abbiamo nell’utopia. […] Tra noi non vi è nessun responsabile che abbia il coraggio di prevedere la catastrofe, e meno ancora di prenderne atto, l'imperativo categorico del nostro tempo è l'ottimismo, fosse pure sull'orlo del baratro, siamo ritornati alla magia verbale, scongiuriamo ed esorcizziamo, la cosa più strana è che la ridicolaggine dei nostri atteggiamenti sembra ormai nell'ordine delle cose, i nostri Capi di Stato non sono più nient'altro che taumaturghi e noi, sotto di loro, non saremo altro che vittime consenzienti. (p. 66)


La furia iconoclasta di questo misantropo radicale, osservatore distaccato e scettico verso la modernità, si abbatte quindi sulle apparenze e i luoghi comuni rassicuranti che l’umanità (definita più volte con una reminiscenza agostiniana «massa di perdizione») si crea per celare a sé stessa l’assurdità dell’esistenza, la barbarie dei propri modelli sociali e il crollo finale a cui essi sono destinati a condurci: «Dal falso usciamo solo attraverso la collera» (p. 32). Diversamente da Céline, a cui è stato già opportunamente accostato per la sua cupa visione del mondo, la prosa di Caraco si abbandona di rado a uno stile imperniato sulla «resa emotiva», tende invece a mantenere un’aristocratica, classica solennità che riecheggia il grido dei profeti biblici: riflesso stilistico della crudeltà intellettuale e del disprezzo che egli riserva a un’umanità che, ai suoi occhi, sembra correre a tutta velocità verso l’abisso, incapace di vederlo né tanto meno di sottrarvisi, come spinta da una fatale pulsione di autoannullamento.

La scrittura di Caraco pare tutta impregnata della denuncia che già fu del conte di Gloucester nel Re Lear di Shakespeare: «Che epoca terribile quella in cui degli idioti governano dei ciechi!». Pur se ripetuta mille volte e dalle più disparate provenienze, fino al rischio di suonare incredibile, questo grido conserva tutta la sua attualità. Ma non è sempre vero quanto attribuito a Goebbels, che una cosa ripetuta mille volte diventa vera anche se non lo è: può accadere anche il contrario, che ciò che è vero possa apparire come irreale in mancanza delle risorse intellettuali e morali per farsi carico di tale verità. Niente ai nostri giorni ce lo dimostra di più del risuonare continuo di tanti «non c’è più tempo» e del rimandare ogni giorno la necessità di tirare il freno di emergenza all’imperativo capitalista della crescita illimitata (purché «sostenibile»…). Possiamo allora intravedere nello stile apodittico di Caraco, nella perentorietà delle sue affermazioni, il gesto del rovesciare il tavolo: se davvero non c’è più tempo da perdere, e persino e ancor più se non c’è più tempo per salvarsi, non vale la pena discutere di niente e con nessuno se non alla luce dell’evidenza della catastrofe.

C’è sicuramente nella prosa di questo scrittore il timbro rabbioso della voce rifiutata, di vittima di una congiura del silenzio, l’odio inveterato per la grande «impostura» che talvolta deborda in manie di grandezza – «le mie idee mancavano al mondo» (p. 76); quanto basta insomma per bollarlo come un possibile padrino intellettuale dei cosiddetti complottismi odierni. Eppure, se la scelta dovesse ridursi a «i discorsi belli tondi e ragionevoli dell’era democratica» (CCCP, Trafitto) da un lato e la denuncia vertiginosa di un disastro annunciato come inevitabile dall’altro, è solo dal secondo che potremmo ricavare, se non gli strumenti per rovesciare l’attuale stato di cose, la tensione disillusa e attiva ad accelerarne la caduta, non concedendo al sistema politico ed economico che ha guastato l’unico mondo che abbiamo neppure un grammo di fiducia come suo possibile riparatore: «Siamo diventati impuri a forza di nitrire dietro la purezza […]. Che cosa può capitarci di peggio, ormai, che restare quali siamo?» (p. 98).


Un cupo profeta

Come già anticipato, agli occhi di Caraco, la «miriade di solitudini» che popola le metropoli (nel frattempo moltiplicatesi in numero, abitanti e dimensioni), preda di ritmi e stili di vita alienanti e divorata da insulse nevrosi, è destinata a divenire protagonista di una regressione generale dei costumi, a uno schianto morale nel cuore della civiltà capace di far impallidire qualunque «selvaggio». Oggi che la devastazione ecologica che il Capitalocene ha inflitto al pianeta sta presentando il conto alla nostra specie (e alle parti di essa più derelitte e marginalizzate in modo particolare) e che tutti i punti di non ritorno paiono già sorpassati, fa non poca impressione leggere testi come quelli che seguono, distanti da noi più di mezzo secolo, nel cui specchio deformato ritroviamo l’immagine della nostra forma di vita, associabile alla febbre di un gigantesco formicaio:


Siamo già troppo numerosi per vivere, per vivere non da insetti ma da uomini; noi moltiplichiamo i deserti a forza di esaurire il suolo, i nostri fiumi sono ridotti a sentine e l’oceano entra a sua volta in agonia, ma la fede, la morale, l’ordine e l’interesse materiale si uniscono per condannarci alla tribù: alle religioni occorrono fedeli, alle nazioni difensori, agli industriali consumatori, il che significa che a tutti occorrono bambini, non importa quel che ne sarà una volta diventati adulti. Ci spingono incontro alla catastrofe e noi non possiamo mantenere i nostri fondamenti se non andando alla morte, mai si è visto paradosso più tragico, mai si è vista assurdità più palese. (p. 61)


L’Inferno che portiamo in noi corrisponde all’Inferno delle nostre città, le nostre città sono commisurate ai nostri contenuti mentali, la volontà di morte informa la smania di vivere e noi non riusciamo a discernere quale ci ispiri, ci gettiamo in lavori sempre nuovi e ci illudiamo di attingere le vette, siamo posseduti dalla dismisura e, incapaci di capire noi stessi, continuiamo a edificare. Presto il mondo non sarà che un cantiere dove, alla stregua di termiti, miliardi di ciechi sgobberanno a perdifiato nel frastuono e nel tanfo, come automi, finché un giorno si sveglieranno in preda alla demenza e cominceranno a scannarsi indefessamente l’un l’altro. Nell’universo in cui stiamo affondando la demenza è la forma che assumerà la spontaneità dell’uomo posseduto, dell’uomo superato dai suoi stessi mezzi e divenuto schiavo delle sue opere. La follia sta ormai covando sotto i nostri stabili da cinquanta piani e, malgrado i nostri sforzi per estirparla, non riusciremo a contenerla, essa è il dio nuovo, che non placheremo più neanche tributandogli una sorta di culto: è la nostra morte totale che essa esige al più presto. (p. 17)


Sfogliando le pagine di Breviario del caos riscontriamo un’assenza assoluta di nomi propri: nessun politico né pensatore viene esplicitamente convocato per assumersi la propria parte di responsabilità del disastro. Il non fare nomi, il non cimentarsi con la definizione esatta delle forze storiche all’opera, degli individui che le promuovono e di cui esse si servono, per certi versi toglie incisività alla diagnosi dello sfacelo offertaci da Caraco, dall’altra ne potenzia però le possibili valenze (ad esempio l’invito a disinteressarsi della personalità particolari in favore delle tendenze generali), ne fa precipitare il contenuto direttamente nella nostra attualità. Questo non sembra, è un testo scritto per l’oggi, per la nostra epoca fatta di dismisura e paradosso, di farsa e tragedia che coabitano lo stesso palcoscenico, di retorica dei diritti umani e di economie green accanto a mari e deserti trasformati in immensi cimiteri, allo scopo recintare le fortezze del benessere dai milioni di profughi pronti a ricordarcene il costo: «Sono persuaso che il Razzismo ha un avvenire» (p. 119). E aggiunge:


Le idee più micidiali ci attendono al varco e non saremo più in grado di eluderle quando il bisogno ci afferrerà alla gola, per tramutarci in belve; ci avviciniamo al ciglio fatale, e non appena saremo a confronto con esso rinunceremo a tutte le nostre illusioni umanitarie e scaraventeremo i nostri avversari nel precipizio. Denominatore comune dei politici futuri sarà lo sterminio, al quale contribuirà anche la natura, aggiungendo la sua furia alla nostra. (p. 124)


Lo sguardo che Caraco getta sulla storia appare singolarmente simile a quello dei dannati nell’Inferno di Dante: vedere chiaro e distinto nel futuro lontano, offuscato e confuso nel presente prossimo. Ne sono esempio alcuni cenni al fenomeno della decolonizzazione, in nulla lambiti dal clima di speranza e apertura di nuove possibilità che animava gli anni Sessanta, il periodo in cui prendono forme le sue meditazioni, ben più acclimatate invece con gli spasmi contemporanei che accompagnano il declino dell’Occidente e la nascita del mondo multipolare:


Lo spirito europeo ha perduto l’incisività insieme con la coerenza, ha dimostrato di non essere all’altezza delle sue opere comunicandole al resto degli esseri umani. Gli Africani e gli Asiatici non attribuiscono lo stesso significato alle parole che mutuano da noi, e la loro vendetta consiste nel farci dubitare di noi stessi, servendosi dei nostri vocabolari. (p. 119)


Niente di diverso dalla riedizione del medesimo ordine mortifero vale la pena attendersi dal fantasma (o dal sogno) di una rivincita selvaggia dei popoli oppressi dall’Occidente, già pronti a suo avviso a imitarne e ad ereditarne i peggiori vizi e i fanatismi più assurdi. «A che pro illuderci? Diventeremo atroci» (p. 54) scrive Caraco, tratteggiando i contorni di una regressione totale della civiltà e di una guerra di tutti contro tutti, per scampare alle quali dovremmo a suo avviso rendere grazie alle malattie sterminatrici. Le tenebrose visioni che si ricavano da questo breviario sono infatti all’insegna di un sentimento di claustrofobia, di angoscia per il sovrappopolamento del pianeta a fronte dell’impossibilità di trasferirsi su altri, che non può che sfociare nel freddo compatimento per i nuovi esseri venuti al mondo e in una misantropia acuta, in un odio iperbolico per la specie umana che può ricordare certi monologhi squadernati nei romanzi di Thomas Bernhard:


L’universo è un meccanismo in cui il desiderio aggrega e la morte disgrega, la massa di perdizione riflette lo stato di tale universo in quanto esso ha di più orrendo, è la sua incarnazione, e perciò non possiamo né amarla né compiangerla, essa obbedisce alle stesse leggi degli sciami di cavallette e degli eserciti di roditori, […] né i soldati morti in guerra contano di più per coloro che ve li conducono. (pp. 81-82)


Si evince da queste pagine un’angoscia per la decadenza dell’Occidente vissuta senza nostalgia, ferma nella convinzione mefistofelica che tutto ciò che nasce è degno di perire. Solo oggetto di passione e desiderio può essere la distruzione liberatrice, in una celebrazione quasi idolatrica di un fuoco purificatore che possa aprire la strada all’ultima palingenesi. Benché anche qui, mai nominate, si può supporre che le macabre fantasie di Caraco abbiano preso ispirazione dai funghi atomici svettanti sulle ceneri di Hiroshima e Nagasaki. Ma, sia pure riapparso nel novero delle fini possibili, non è necessario evocare lo spettro di una guerra nucleare, basta guardare al progredire devastante degli incendi che accompagnano le nostre estati per far assumere alle sue parole una spaventevole attualità:


Il mondo è brutto, lo sarà sempre di più, le foreste cadono sotto la scure, le città dilagano inghiottendo ogni cosa e dappertutto i deserti si espandono, anche i deserti sono opera dell’uomo, la morte della terra è l’ombra che gettano a distanza le città, e ora vi si aggiunge la morte dell’acqua, poi sarà la morte dell’aria, ma il quarto elemento, il fuoco, rimarrà perché gli altri siano vendicati, è per opera del fuoco che noi moriremo a nostra volta. Stiamo andando verso la morte universale e i più accorti lo sanno, sanno che non vi è rimedio a queste calamità scatenate dalle opere, essi sono tragici tra i frivoli, osservano il silenzio in mezzo ai ciarloni, lasciano sperare agli uni ciò che gli altri promettono loro, non si danno più pensiero di avvertire i primi né di confondere i secondi, ritengono che il mondo meriti di perire e che la catastrofe sia preferibile a questo rigoglio nell’orrore assoluto e nella laidezza totale, che ci saranno risparmiati solo a prezzo della rovina. (p. 49)


Si può cogliere in questo scrittore anche un’eco della crudeltà intellettuale di Lucrezio, che l’autore latino ci mostra alla fine del De rerum natura raccontandoci l’affanno degli ateniesi, che invano si rifugiano nei templi scongiurando gli dei di salvarli dalla peste invincibile che li miete – così come, per Caraco, farà l’umanità di fronte allo schianto che la attende. È cronaca dei nostri giorni del fuoco l’invito alle popolazioni più esposte al caldo torrido a rifugiarsi nei centri commerciali cercando ristoro e salvezza nelle correnti d’aria condizionata inquinanti ed energivore. Non c’è immagine più eloquente e carachiana di questa, per dar conto dell’assurdità mortifera del cordone ombelicale che ci lega alla Madre Merce, nei cui templi cerchiamo riparo alla devastazione che essa stessa produce imperterrita: «La farsa è finita, comincia la tragedia, il mondo diventerà sempre più duro, più freddo, più cupo e più ingiusto, e nonostante il caos dilagante, sempre più metodico: anzi, è proprio l’unione della mentalità sistematica con il disordine a sembrarmi il suo carattere meno eccepibile, mai si vedranno più disciplina e più assurdità, più calcolo e più paradossi, insomma più problemi risolti, ma risolti inutilmente (p. 45)». E che dire infine dello sbigottimento generale di fronte ai nuovi padroni dello spazio, all’umanità a bocca aperta (e affamata) dietro i voli di un pugno di miliardari? Come rassegnata all’inferno in cui sprofonda, incapace di domandarsi neppure se essa meriti di sopravvivere a un’autodistruzione così scientemente preparata e annunciata, o di scampare alla fine solo per devastare e invadere della propria cieca e arrogante stupidità altri pianeti incontaminati.

Non sfugge tuttavia a Caraco, in una sorta di implicita autocritica, che anche l’ira dei profeti può finire strumentalizzata, neutralizzata, perdere la sua carica eversiva, smarrire il suo effetto di choc positivo, vedersi apposto il sigillo della fatalità da ciò che vorrebbe al contrario picconare. Anche di ciò, non cessa di darcene prova un’industria culturale che ha messo a valore oggi come non mai l’immaginario distopico[3], trasformandolo in un anestetico passivizzante per le masse, indebolite invece che fortificate dalla disillusione, aggrappate a ciò di cui probabilmente morremo ma, in fondo, domani, non oggi, ci resta un altro giorno ancora… Eppure, non per ciò rimane vano il furore di chi segnala l’incendio e dà l’allarme, quando gli occhi di tutti sono chini a terra, o sugli schermi. Come ci ha insegnato un maestro che se ne è andato da poco, per conquistarsi la «libertà dal proprio tempo, e da chi lo comanda», comunque «ci vuole una rottura di linguaggio e uno spiazzamento di orizzonte»[4].


Aristocratico, anarchico, nichilista

Destra e sinistra sono parole che non vengono, almeno qui, mai nominate da Caraco. La vulgata ci porta a credere che chi evita di posizionarsi su questa linea di faglia, immancabilmente sia o finisca per diventare di destra. E invece… quest’autore riversa strali feroci contro le morali tradizioni e il nazionalismo al pari dei falsi miti di progresso, nella consapevolezza dell’uguale inanità di questi simulacri di senso di fronte al trionfo del caos che si prepara e la cui entità sfugge alla nostra immaginazione: «Nessuna tradizione ci protegge dal futuro, perché il futuro non ha precedenti e l’universo non ha più ripari» (p. 107). Risulta infatti ben difficile arruolare fra gli spiriti di destra chi definisce la famiglia tradizionale un’istituzione «amata dai tiranni», «una scuola di schiavitù» a danno di donne e figli e promuove la sterilità in luogo della guerra come forma di igiene del pianeta. Ancor più duro il giudizio repellente che formula sui nazionalismi:


Il Nazionalismo è un morbo universale, da cui si guarirà con la morte dei frenetici, non possiamo durare in un mondo sempre più angusto con idee così dannose, quindi dovremo perire. Lo storico di domani dirà che la natura si è vendicata dei popoli comunicando loro un senso di vertigine e che il Nazionalismo è una frenesia simile a quella che si impossessa delle società animali divenute troppo numerose. Siamo troppo numerosi e vogliamo morire, ci serve un pretesto nobile ed eccolo trovato […], esso ci permette di stimarci moltiplicando all’occorrenza gli atti più spregevoli, ci inebria di noi votandoci al sacrificio, ci rende candidamente mostruosi, autorizza le nostre virtù a fregiarsi dell’attributo di tutti i vizi […]. Il nazionalismo è l’arte di consolare la massa del fatto di essere solo massa e di presentarle lo specchio di Narciso: il nostro futuro infrangerà quello specchio. (pp. 89-90)


Se dovessimo rintracciare una personalità, un temperamento intellettuale di cui Caraco potrebbe porsi come epigono, questi sarebbe probabilmente Nietzsche. Entrambi abitati dal disprezzo per la carità e dal gusto per l’esercizio di un pensiero crudele; entrambi spiriti solitari e inattuali, stregati dalle proprie brucianti illuminazioni e prigionieri delle proprie manie; entrambi animati da un disprezzo ferocemente anticristiano per i poveri, i deboli e le vittime che non provvedono ardentemente a non essere più tali. Non si può scacciare il sospetto, leggendo Caraco, che se egli avesse avuto a disposizione una foresta per dare forma ai suoi progetti, in luogo delle quattro pareti del suo scrittoio, forse sarebbe diventato una specie di Kurtz dei tempi della fine, vittima di quella stessa dismisura che ravvedeva nei tempi apocalittici prossimi a giungere: «Il nostro dovere è profanare ciò che essi venerano, giacché senza la profanazione il mutamento non mette radici» (p. 37).

La critica a tutto tondo della civiltà e della morale, delle tradizioni e delle ideologie, tutte compartecipi secondo Caraco di una medesima fiera dell’ipocrisia, non risparmia nemmeno le religioni rivelate, imperdonabilmente colpevoli di aver incoraggiato senza freni la riproduzione della specie: «La fede non è che una vanità tra le altre e l’arte di ingannare l’uomo sulla natura del mondo»(p. 23), complice del potere e distillatrice di inganni disonorevoli, utili solo a rendere sopportabili alle masse i matrimoni dell’atroce e dell’assurdo. Si guadagnano tuttavia un elogio le religioni pagane, a cui va il merito di aver spiritualizzato le forze della natura, vietandosi la presunzione di fare dell’uomo il loro dissennato signore e pastore.

Solo antidoto a un contemptus mundi altrimenti assoluto è la prefigurazione di una possibile rinascita dei pochi resti dell’umanità dopo la catastrofe, vagheggiando un riscatto e una risalita al potere del principio femminile e l’avvento/rinascita di società matriarcali che mettano al bando le guerre e l’imperativo della riproduzione. Memori della stupidità e della distruttività dell’ordine maschile, esse sapranno forse costruire le condizioni di un’armonia irraggiungibile nel presente, irrimediabilmente orfano di ogni utopia politica credibile e i cui abitanti dovranno accorgersi, fosse anche solo in punto di morte, che «il Cielo è vuoto quanto le loro tasche» (p. 115).

Morti tutti gli dèi, trascinati e rassegnati a un corso delle cose che porta gli esseri umani «a porgere la gola, perché tutto sia consumato» (p. 54) non rimarrebbe altro da fare, per il saggio, che esercitarsi in una veglia intenta a «decifrare i segnali ineluttabili del vuoto che verrà» (Baustelle, Maya colpisce ancora), praticando un’ascesi solitaria fondata sul rifiuto del compromesso, sulla riduzione al minimo di qualunque commercio con l’umano e sul culto del nulla come ultimo oggetto di preghiera. Per parte sua, Caraco ha fatto della solitudine (da lui definita «una scuola di morte», giacché «ognuno di noi muore solo e muore interamente», p. 10) una vera disciplina. Fedele a tale mistica della separazione e dell’autoannullamento, egli ha atteso pazientemente l’ora delle proprie dimissioni dal genere umano, scegliendola coerentemente «a disprezzo delle contingenze», e anche, possiamo aggiungere, a dispetto di una lunga tradizione di pensatori, da Schopenhauer a Cioran, che hanno intessuto le lodi del suicidio senza però avere il coraggio di andargli conseguentemente incontro. Come scrive con lapidaria sintesi Franco Volpi nella sua monografia sul nichilismo: «Un giorno di settembre del 1971 in cui il padre rese l’anima a Dio, aspettò con pazienza la sera. Poi, imbottitosi di barbiturici, si tagliò la gola con una lama per andare incontro il più rapidamente possibile alla fine della sua peregrinazione terrena»[5].


Il disfacimento delle intelligenze e l’appello alla gioventù

Come visto finora, l’inchiostro di Caraco attinge la sua ispirazione da un odio profondo per la menzogna come contrassegno di una vita filosofica – «L’uomo degno di questo nome, al giorno d’oggi, non crede in niente, e se ne gloria» (p. 25) – che si esercita nella testimonianza di «quei pochissimi che disingannano i ciechi turbando i sordi» (p. 30), e a cui è impedito un qualunque contatto col vero se non attraverso la disperazione e la furia. E il sarcasmo. Lo scrittore francese non manca infatti di osservare con amaro divertimento la contraddizione stridente di una cultura che diviene sempre più ossessionata dalla cortesia, dalle buone maniere e dalle dolci parole, quanto più cela a sé stessa la brutalità e la violenza crescente del corso storico che ci travolge («il tragico della faccenda, che i moralisti non vogliono ammettere, è che il mondo scoppia di virtù, penso che mai se ne sarebbero viste tante. Nonostante tutte queste virtù, stiamo andando al caos», p. 41), contenta dei progressi nella chiacchera («Le nostre rivoluzioni sono puramente verbali e cambiamo le parole per aver l’illusione di riformare le cose», p. 33), appagata dalle proprie macchine finzionali e dallo scintillio dei più aggiornati flatus voci:


I nostri maestri non escono più dalla logomachia, e dopo aver sostituito tre dozzine di parole, che capiamo, con tre dozzine di parole sconosciute, mediante le quali creeranno un codice a loro uso e consumo, ci informano di aver gettato nuove basi e ci invitano a tributar loro ammirazione. Mai spiegazioni del mondo furono così miserevoli, poiché i pesi e le misure sono falsi, i punti di riferimento tutti discutibili, per non parlare poi dell'adozione di certi termini, stiamo entrando nel caos delle idee e vi siamo condotti dalla prostituzione delle parole. Nessuno è più quel che è, e ognuno vuol esser diverso, rifiutando però di diventare quel che si studia di apparire, di qui i mille imbrogli inconcepibili, gli autori dei quali perdono la bussola in mezzo ai loro stessi illusionismi. Conseguenza di ciò è uno stupore universale, e se si ascoltasse la lezione della Storia, si saprebbe che dallo stupore alla stupidità il passo è quanto mai breve. (p. 67)


La denuncia della fede babbea che le masse prestano ai dispensatori di menzogne rassicuranti circa il futuro che le aspetta, non si esaurisce tuttavia in un disprezzo altezzoso e compiaciuto. Questo cronista del caos è invece capace di delineare, sia pure per rapidi schizzi, con oltre 50 anni di anticipo, tendenze e fenomeni della realtà contemporanea con un intuito stupefacente. È con non poco sbigottimento che rinveniamo tra le sue carte quella che potrebbe essere un’esatta descrizione della logica atomizzante degli odierni social network: L’essenziale della faccenda è agitarci anziché muoverci e sottrarci al confronto anziché cercarlo. Così fermentiamo in una sfera chiusa, nella quale ci esibiamo (p. 32). O del livellamento, in termini di prevenzione del dissenso, tra dittature censorie e democrazie in sovrapproduzione di opinioni e di informazioni ma sempre più povere di pensiero e azione. Per non dire della resistibile resa al dispiegarsi incontrollato dell’intelligenza artificiale che già si preannuncia, in un’accelerazione volontaria dell’obsolescenza dell’umano.

Nemmeno i sistemi di istruzione sfuggono al quadro di declino: di riforma in riforma dei programmi di studio, le conoscenze solide vengono ridotte in frantumi («ci affanniamo a innovare, per essere alla moda» p. 69; e chissà cosa direbbe oggi delle magnifiche sorti e progressive della «didattica per competenze»…) trasformando la scuola in un’agenzia di barbarie e di impoverimento per le future generazioni, giustificandone così la spinta alla ribellione. La sollevazione giovanile del ’68, con il suo carattere antiautoritario e antimilitarista sembra offrire finalmente a Caraco la possibilità di un pubblico con cui interloquire e trovare ascolto: «Non ne voglio all’uomo qualunque, questo sventurato per missione che si sveglierà soltanto nel pieno dell’incubo, il mio libro non si rivolge a lui: io parlo ai giovani, che nelle università insorgono contro la morale e l’ordine, questi giovani fanno paura a troppa gente» (p. 120). Ma troppo forte e radicata in lui è la tendenza all’isolamento, perché si possa andare oltre il proposito messo su carta. Il libro di cui parliamo uscirà soltanto postumo, nel 1982.

Con lo sguardo dell’oggi, si può supporre che se non fosse per l’attaccamento alla non-violenza che li separa da Caraco, le deturpazioni di quadri e monumenti da parte dei «risvegliati» dell’ultima generazione avrebbero trovato in questo cantore beffardo dell’iconoclastia e della profanazione una voce di difesa: «rido al vedere cento popoli divenire conservatori delle loro antichità immaginarie o reali, in balìa della prossima catastrofe; rido al veder contendere al nulla i templi da cui il nulla trae la propria sopravvivenza, e dichiaro che tutto morirà, gli uomini al pari delle pietre, le pietre al pari degli uomini» (p. 96). Se vi sono dei versi che avrebbero potuto fare da perfetto esergo a queste cronache dei giorni del caos e del fuoco, della stupidità e della dismisura, sono quelli della più nota poesia di Yeats, La seconda venuta: «Le cose cadono a pezzi, il centro non può tenere. / Pura anarchia dilaga nel mondo. / La marea insanguinata s'innalza e dovunque / La cerimonia dell'innocenza è annegata. / I migliori mancano di ogni convinzione mentre i peggiori / Sono pieni di intensità appassionata».


Apocalisse e rivoluzione

I giovani non possono più salvare il mondo, il mondo non può più essere salvato, l’idea di salvezza è semplicemente un’idea sbagliata, e noi dobbiamo pagare i nostri innumerevoli errori, è troppo tardi per riparare ad alcunché, il tempo delle riparazioni è scaduto e quello delle riforme è finito. I più fortunati moriranno combattendo e i più miserabili stipati negli scantinati o accoppiandosi tra le fiamme, per ingannare l’agonia con l’orgasmo. Il mondo sarà un grido di dolore e di estasi, in cui gli uomini più puri non avranno altra risorsa che ammazzarsi l’un l’altro per non dover disprezzare se stessi. La scelta dell’agonia sarà l’ultima a noi rimasta, e ciò sarà prima di quanto non si pensi, dall’oggi al domani saremo scaraventati nel precipizio e lì ci sveglieremo, non fosse che per il tempo di sentire che stiamo spirando. Allora rivedremo ciò che videro i Conquistatori del Nuovo Mondo, dove, al loro avvicinarsi, intere tribù si gettavano dalla cima della loro montagna per prevenire l’orrore inevitabile, ingannando la morte con la morte stessa. (p. 127)


Che fare dunque? Come trascorrere i giorni che ci separano da un disastro che, inconfessabilmente, sappiamo essere almeno in parte non più evitabile? Vi sono delle alternative all’impazzimento, all’istupidimento, al suicidio? Chi vorrebbe continuare a vivere in un mondo che potrebbe assumere, non fra millenni e nemmeno tra secoli, i tratti funerei di quello narratoci da McCarthy ne La strada? La lucida disperazione del profeta ci invita innanzitutto a un esercizio di spietatezza intellettuale verso noi stessi, verso la segreta complicità che nutriamo verso i propalatori di fandonie, verso l’arrendersi senza combattere all’ineluttabile, in un incantamento stralunato che ritroviamo anche nelle pagine iniziali dell’ultimo libro del Comitato Invisibile[6]. Decisamente, Caraco ci parla del nostro Adesso, di noi che:


finiamo col girare in un labirinto e giustifichiamo il nostro impaccio giudicando impossibile la sintesi, per via del movimento che ci travolge. Dopodiché tutto diventa lecito e nessuno è responsabile, ora noi siamo automi liberamente complici della fatalità, che divinizziamo perché eviti di farci sentire uomini, godiamo nell’abbandonarci, ci crogioliamo nel nostro accasciamento, corriamo incontro alla nostra rovina rifiutandoci di troncare con quello che ci trascina, siamo consenzienti… (p. 73)


Occorre allora iniziare quantomeno a segare le catene materiali e morali che ci avvincono a un ordine mortifero, traendo delle conseguenze dall’assunto che non «esistono peggiori nemici di coloro che ci dominano» (p. 94) e che «non basta aver ragione nel secolo attuale, né basta essere sensibili per cambiare qualcosa» (p. 107). I caratteri di un’alternativa collettiva praticabile prima dell’ultima fine rimangono fuori dalla visuale di Caraco. Ciò nonostante, lo sforzo di immaginare una città futura dopo la grande catastrofe non può che scaturire dalla repellenza per l’impoverimento di capacità umane, per il furto di tempo e per la schiavitù del lavoro che il capitalismo (altra parola mai nominata in questo libro, ma i cui riverberi sono ben visibili) ci ha fatto credere naturali e necessari, addirittura desiderabili per alcuni: «L’uomo non è quaggiù per produrre e per consumare, produrre e consumare sono sempre stati soltanto un fatto accessorio, ciò che conta è essere e sentire che si esiste, il resto ci abbassa al rango di formiche, di termiti e di api» (p. 60). Resta da vedere allora se non possa essere una rivoluzione eco-socialista, e non lo sprofondamento nella barbarie che tanto inquietò il nostro, ciò per cui le nuove generazioni lotteranno, «per sfuggire all’ordine, un ordine sempre più assurdo, che si mantiene soltanto a scapito della coerenza e, quindi, dell’umanità dell’uomo» (p. 15), uscendo così da quello stato di minorità a cui le democrazie reali, dai tempi di Tocqueville fino ai nostri, non hanno cessato di confinarci. Qui Caraco recupera, sia pure copertamente, l’idea benjaminiana della rivoluzione come freno di emergenza, pur mostrandosi scettico verso le sue possibilità di successo: «per quanto la sorgente sgorghi fra le nostre mani, il corso del fiume ci sfugge […]. Un riassetto è ormai impossibile, il mondo è in brandelli, né è più immaginabile una sintesi nel pieno di un cambiamento perpetuo, bisognerebbe arrestare il movimento per poter considerare metodicamente tutto con distacco: ma non è in nostro potere frenare il flusso che ci travolge» (p. 52).

Cosa rimane dunque, alla fine di questo libro? Uno sguardo inconciliato e impietoso sulla malvagità del mondo che ci circonda. Nessun bicchiere di vino, nessuna sinfonia di Beethoven per godersi il panorama dell’umanità che sparisce dall’universo, dice Justine, la protagonista di Melancholia di Lars von Trier, prima che l’omonimo pianeta cancelli la terra: «Perché non ci riuniamo tutti al cesso», allora? Oppure possiamo continuare a testimoniare lo scandalo, e preparare il terreno alla vendetta e alla resa dei conti. Su questo punto il testo si chiude, perché qualcos’altro possa darsi, depostolo: «Prima di sprofondare nella fornace manderemo coloro che ci portano alla morte a spianarci la strada che non ci evitano, poi sarà la dissoluzione» (p. 128)



Note [1] Cfr. Byung-Chul Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Roma 2013, pp. 19-20: «L'indignazione digitale non è cantabile: non è capace né di azione né di narrazione. Rappresenta, piuttosto, uno stato affettivo, che non dispiega alcuna forza in grado di produrre azioni. La dispersione generale, che contraddistingue la società di oggi, non permette all'energia epica dell'ira di sorgere. Il furore in senso enfatico è più di uno stato affettivo: è una capacità di interrompere uno stato in essere e di farne iniziare uno nuovo. In questo modo produce il futuro. La massa indignata di oggi è oltremodo superficiale e distratta: le manca qualsiasi massa, qualsiasi gravitazione necessaria per le azioni. Non genera alcun futuro». [2] Franco Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, p. 130. [3] Cfr. Alessandro Simoncini, Potenza e impotenza della distopia: due o tre cose su Squid Game, 24 giugno 2023, https://www.altraparolarivista.it/2023/06/24/alessandro-simoncini-potenza-e-impotenza-della-distopia-due-o-tre-cose-su-squid-game/ [4] Mario Tronti, Perché profezia e politica? Di questi tempi, 20 luglio 2021, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/perch%C3%A9-profezia-e-politica-di-questi-tempi [5] F. Volpi, Il nichilismo, Laterza, Bari 2004, p. 133 [6] Cfr. Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene – Ai nostri amici – Adesso, Nero 2019, p. 255: «Tutte le ragioni per fare una rivoluzione sono presenti. Non ne manca nessuna. Il naufragio della politica, l'arroganza dei potenti, il trionfo del falso, la volgarità dei ricchi, i cataclismi dell'industria, la miseria galoppante, il nudo sfruttamento, l'apocalisse ecologica - niente ci viene risparmiato, neanche il fatto di esserne informati. «Clima: il 2016 batte il record di caldo», titola Le Monde come ormai ogni anno. Le ragioni ideali ci sono tutte, ma non sono le ragioni che fanno le rivoluzioni: sono i corpi. E i corpi sono davanti a degli schermi. [...] L'umanità assiste incantata al suo stesso naufragio come fosse uno spettacolo di prima visione. Ne è talmente posseduta che non si accorge dell'acqua che già le bagna le gambe. Alla fine, trasformerà tutto in salvagente. È il destino dei naufraghi quello di trasformare ogni cosa in un salvagente»



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Marco Rizzo insegna materie umanistiche nelle scuole superiori della Toscana. Nei suoi studi universitari si è occupato di letteratura e censura e dell'opera di Céline. Ha pubblicato sporadicamente alcuni scritti di argomento politico e letterario su varie riviste online. Sa che ad ogni presentazione come questa, chi legge sorriderà pensando a certe strane omonimie.

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