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L’invenzione della casa






La casa come la conosciamo arriva tardi, è conseguenza diretta della coltivazione ed è vincente perché riesce a riunire nello stesso concetto diversi fattori e comportamenti.


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L’idea di casa appare oggi come una cristallizzazione di comportamenti millenari, fonde in un concetto unico elementi prima distinti. Tra questi, in primo luogo il gruppo, la comunità, le relazioni di parentela, i legami di amicizia. Poi il rifugio, il riparo, il luogo in cui si è al sicuro, in cui nutrirsi, raccontare, amare, proteggere. A questi si aggiunge un elemento fondamentale, il fuoco. È lui che permette la difesa, migliora il nutrimento, lega le narrazioni, dà forma allo spazio intimo del gruppo, ne crea il centro e i limiti. Il fuoco rimane fisicamente al centro dello spazio interno, intorno a lui continua a organizzarsi la vita, mentre la funzione di difesa viene delegata alla solidità dei confini dello spazio interno, i muri. La centralità del fuoco non abbandona mai la casa. Anche addomesticato e quasi irriconoscibile nella moderna trasformazione in fornelli elettrici o a microonde, continua a generare lo spazio della narrazione del gruppo, nonostante i sedicenti razionalisti abbiano cercato di comprimere il luogo che gli compete nella sola desolante funzione di aiuto nella preparazione del cibo. Quando ci fermammo, questi e altri elementi si riunirono in qualcosa di fisso, materiale, un elemento nuovo, la sostanziale novità stava nell’invenzione di confini fissi, qualcosa di cui non avevamo mai avuto bisogno fino all’arrivo dell’agricoltura, fino a quando non abbiamo più avuto la libertà di muoverci, costretti a presidiare e chiudere i campi e i raccolti. Quell’elemento nuovo era la casa.

L’invenzione della casa non è una questione di muri o di arredi. È l’espressione di un nuovo modo di organizzare le relazioni umane. Con la casa, nella casa, per mezzo della casa probabilmente nasce l’idea di famiglia coniugale. La concentrazione all’interno del nucleo familiare a due della crescita e dell’educazione dei figli comporta la disgregazione di strutture più antiche, basate su altri tipi di rapporti fra uomo, donna e gruppo sociale. Invenzione della casa e invenzione della famiglia coincidono. La formazione dell’idea di famiglia porta direttamente alla formazione dell’organizzazione sociale che arriva allo Stato. “La maggior parte delle società umane finora esistite non ha avuto né governo, né legge, né stato. Prima del IV millennio a.C. tali entità non esistevano.” È arrivato il momento di leggere la casa “non più come un dato universale della storia umana (e quindi naturale secondo le categorie di Claude Lévi-Strauss) bensì come un dato storico, un prodotto culturale della storia umana.”

Tutto parte dalla terra. Quando cammino la percorro, ne conosco i segreti, dò un nome ai luoghi, diventano custodi della memoria mia e del gruppo. Quando coltivo ho bisogno di recintarla, invento i confini, i limiti fissi. Ciò che è dentro al recinto è mio, invento la proprietà. Quando raccolgo i frutti del mio campo non li consumo tutti, li accumulo, invento il capitale. Ho bisogno di conservarli al sicuro, invento il granaio. Non posso abbandonarlo, invento la casa e per farlo prendo come modello il granaio. Nel granaio metto il mio capitale, il grano, nella casa metto il mio capitale umano, la donna, i figli. È possibile che in una fase iniziale per accumulare e conservare i semi, si scavassero buche nel terreno e le si intonacasse per impermeabilizzarle, ma anche in questo modo la ventilazione necessaria alla conservazione dei semi non poteva essere sufficiente e si passò a ideare una costruzione che potesse permettere la giusta ventilazione e allo stesso tempo fosse abbastanza solida. Possiamo immaginare un tempo in Mesopotamia in cui l’unico elemento costruito del gruppo è un edificio in terra cruda che serve a immagazzinare il raccolto. È il primo seme del villaggio, della città, della metropoli, intorno a quella prima architettura ci sono ancora rifugi come si sono sempre costruiti, membrane sottili che non separano il mondo fra dentro e fuori, costruzioni che sono giuste ed efficaci se sono abituato a spostarmi, ma che ora perdono il loro senso visto che ormai non posso certo abbandonare il campo che coltivo e ancor meno posso abbandonare il luogo dove ho accumulato i miei averi. Ho inventato l’avere e il granaio è il suo simbolo visibile e tangibile. Ho bisogno di custodirlo, di stargli vicino, di proteggerlo, non posso più muovermi, ho bisogno di costruire un riparo fisso, vicino al granaio.

È a questo punto che invento la casa. Non è più un riparo. È una cassaforte. È uno spazio chiuso, deve esserlo, il suo senso profondo non è più riparare, ma custodire. Il fuoco non basta più. Devo avere muri solidi e impenetrabili, delego la sicurezza non più al fuoco, ma alla solidità dei confini, i muri, come farò con la città e con lo stato. Ho già un modello preciso per questo, è il granaio.

Il gesto generatore della nuova cultura è quello che faccio quando traccio il confine nella terra. Confine, limite, muro. Sono tutte conseguenze di uno stesso gesto, quello che separa il mio spazio dal resto. È la prima volta che succede. È un gesto di separazione. Un taglio. Mi taglio fuori dal resto del mondo. Taglio i ponti col passato, lo dimentico e si trasforma in leggenda, mito, nostalgia dell’origine. Che sia da cercarsi in quel gesto l’evento che separa gli uomini dagli dei presente in molte tradizioni in forme diverse, ma col medesimo significato? Nella tradizione ebraico-cristiana il tempo in cui c’era armonia perfetta fra l’uomo e il resto del creato viene chiamato paradiso e in un mondo già ampiamente addomesticato non può essere immaginato se non come uno splendido giardino. Nella tradizione greca l’età d’oro delle origini è governata da Saturno, a cui succede Giove. Prima dell’arrivo degli dei maschi c’era stato un periodo in cui era una divinità femminile il riferimento e nel pantheon greco era già stata rimossa e sostituita al maschile. Ma il vero assente anche nel mito è il periodo che viene prima della coltivazione, in altre parole, la cultura greca come le altre culture sedentarie, vedeva l’inizio del mondo dall’inizio dell’agricoltura. Nel tempo di Giove compaiono limiti e confini e naturalmente sono visti in positivo. Il limite è il punto in cui qualcosa comincia a essere. Lo spazio dell’uomo, il villaggio, esiste nel momento in cui se ne stabiliscono i limiti, che individuano due spazi, quello interno come amico e quello esterno come nemico. Ciò che è nel limite esiste, il resto è zona selvaggia, inconoscibile, pericolosa. L’alternanza tra interno ed esterno, l’esistenza di confini e di uno spazio al di fuori dei confini, la contrapposizione tra il territorio abitato considerato sacro e reale e lo spazio circostante, sconosciuto, indeterminato, caotico, è una condizione basilare, una caratteristica che fa da sottofondo a tutta la vita delle società sedentarie. Il nuovo mondo addomesticato si genera da questa frattura e il muro è il suo simbolo, un limite che va continuamente preservato e ribadito a mezzo di riti appropriati.

Lo spazio degli addomesticati è ritagliato all’interno dello spazio naturale a cui si contrappone, limitato, confinato, chiuso, protetto da muri e recinti. È uno spazio addomesticato costruito a esclusivo uso e consumo degli addomesticati, che fanno di tutto per tenere fuori il selvatico, che siano piante, animali o altri umani non appartenenti al gruppo insediato. Eliminare, sterminare il selvatico, diventa un postulato e da allora lo si fa a ogni scala, sia quella interna contro formiche e insetti che ignorando il divieto continuano a infilarsi nei nostri spazi, che a quella esterna, togliendo piante infestanti e scacciando gli intrusi anche con l’aiuto degli animali, il cane in primo luogo. È la medesima mentalità che, applicata su scala ancora più ampia, permette lo sterminio di ogni essere vivente sui territori destinati a essere addomesticati. In latino esiste il termine colo, colere, col senso di abitare e la medesima radice di coltivare e colonizzare. Se scopro un terreno nuovo, la prima cosa che faccio è piantarci un simbolo che dice che quella terra è mia. Da quel segno germina il confine che renderà quella terra addomesticata e che trasforma immediatamente tutto ciò che ci vive sopra in una mia proprietà, passibile di essere conservato e trasformato o, se ritenuto dannoso, eliminato, che sia una foresta o un popolo. In un sistema di questo genere, tra lo schiacciare una formica e uccidere un indigeno non c’è la minima differenza. Entrambi sono una minaccia, entrambi portano il selvatico nel mio spazio e devono essere eliminati. Solo così riesco a preservare l’integrità del mio spazio, reale e immaginario.

Fermarsi, stabilirsi in un unico luogo, ha significato ridurre drasticamente lo spazio di vita. Il cacciatore vive in un territorio di decine e a volte centinaia di chilometri quadrati, un paesaggio a cielo aperto che comprende deserti, montagne, fiumi, foreste. L’addomesticato passa la maggior parte della vita in piccoli campi e il resto in spazi angusti e chiusi di pochi metri quadri a cui si affeziona e che investe di significati, emozioni, a cui si attacca morbosamente, e che diventano il simbolo della sua intimità, uno spazio delimitato da confini che non può e non deve essere violato da nessuno, separato da tutti gli altri che a loro volta hanno sviluppato il medesimo sentimento per il loro bugigattolo, diviso, separato, chiuso soprattutto, fino a rappresentare perfettamente il simbolo della nuova concezione di un’esistenza incentrata su sé stessa.

Con l’arrivo della cultura agricola il nostro rapporto con lo spazio cambia completamente. Da allora, lo spazio, il Mondo, ha bisogno di essere fondato. La fondazione del Mondo avviene con la ripetizione rituale dell’azione esemplare di un Dio o di un Eroe, il Mondo si genera dalla frattura e contrapposizione tra il territorio abitato, considerato sacro e reale, e lo spazio circostante, visto come sconosciuto, indeterminato e caotico. Il fondatore ha il compito di addomesticare il luogo, deve riconoscerne la potenza, chiederle permesso. L’uomo nella prima tradizione sedentaria chiede alla terra se vuole essere arata o lavorata, circoscrive, ritaglia, delimita un pezzo di caos che da quell’azione assume la dignità di luogo. Il tracciamento dei confini ha un preciso carattere fisico e ha la necessità di essere ripetuto e ribadito con un rito. Le processioni, per esempio, rifondano e rivivificano lo spazio, riorganizzando le densità dei luoghi. Fra i romani, gli elementi essenziali del rito di fondazione sono la divinazione, la delimitazione, il seppellimento di reliquie o doni, l’orientamento e la divisione in quadranti. Con la divinazione si chiede al luogo se è bendisposto nei confronti dei nuovi venuti, si chiede il punto preciso in cui fondare l’insediamento. Poi il fondatore delimita un’area di terreno con un aratro. Dove s’intende lasciare una porta, l’aratro viene sollevato dal terreno e portato. Il vocabolo porta deriverebbe appunto da quel gesto. È il solco a essere sacro e inviolabile, il confine, il muro, che sia reale o simbolico. Viene poi scavata nel terreno una fossa detta mundus, in cui si gettano primizie, terra proveniente dalla madrepatria, reliquie sacre. Il mundus è coperto con una pietra e vi si sistema sopra o di lato il fuoco sacro della città, a conferma che è dal fuoco che continua a nascere lo spazio anche nelle società sedentarie. A questo punto la città può considerarsi nata, gli agrimensori tracceranno le strade e delimiteranno i lotti. Ma costruire e possedere richiedono una giustificazione perché mantengono la memoria di essere atti innaturali. L’origine del nuovo ordine artificiale, la città, è spesso connessa a un omicidio. Nella Bibbia è Caino il fondatore della prima città. Il suo nome deriva dalla radice knh, possedere, ed è connesso con kna, invidiare. Nel mito, il fondatore della città è il primo proprietario e il primo fratricida, uccide il fratello selvatico. È un assassinio che si ritrova in molte narrazioni. Sotto diverse forme, viene narrata la vittoria dell’uomo addomesticato sul selvatico. La storia di Gilgamesh ed Enkidu, come quella di Gesù e Giovanni Battista, narrano la medesima vicenda.

Nel passaggio dalla cultura mobile a quella sedentaria nascono nuove abitudini, idee, oggetti, quello che già c’è si trasforma e assume un altro immaginario dato dal nuovo contesto. Intorno al nucleo generatore del fuoco, che ha riunito da sempre il gruppo, si condensano elementi prima separati e nasce l’idea di casa come la conosciamo. Il nuovo elemento chiamato casa fa da catalizzatore e contenitore per le idee di gruppo, famiglia, riparo, sicurezza, intimità, e nel tempo ne diventa sinonimo. Questo ne determina il successo e il suo posto centrale nelle società sedentarie, fino a rappresentarne il miglior simbolo, imprescindibile e intoccabile, tanto che chi non la possiede viene definito dalla sua assenza, homeless.

È possibile che questa nuova idea forte faccia da humus per la nascita di un altro concetto, più generale e scivoloso da definire, quello di abitare. La nuova cultura addomesticata ha nell’avere uno dei fondamenti, che può contrapporsi all’essere, più vicino alla cultura precedente. Si potrebbe ipotizzare che l’idea che abbiamo oggi di abitare nasca con la sedentarizzazione. Nella cultura architettonica è un concetto base, su cui si continua a dibattere, cercando di definirlo, ma è comunque un postulato, non si discute sul fatto che abbiamo sempre abitato, chi cerca nella preistoria si pone la domanda: come abbiamo abitato? senza chiedersi se non possa essere sbagliata la domanda. Non riusciremo mai ad avere risposte adeguate sbagliando la domanda. Ci sono diversi indizi che possono giustificare una ricerca in questo senso. Uno è che la parola italiana abitare deriva dal latino habere, termine che inizialmente significava afferrare e raggiungere e solo dalla nascita dell’idea di possesso con l’abbandono della mobilità, prende il senso che comunemente gli attribuiamo. La formazione della lingua latina è certamente lontana dal passaggio all’agricoltura, ma le forme verbali dell’avere sono sempre posteriori a quelle dell’essere, alcune lingue per il concetto di avere continuano a usare l’essere: quella cosa è a me. La radice indoeuropea ues-, indica abitare nel senso di occupare, da questa radice probabilmente derivano i nomi delle dee greche e romane dell’abitare, Hestia e Vesta. Nelle varie lingue, le parole che significano abitare, derivano da concetti come rimanere, stare, indugiare, andare lentamente, oltre che dai sensi precedenti di essere, esistere, vivere. C’è una identificazione frequente fra abitare e vivere, come se nella nuova idea di abitare rimanesse pulsante l’abitudine precedente di vivere in relazione ai luoghi. Seguendo questa pista, vedo che solo quando abbandono la condizione mobile e mi fermo, delimito il mio spazio e lo possiedo. Solo a questo punto, quando ce l’ho, abito.


Tratto da Maurizio Corrado, L’invenzione della casa, storia di una trappola, Primiceri Editore, Padova 2018.




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