Note sul Premio Nobel per l'economia ad Acemoglu, Johnson e Robinson
Il Nobel per l’Economia 2024 è stato assegnato a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James Robinson per il contributo che i tre hanno fornito alla comprensione delle differenze nella ricchezza tra le nazioni, spiegando il ruolo determinante delle istituzioni nel permettere o nell'ostacolare processi favorevoli allo sviluppo economico.
Particolarmente interessante è il passaggio del documento scientifico della commissione per il Premio, in cui si afferma che i tre avrebbero messo in crisi i fondamenti teorici ed empirici della teoria della modernizzazione, quell’idea secondo cui è lo sviluppo socioeconomico a promuovere la democrazia. Inoltre, sono rilevanti le assenze – malgrado siano conseguenti alle opere citate nei documenti della commissione svedese – dei due ultimi libri di Acemoglu: The Narrow Corridor (2019), scritto con Robinson e Power and Progress (2023), scritto con Johnson. Si tratta di due opere che testimoniano un pensiero non ascrivibile come «neoliberista». Il primo argomenta l’importanza, per la libertà, di un equilibrio stabile fra uno Stato tanto forte da poter vigilare sulla violenza, garantire il rispetto della legge, fornire i servizi pubblici, sostenere istituzioni che creino opportunità e incentivi per gli investimenti, e una società forte e organizzata, capace di controllarlo e di conquistarsi i diritti. Il secondo testo critica l’ottimismo nei confronti degli avanzamenti tecnologici, affermando che i suoi benefici potranno essere distribuiti a tutta la popolazione solo con un rilevante ruolo pubblico e un maggiore potere dei lavoratori. Altrimenti, a guadagnarci sarà solo una ristretta élite e una minoranza di persone molto qualificate.
La concessione del Nobel è complessivamente una buona notizia: conferma un maggiore interesse economico per la storia; porta nel dibattito pubblico il tema della diseguaglianza tra Paesi e il ruolo svolto dal colonialismo nella sua realizzazione. Questo articolo cercherà di fornire un quadro sintetico del pensiero di Acemoglu, Johnson e Robinson e le principali critiche che gli sono state poste. (A.P.)
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Istituzioni e conflitto sociale nel pensiero di Acemoglu, Johnson e Robinson (AJR)
La teoria della crescita di Acemoglu (2009) distingue le cause dello sviluppo tra prossime («proximate») – come il capitale fisico, capitale umano, tecnologia – e fondamentali («fundamental»), completanti le prime, in cui sono ricompresi fattori come fortuna, geografia, istituzioni culturali e politiche. Gli investimenti nelle cause prossime sono un rivelatore della crescita, più che una causa. Infatti, sono necessare delle istituzioni adeguate per favorirli. Le istutuzioni determinano le differenze di sviluppo fra Paesi fornendo diversi incentivi agli attori economici e politici. Esistono quindi istituzioni efficienti - dette «inclusive» - che favoriscono lo sviluppo economico ed istituzioni inefficienti - dette «estrattive» - che lo ostacolano (Acemoglu e Robinson, 2012).
Le istituzioni estrattive sono utilizzate da specifici gruppi sociali per appropriarsi del reddito e della ricchezza prodotta da altri. La proprietà privata è garantita solo per una minoranza, in cui si concentra il potere politico, mentre la maggioranza è esclusa dalle decisioni in materia economica. Chi governa edifica istituzioni economiche volte all'arricchimento, aumentando il proprio potere a scapito della società. I mercati sono distorti a beneficio di pochi. Non c'è alcun incentivo all'istruzione, all'innovazione tecnologica; nessun investimento sul talento delle persone. Gli esempi prediletti da questi autori sono le istituzioni coloniali e postcoloniali. Le istituzioni inclusive permettono e incoraggiano la partecipazione della maggioranza ad attività economiche che sfruttano in modo ottimale talenti e abilità. Il potere sociale è ampiamente distribuito tanto che il governo è sottoposto a regole pluraliste. Lo Stato detiene il monopolio della violenza, necessario per garantire la sicurezza e i pubblici servizi, il rispetto del diritto, la regolazione della vita economica. Queste istituzioni permettono il rispetto della proprietà privata; un sistema giuridico imparziale; pari opportunità nell'accesso agli scambi; la possibilità di aprire nuove attività e di scegliere un'occupazione. Lo Stato favorisce l’istruzione, l’uso della tecnologia e la creazione di mercati inclusivi in cui ognuno può seguire le proprie inclinazioni e le opportunità sono equamente distribuite. Le nazioni falliscono quando hanno istituzioni economiche estrattive, favorite da istituzioni politiche dello stesso tipo che ostacolano la crescita economica.
Perché società simili hanno istituzioni differenti? Assumendo che gli agenti, in quanto razionali, preferiscano istituzioni efficienti a quelle inefficienti, come mai queste ultime persistono in buona parte del mondo?
Per rispondere a tali quesiti, AJR (2003, 2005a, 2006a, 2006b, 2009) hanno elaborato un approccio politico-economico alla crescita economica, basato sulla teoria del conflitto sociale e sul carattere endogeno delle istituzioni, in cui enfatizzano la distribuzione del potere politico nella società. Nulla garantisce che ogni individuo o gruppo vorrà le medesime istituzioni economiche, viste le differenti preferenze istituzionali in relazione ai diversi interessi contrastanti. Tale conflitto distributivo è riassumibile schematicamente nella dicotomia fra l'élite e i cittadini: le società scelgono differenti politiche perché le loro decisioni sono prese da individui o gruppi politicamente forti, interessati a massimizzare il proprio beneficio, a dispetto del benessere sociale. Le decisioni in materia economica creano vincitori e perdenti, non sono scelte neutrali ma il risultato dell'equilibrio nel processo politico: un ruolo decisivo è quindi svolto dalla redistribuzione del potere fra le parti in conflitto. Ogni considerazione sull'efficienza non può essere separata dai conflitti distributivi: a prevalere saranno gli interessi del gruppo con maggiore potere politico, persino a scapito dell'efficienza. Il governo non ha interesse ad effettuare investimenti (infrastrutture, giustizia, sicurezza) o a fornire beni pubblici, a meno che non possa beneficiarne. Politiche ed istituzioni inefficienti, foriere di sottosviluppo, persistono a causa della loro utilità per i gruppi sociali che detengono il potere politico. Il blocco tecnologico e istituzionale è dovuto al timore delle élite di essere rimpiazzate (cosiddetto «political replacement effect»): le innovazioni possono erodere i privilegi, facendo crescere la possibilità di una sostituzione del gruppo al potere. Solo un alto grado di competizione politica consente a questa oligarchia di non porre questi ostacoli. Inoltre, esiste un problema di promessa (cosiddetto «commitment problem»): il conflitto distributivo impedisce che possa instaurarsi un patto credibile fra lo Stato e i cittadini affinché si aumentino gli output per il maggiore beneficio generale. I gruppi controllanti lo Stato non possono promettere di non usare il potere per tradire gli impegni assunti. Il potere politico può scegliere politiche distorsive per garantirsi l'estrazione del reddito da altri membri della società, con lo scopo di vincere la concorrenza politico-economica con i gruppi rivali. Due aspetti sono importanti: il distacco fra il potere politico (in mano all'élite) e le opportunità economiche (in mano a imprenditori e lavoratori,), e un set limitato di strumenti fiscali. L'élite può usare la leva fiscale per trasferire risorse dal resto della società a sé stessa, scoraggiando la crescita economica e rendendo insicuri i diritti di proprietà, ad esempio tramite una gravosa tassazione (riduzione incentivi al lavoro produttivo e disincentivo degli investimenti) oppure ostacolando lo sviluppo tecnologico. Tuttavia, per quanto chi detenga l'autorità legale abbia un effetto sproporzionato sulle istituzioni economiche, l'allocazione del «potere politico de jure» non è l'unico fattore importante per la distribuzione generale del potere. Infatti, è necessario tenere conto dell'abilità dei gruppi subalterni ‒ grazie alla forza o ad un cambiamento ad essi favorevole nella distribuzione delle risorse ‒ di riuscire a organizzarsi per il proprio interesse collettivo, esercitando il proprio «potere politico de facto» per soppiantare l'oligarchia o per influenzarla nelle sue decisioni. Il governo, infatti, più verrà costretto e più sarà credibile nelle sue promesse, ma è pur vero che le costrizioni sono accettate nella misura in cui le rendite sono messe al sicuro, data la resistenza elitaria a conferire dei diritti di proprietà a gruppi estranei al potere politico.
L'interazione fra questi due poteri è basilare per l'analisi del cambio politico di equilibrio. Il cambio istituzionale emerge come il risultato di un conflitto sociale fra le élite - che possiede originariamente il potere politico di diritto - e le masse che, sebbene ne siano inizialmente prive, possono riuscire ad agire collettivamente, conseguendo un significativo potere politico di fatto potenzialmente in grado di cambiare le istituzioni politiche. Ciò sarebbe necessario per poter conservare questo potere effettivo in futuro, togliendo il monopolio del potere politico ai suoi attuali detentori, che non hanno alcun incentivo a rinunciare alle proprie rendite garantite dalle istituzioni attuali. È proprio la natura transitoria di tale potere a creare una domanda per il cambio nelle istituzioni politiche; questa rivendicazione potrebbe anche venire neutralizzata da alcune concessioni riformistiche di un'oligarchia che paventa una rivoluzione o una repressione troppo costose. Le masse devono invece scegliere fra una ribellione per richiedere beni essenziali e più opportunità nell’immediato oppure ottenere la garanzia di avere le stesse cose in futuro mediante un cambio istituzionale.
Gli autori vedono una soluzione nella realizzazione di un consensually strong State. I cittadini consentono ‒ attraverso l’uso del potere necessario di controllo, tramite l'uso delle elezioni e di altri mezzi – uno Stato abbastanza forte da poter investire per la crescita economica ma non tanto forte da fermare gli investimenti privati con un’eccessiva imposizione fiscale. Coerentemente con la sua visione, Acemoglu (2021) si è distinto per un rifiuto della concezione di istituzioni da imporre dall’alto, criticando l’intervento statunitense in Afghanistan per la pretesa di costruire un nuovo Stato senza avere il consenso della popolazione.
Inoltre, Acemoglu (2009) giunge a distinguere nettamente la cultura dalle istituzioni politiche ed economiche, considerando la prima complementare e subalterna alle seconde. L’esempio più evidente è quello fornito dall’Asia Orientale, la cui cultura asiatica è stata a lungo considerata ostile allo sviluppo, mentre, oggi, a partire dalla recente ascesa delle Tigri Asiatiche, si ritiene che i cosiddetti «valori asiatici» abbiano svolto un importante ruolo nello stesso, interagendo con le istituzioni politiche e gli agenti sociali, smentendo quindi le teorie modernizzatrici sulla carenza di capitale sociale o sulla cultura come fattore determinante.
La storia economica di AJR
Ogni fase storico-economica ha avuto un Paese leader e dei Paesi follower impegnati attivamente a raggiungere il primo; altre regioni hanno invece subito passivamente lo sviluppo dei centri sviluppati, restandone ai margini, in condizioni di subalternità. Tali differenze sono causate dalla diversa risposta ad una «congiuntura critica» (Acemoglu, Robinson 2012), cioè ad un evento o complesso di fattori alteranti gli equilibri politico-economici di una società in maniera radicale: i Paesi sviluppati sono quelli che hanno reagito rompendo il ciclo delle istituzioni estrattive, andando verso un sistema più inclusivo; i Paesi sottosviluppati, al contrario, hanno reagito consolidando le istituzioni estrattive. Secondo questo approccio, la storia economica è strettamente legata all'evoluzione storica delle istituzioni: queste ultime fanno la differenza nella capacità di ogni Paese di generare o recepire il progresso economico.
Acemoglu e Robinson citano tre congiunture critiche fondamentali: la Peste Nera del 1348; il commercio atlantico del XVII secolo; la Rivoluzione Industriale. La prima provocò un grave calo demografico che, in Europa Occidentale, ha consentito di incrementare il potere contrattuale dei contadini, infliggendo un grave colpo al feudalesimo, mentre in Europa Orientale ha consentito ai grandi proprietari di aumentare la propria disponibilità di terra e, conseguentemente, di accentuare il primo dispotismo (Acemoglu, Robinson 2012); il commercio ed il colonialismo dell'epoca moderna ha consentito ai Paesi affacciati sull'Atlantico (Inghilterra, Olanda, Francia) ‒ dotati delle istituzioni più inclusive a causa del minore potere dei proprietari terrieri ‒ di alimentare la ricchezza della borghesia nazionale che, più potente, sarà capace di affermare un regime parlamentare costituzionale (AJR 2005b; Acemoglu, Robinson 2012) passando per i conflitti Parlamento-Corona della guerra civile (1642-48), della Gloriosa Rivoluzione (1688) e la guerra d’indipendenza delle Province Unite contro la Spagna. Nella Penisola iberica, al contrario, le istituzioni esclusive assolutiste restrinsero i vantaggi del commercio atlantico ad una cerchia di monopolisti vicina alla Corona e la borghesia, dato il potere dell’aristocrazia terriera, aveva un debole potere contrattuale. Nelle colonie, invece, furono applicate istituzioni meramente estrattive volte allo sfruttamento dei nativi, ove non fu possibile un'emigrazione massiva dall'Europa (AJR 2001); l'industrialismo ha portato all'enorme divario, di cui si è scritto sopra, fra l'Occidente e il resto del mondo, salvo eccezioni.
Il ruolo del colonialismo nelle differenze di sviluppo economico
L’articolo seminale di AJR (2001) sul colonialismo è stato rilevante sia per la teoria che per la metodologia utilizzata. Il suo obiettivo è di comprendere le cause delle differenze tra i Paesi nel reddito pro capite attuale, indagando il ruolo delle istituzioni (focalizzandosi sul diritto di proprietà e meccanismi di controllo dell’esecutivo, misurati con un indice sul rischio di espropriazione), soffermandosi sulle differenze tra i Paesi colonizzati dagli europei. L’idea per stimare l’effetto delle istituzioni presenti sullo sviluppo economico fu di utilizzare i tassi di mortalità tra i primi coloni come strumento. In econometria si definisce «strumento» una variabile correlata con la variabile indipendente di interesse (in questo caso, le istituzioni contemporanee) ma non con la variabile dipendente, di cui si vuole spiegare la variazione (il reddito pro capite). In tal modo, assumendo che il tasso di mortalità dei primi coloni non sia correlato direttamente con il reddito attuale ma che agisca su di esso solo attraverso le istituzioni contemporanee, si evita il rischio che la stima dell’effetto di queste ultime sia distorta dall’effetto di altri fattori rilevanti ma non considerati.
Tale scelta metodologica si basa sulla teoria per cui gli effetti delle istituzioni passate sono persistenti, hanno avuto un peso nel determinare le istituzioni contemporanee attraverso questo canale causale: i tassi di mortalità hanno influenzato l’applicazione di differenti forme di colonialismo: nei luoghi in cui questi erano più bassi – vista la possibilità di instaurare un colonialismo di insediamento – si sono create delle istituzioni inclusive (per i coloni), mentre dove vi era un’elevata mortalità, le condizioni non permisero l’installazione di un’ampia popolazione europea e i coloni crearono delle istituzioni estrattive, con l’obiettivo del mero sfruttamento delle risorse del territorio dominato. Queste differenti istituzioni storiche condizionano le istituzioni presenti e quindi l’attuale reddito pro capite dei Paesi.
Inoltre, AJR tennero conto del possibile ruolo della geografia (inserendo variabili sul clima, le risorse naturali e la latitudine) e della cultura (misurata con la frammentazione etnolinguistica e la religione).
La conclusione dello studio conferma l’ipotesi iniziale ed enfatizza come il sottosviluppo dell’Africa e dell’America Latina non sia causato dalla geografia o dalla cultura – il cui ruolo è stato controllato attraverso l’inserimento di variabili quali il clima, le risorse naturali, la latitudine, la religione, la frammentazione etnolinguistica ‒ ma, appunto, dalle istituzioni.
Secondo Ince (2022), attraverso questo articolo l’economia mainstream ha incorporato l’analisi del colonialismo, distinguendosi da precedenti lavori nel mostrare come le istituzioni coloniali abbiano posto le basi per il sottosviluppo, anziché elogiare l’imperialismo per avere inserito il Sud del mondo nella globalizzazione capitalistica. Tuttavia, l’operazione degli autori esclude il colonialismo dalla teoria capitalistica, negando la natura globale del capitalismo e dunque che le istituzioni inclusive di un’area o per una popolazione hanno usufruito dell’estrazione da altre aree o della subalternità di popolazioni indigene attraverso l’espropriazione delle loro terre. Jerven (2015), storico dell’economia africana, ha accusato Acemoglu di superficialità, in quanto la sua teoria sulle differenze di sviluppo intende spiegare un processo di crescita di lungo periodo sulla base di un’evidenza relativamente recente. Inoltre, l’economista avrebbe preso solo gli esempi storici a conferma della propria tesi.
La critica ad Acemoglu
Intorno all’analisi del colonialismo sono state scritte le principali critiche eterodosse ad AJR. In particolare, sulla contraddittoria definizione di «inclusività» per istituzioni coloniali che hanno escluso dai benefici dello sviluppo intere comunità non bianche o con l’espropriazione di un’ampia fetta di popolazione negli stessi centri colonizzatori. Inoltre, la loro opera ha reso possibile slegare la critica al colonialismo dalla critica al capitalismo come sistema globale.
Le economiste decoloniali Kvangraven, Kesar e Dutt (2024) hanno affermato che AJR hanno introdotto il colonialismo dentro la scienza economica, omettendo o sminuendo le dinamiche capitalistiche di sviluppo ineguale: si omette o sminuisce la rilevanza, per lo sviluppo europeo, dei processi di sfruttamento coloniale che hanno contribuito, allo stesso tempo, al sottosviluppo del Sud globale e dunque a plasmare l’assetto dell’economia mondiale. Secondo le autrici, i nuovi Premi Nobel avrebbero creato una falsa dicotomia tra colonialismo (istituzioni estrattive) e capitalismo (istituzioni inclusive), come se il primo fosse slegato dallo sviluppo del secondo o meglio, come se le istituzioni inclusive non avessero avuto bisogno di quelle estrattive imposte altrove per poter funzionare. A causa del loro nazionalismo metodologico non sono in grado di elaborare una teoria valida su come la riduzione delle economie del Sud a periferie sia legata allo sviluppo economico europeo. Sulla stessa riga di queste economiste, segnalo anche l’articolo del giornalista e dottorando in storia Brendan Greeley (2024) sul Financial Times.
Occorre ricordare che Acemoglu e Robinson (2015) hanno dedicato al capitalismo un articolo specifico. Contestando la tesi di Piketty (2014) secondo cui esisterebbe una tendenza generale alla diseguaglianza a causa della differenza tra il tasso di rendimento sul capitale e il tasso di crescita, hanno negato l’esistenza di leggi generali del capitalismo teorizzata da Marx. A loro dire, la ricerca di leggi generali del capitalismo è sbagliata perché ignora le forze chiave che determinano il funzionamento di un'economia: l'evoluzione tecnologica endogena e le istituzioni che regolano la politica e il mercato. L'entità della disuguaglianza in un Paese sarebbe dunque determinata da fattori più rilevanti dell’accumulazione del capitale.
Emiliano Brancaccio e Fabiana de Cristofaro (2022), provando l’esistenza di una legge marxiana di centralizzazione del capitale, hanno contestato i due Nobel spiegando come il loro rifiuto di considerare delle leggi generali del capitalismo dipenda da un approccio secondo cui ogni Paese, a causa di molteplici variabili interne ed esterne, ha una sua evoluzione istituzionale propria. Questa diversità è tale da escludere l’esistenza di leggi generali, ritenute fuorvianti. Inoltre, hanno evidenziato la contraddizione di Acemoglu che, di fatto, ha formulato una legge economica che stabilisce la relazione tra crescita economica e istituzioni democratiche.
Uno dei più importanti esperti di diseguaglianza globale, Branko Milanovic (2016, 2019) ha contestato tutta l’analisi di AJR puntando il dito sull’eccezione enorme e irrisolta: la crescita economica cinese. La teoria dei nuovi Nobel non riesce a spiegare la crescita importante della Cina e del Vietnam, avvenuta sotto istituzioni non classificabili come «inclusive». L’economista serbo ha affermato che la fortuna dei lavori di Acemoglu precedenti la crisi del 2008 è frutto della loro funzionalità nei confronti del Washington Consensus e dell’ideologia della «fine della storia». Inoltre, ha enfatizzato come la teoria di Acemoglu ignori il caso dei Paesi comunisti, in cui è stata possibile la convivenza tra concentrazione del potere politico e uguaglianza economica.
Conclusioni
Malgrado sia necessario essere critici e scettici di fronte a qualsiasi teoria che riconduce lo sviluppo economico a una sola causa fondamentale, privilegiare un fattore rispetto a un altro non è neutrale e può avere conseguenze diverse tanto nell’ideologia quanto nella prassi politica. Il rifiuto delle cause geografiche e culturaliste in favore di quelle istituzionali è l’aspetto più importante del pensiero di AJR, in quanto ci spingono a porre l’attenzione su fattori che possono essere cambiati attraverso la mobilitazione sociale e politica anziché su caratteristiche che rischiano di ricondurre il sottosviluppo economico a cause essenzialiste, funzionali a categorizzare dei popoli come incapaci di sviluppo autonomo per propria intrinseca natura (razza, geografia) o cultura. Si tratta di un’implicazione importante tanto per i Paesi del Sud globale quanto per quei «margini» d’Europa – come, ad esempio, la Sardegna o l’Andalusia ‒ che, pur non avendo conosciuto il colonialismo nel senso classico del termine, hanno sicuramente avuto delle istituzioni estrattive che ne hanno condizionato la storia entro un rapporto complesso con un potere esterno. Il lavoro di Emanuele Felice (2013) per il Meridione italiano e di Carlos Arenas Posadas (2015) per l’Andalusia rappresentano un’interessante applicazione del pensiero di Acemoglu a due regioni periferiche europee.
Tuttavia, al netto delle intenzioni di AJR, sono individuabili dei rischi di eurocentrismo, laddove le istituzioni appropriate per lo sviluppo sono quelle «Occidentali», a cui gli altri popoli dovrebbero rifarsi. Questo si deve all’impianto teorico liberale, sebbene non neo-liberista, oltre che a un metodo basato sugli Stati come unità fondamentali di riferimento. Da ciò ne consegue come la loro teoria possa essere funzionale a salvaguardare il capitalismo da una critica anti-colonialista, come se la necessità di riprodurre esclusione e diseguaglianza in una gerarchia spaziale non fosse una caratteristica intrinseca di questo modo di produzione. Il capitalismo deve essere letto in una chiave globale, tenendo conto del ruolo giocato da ogni Paese nella divisione internazionale del lavoro entro un contesto di interdipendenze.
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Andria Pili è dottorando in Economia Politica nell'Università di Malaga. Laureato magistrale in Scienze Economiche con due tesi sulla storia economica sarda. Membro fondatore del collettivo decoloniale sardo di ricerca «Filosofia de Logu», co-autore dei suoi due volumi pubblicati con Meltemi: Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna (2021); Logu e Logos. Questione sarda e discorso decoloniale (2024). Su Machina ha già pubblicato gli articoli: «Questione sarda: arretratezza o subalternità», «La razza nella costruzione del mondo contemporaneo».
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