Il prezzo dell'amicizia
- Stefano Lucarelli
- 5 giorni fa
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Aggiornamento: 24 ore fa
Sui dazi del Presidente Trump

I dazi di Trump, in linea con la logica neo-protezionistica statunitense che affonda le sue radici già nel secondo mandato di Obama, hanno un fine meramente politico: verificare quali siano davvero i Paesi amici degli Stati Uniti.
È questa la tesi di Stefano Lucarelli espressa nell'articolo che pubblichiamo oggi su Effimera e Machina in contemporanea.
Un tentativo disperato di porre rimedio alla crisi dell'egemonia americana, rivedendo gli accordi impliciti su cui si basava l'ordine internazionale e lavorando sulla regionalizzazione dell'economia mondiale.
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Ci sono azioni che possono sembrare sciagure evitabili figlie della umana ingenuità, ma che in realtà svelano verità profonde di cui non si vuol prender atto. I dazi di Donald Trump serbano la stessa potenza educativa che ha in sé il mito greco del vaso di Pandora. Atto apparentemente scellerato ma scritto nel destino del mondo – o, se si preferisce, nelle condizioni materiali che segnano questa epoca – e pertanto inevitabile.
La reazione quasi immediata che ha dominato gli organi di informazione dopo l’annuncio del così detto liberation day è stata per lo più poco meditata. Molti rappresentanti della politica europea hanno utilizzato parole imprudenti e belligeranti, dichiarandosi pronti ad una guerra commerciale.
Gli economisti hanno definito «folle» la fissazione dei dazi annunciati dal Presidente degli Stati Uniti. Una formula, pubblicata dal dipartimento del commercio statunitense[1], è circolata ovunque:

La spiegazione del dipartimento del commercio statunitense è la seguente: si consideri un contesto in cui gli Stati Uniti impongono una tariffa di aliquota τ_i al Paese i. ∆τ_i riflette la variazione dell'aliquota tariffaria. ε<0 rappresenta l’elasticità delle importazioni rispetto ai prezzi delle importazioni; φ>0 rappresenta l’ammontare delle tariffe che si trasmette ai prezzi delle importazioni; m_i>0 rappresenta le importazioni totali dal paese i; ed x_i>0 rappresenta le esportazioni totali. Allora la diminuzione delle importazioni dovuta a una variazione delle tariffe è pari al prodotto ∆τ_i*ε*φ*m_i<0. Assumendo che gli effetti compensativi del tasso di cambio e dell’equilibrio generale siano abbastanza piccoli da essere ignorati, la tariffa reciproca che determina un saldo commerciale bilaterale pari a zero è proprio

Tommaso Monacelli dell’Università Bocconi ha parlato di dazi farlocchi, di pura propaganda, «per la Casa Bianca se l’Ue ha un surplus equivale a dire che sta scorrettamente danneggiando gli Usa con dazi e barriere, ma è falso»[2].
In effetti il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale presuppone che il saldo commerciale degli Stati Uniti sia tendenzialmente in disavanzo e che invece il saldo finanziario della bilancia dei pagamenti sia in attivo. Questo dilemma fu per la prima volta esposto da Robert Triffin nel novembre del 1960 davanti al Congresso degli Stati Uniti: se gli Stati Uniti avessero smesso di registrare disavanzi nella bilancia dei pagamenti, la comunità internazionale avrebbe perso la sua più grande fonte di dollari. La conseguente carenza di liquidità avrebbe potuto trascinare l’economia mondiale in una spirale recessiva. D’altro canto, se i deficit della bilancia commerciale statunitense fossero cresciuti nel tempo, un flusso costante di dollari avrebbe continuato ad alimentare la crescita economica mondiale, ma un disavanzo commerciale eccessivo degli Stati Uniti avrebbe potuto erodere la fiducia nel valore del dollaro. Senza la fiducia nel dollaro, questo avrebbe rischiato di non essere più accettato come valuta di riserva internazionale[3]. Per uscire da questo dilemma, l’economista belga professore all’Università di Yale, proponeva la creazione di nuove unità di riserva, emesse da un’istituzione internazionale, che non fossero dipese né dall'oro né da altre valute nazionali, ma che avrebbero comunque svolto la funzione di liquidità internazionale. La creazione di questa nuova unità di riserva avrebbe consentito agli Stati Uniti di ridurre il deficit della bilancia dei pagamenti, pur preservando l’espansione economica globale. La montagna partorì il topolino dei diritti speciali di prelievo che non hanno mai avuto la forza di imporre quella «riforma fondamentale del sistema monetario internazionale attesa da tempo» che Triffin considerava urgente e necessaria.
Egli si esprimeva così quando era ancora in vigore il sistema di cambi fissi e aggiustabili stabilito a Bretton Woods. A partire dal 15 Agosto 1971 quel sistema non c’è più, il disavanzo commerciale statunitense ha continuato a crescere, tutte le volte che il dollaro è stato implicitamente messo in discussione come valuta di riserva internazionale, il circuito monetario internazionale centrato sugli Stati Uniti è stato difeso anche militarmente, e verso Washington e Wall Street sono confluiti i capitali del resto del mondo. Questi hanno funzionato dal punto di vista contabile come una forma di finanziamento dell’economia americana.
Un circuito monetario del genere definisce un ordine internazionale laddove fra il grande debitore – che emette la valuta di riserva internazionale – e i suoi creditori, vi sono dei patti impliciti che non vengono messi in discussione. Se i creditori, e in particolare il principale creditore (oggi la Cina), non si limitano a finanziare il debito statunitense acquistando titoli federali a lunga scadenza ma cominciano ad acquisire pacchetti azionari delle corporation a stelle e strisce che operano in settori strategicamente rilevanti, se i creditori diventano economie in grado di controllare i settori delle materie prime necessarie a sviluppare le nuove tecnologie (per esempio le terre rare), e se diventano anche particolarmente competitivi nei settori a più alto valore aggiunto e tecnologicamente più avanzati (per esempio le telecomunicazioni, i semiconduttori o le energie alternative), se al contempo i creditori aumentano le proprie spese militari ed ambiscono ad avere un ruolo politico nella sfera internazionale, allora non si può più parlare di un ordine internazionale durevole[4].
I dazi di Trump – in linea con la logica neo-protezionistica statunitense che affonda le sue radici già nel secondo mandato di Obama[5] – hanno un fine meramente politico: verificare quali siano davvero i Paesi amici degli Stati Uniti. Verificare quali fra questi Paesi siano disposti a smarcarsi definitivamente dalle aspirazioni della Cina e dei BRICS+[6]. Trump sta, in altri termini, dando un significato preciso al neologismo proposto da Janet Yellen, la Segretaria del Tesoro uscente: friend-shoring. «Io tendo a vedere il friend-shoring come un gruppo di partner con i quali sentiamo sintonia con la nostra geopolitica … dobbiamo approfondire i nostri legami con quei partner e lavorare insieme per assicurarci di poter soddisfare le nostre esigenze di materie prime essenziali».[7]
Escludo che questi dazi possano favorire una reindustrializzazione significativa all’interno degli Stati Uniti e possano davvero realizzare un riequilibrio della bilancia commerciale di Washington. Il modello produttivo statunitense si basa sulle delocalizzazioni. Ciò che è in gioco è una ridefinizione dei Paesi partner per le delocalizzazioni delle corporation statunitensi. Le società localizzate in Oriente si rilocalizzeranno ai costi più contenuti possibili e in linea con l’esito delle trattative bilaterali che avverranno. In parte si sono già osservati spostamenti delle sedi estere di grandi aziende statunitensi dalla Cina.
Con l’abilità del piazzista che detta i tempi e i modi delle contrattazioni, e in linea con la sua cultura imprenditoriale, Trump ha concesso al mondo tre mesi di tempo per riconfermare a Washington la fedeltà che pretende la potenza egemone. Non è un caso che la sospensione dei dazi annunciati riguardi tutti meno la Cina.
La transizione dall’epoca dell’egemonia americana indiscussa ad un nuovo ordine internazionale continuerà ad essere difficile. Il contrasto di obiettivi politici ed economici, intuibile anche da un semplice confronto fra le condizioni in cui si trovano gli Stati Uniti e le condizioni in cui si trovano i principali Paesi europei, rende improbabile che si giunga ad una reale cooperazione internazionale. Washington lavorerà ad una regionalizzazione dell’economia mondiale, e forse questo renderà più difficile il funzionamento dell’Unione Monetaria Europea secondo le regole (decisamente stupide) che si è sinora data[8]. Tuttavia, i disordini del sistema monetario internazionale – che svelano la necessità di ridare un ordine alle relazioni fra grande debitore statunitense e grandi creditori orientali – potranno difficilmente risolversi in modo durevole senza affrontare esplicitamente il tema già posto da Triffin: il ripensamento completo delle regole che reggono il sistema dei pagamenti internazionali. Questa la speranza che resta chiusa in fondo al vaso di Pandora …
Note:
[2] «Dazi Usa, l’economista: "La Ue sbaglia a rispondere con ritorsioni. Ora la vera sfida sarà con la Cina"»,«Il Fatto quotidiano».
[4] Rinvio a quanto argomentato in Brancaccio, E. e Lucarelli, S. «Risposta ai critici de "La guerra capitalista"», in Brancaccio E., Le condizioni economiche per la pace, Mimesis, 2024.
[5] Georgiadis, G., J. Gräb. «Growth, real exchange rates and trade protectionism since the financial crisis». ECB Working Paper no. 1618, November 2013.
[6] Quando verrà accolta la domanda del Kazakistan, della Nigeria e del Bahrain, i BRICS+ copriranno la maggioranza della produzione petrolifera del pianeta e oltre un terzo di quella del gas naturale. A tal riguardo si veda quanto ha scritto Joseph Halevi a commento del XV vertice BRICS.
[7] J. Yellen «Transcript: US Treasury Secretary Janet Yellen on the next steps for Russia sanctions and ‘friend-shoring’ supply chains», Atlantic Council.
[8] Mi sia consentito rinviare al numero speciale del Forum for Social Economics che ho curato nel 2024 insieme a Marco Rangone, «Recent Crises and the Evolution of European Policies».
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Stefano Lucarelli, economista, insegna all’Università di Bergamo. Ha curato: con Andrea Fumagalli, il volume Fordismo e postfordismo. Il pensiero regolazionista (Università Bocconi editore, 2007) di Robert Boyer e la versione italiana di Dall’euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria (ombrecorte, 2009) di Andrè Orlean; ha inoltre scritto i volumi The resistible rise of mainstream economics (University press, 2012) con Giorgio Lunghini; Logiche dello sfruttamento. Oltre la dissoluzione del rapporto salariale (ombrecorte, 2016) con Federico Chicchi e Emanuele Leonardi; La guerra capitalista con Emiliano Brancaccio e Raffaele Giammetti (Mimesis, 2022).
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