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Innovazione tecnologica ed educazione sentimentale

Estratto da Sentimenti dell'aldiqua (DeriveApprodi, 2023)


innovazione tecnologica ed educazione sentimentale
Locandina di El Lissitzky per una produzione post-rivoluzionaria dell'opera Vittoria sul sole

Per ricordare Franco Piperno, pubblichiamo oggi un suo meraviglioso scritto, estratto da Sentimenti dell'aldiqua (nuova edizione DeriveApprodi, 2023). Nel testo Franco analizza con profonda lucidità i cambiamenti imposti dalla macchina informatica alla conoscenza, alle capacità cognitive umane, ai modi di pensare e comunicare. Processo che non va vissuto con la nostalgia verso una supposta natura umana immutabile, ma con la voglia di «osare stipulare un nuovo significato della parola lavoro, un altro calendario, un diverso tempo collettivo».

Le riflessioni di Franco sul rapporto tra innovazione tecnologica e capacità umane erano al centro di un altro testo che abbiamo pubblicato su Transuenze, Ascesa e crisi della tecnoscienza del capitale.


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Marx e Turing

Se, per gioco, per scrollarsi di dosso il tedio della sconfitta, scegliessimo il Frammento sulle macchine di Marx come un passo biblico, un luogo nel quale la parola risuona profetica, allora il commentario adeguato di quel testo sarebbe una esposizione concisa della teoria degli automi, ovvero la descrizione, a grandi linee, della macchina generale di Turing. L’applicazione della macchina informatica al processo produttivo conferisce a quest’ultimo il carattere della scienza naturale, di processo naturale scientificamente riprodotto; e, a un tempo, riduce il lavoro del corpo umano, il lavoro vivo a un semplice elemento di questo processo: l’organo cosciente, l’osservazione volta a evitare l’interruzione. Marx, nel Frammento, avanza la congettura che l’applicazione sistematica del sapere tecnico-scientifico alla produzione avrebbe conseguito l’esito di liberare l’operaio dalla fabbrica, rendendo così vano il misurare la ricchezza con il tempo di lavoro umano. Le cose non sono andate propriamente così. L’orario di lavoro continua a governare le relazioni industriali e la distribuzione del reddito; col risultato paradossale di gettare nell’abisso del non-lavoro una grande varietà di attività umane. Per l’economia, per la mentalità economica, il tempo di lavoro umano resta la base esigua sulla quale riposa la ricchezza sociale. Tuttavia, se i concetti e le definizioni della mentalità economica si conservano, quella liberazione del lavoro umano dalla fabbrica, intravista da Marx e in atto di compiersi sotto gli occhi di tutti, sembra promuovere un sommovimento delle affezioni e dei sentimenti comuni, una dislocazione diversa del senso comune, un mutamento semantico di parole-chiave per il vivere quotidiano – parole come: tempo, verità, memoria e così via.


L’estinzione del tempo

La macchina informatica ha un tempo caratteristico che risulta irrappresentabile per la condizione umana, antropologicamente intesa. Il tempo caratteristico è, qui, l’intervallo temporale più corto, cioè la velocità più alta attribuibile iterativamente ai processi fisici della macchina. Ora, il tempo caratteristico della macchina informatica è prossimo al tempo cosmico limite, al tempo ottico, al tempo scandito dalla velocità della luce. Il secondo ha, per questa macchina, una durata propriamente smisurata. Il giorno, l’unità temporale propria al movimento gravitazionale della Terra, è divenuto un tempo quasi infinito, magicamente lungo. Se riguardiamo il rapporto tempo umano-tempo macchina nel corso dello sviluppo tecnico, constatiamo facilmente lo scarto che separa il computer tanto dalla leva quanto dall’orologio.

Fino a che la macchina è un arnese di lavoro, uno strumento prodotto dalla fattura manuale dell’uomo, essa segue il ritmo del corpo umano: corpo e strumento procedono sincronizzati, non v’è alcun movimento autonomo della macchina, sicché il regno dell’artificiale si conforma al tempo conferito dall’uomo.

Quando all’arnese subentra l’orologio, con il suo tempo meccanico caratteristico, il corpo dell’uomo fa l’esperienza stranita d’essere sincronizzato sul ritmo della macchina: il tempo della macchina fa nido nel corpo dell’operaio – si pensi a Tempi moderni di Chaplin. L’avvento del computer, infine, introduce un tempo che sfugge alla possibilità stessa dell’esperienza: la macchina può effettuare e scrivere calcoli in un tempo talmente corto da non poter essere neppure pensato. La macchina informatica riduce il lavoro a calcolo; e, questo, lo effettua con tale vertiginosa rapidità da rendere possibile in poche ore ciò che prima richiedeva qualche secolo.

Questa gigantesca dilatazione del presente scardina la mentalità temporale moderna, la macchina psichica strutturata sulla triade passato-presente-futuro. Il tempo si svela una convenzione linguistica, una costruzione verbale, non una qualità del reale. Questo disincantamento autorizza una nuova libertà sociale: la libertà di ridefinire il tempo, di mutare il significato della parola tempo.

D’altro canto, da un punto di vista epistemologico, la macchina informatica realizza lo spirito della modernità, e perciò stesso ne esaurisce il tempo.

La facoltà specificamente umana di produrre e riprodurre i linguaggi matematici appartiene ormai anche alla macchina; fino al punto che i limiti del sapere matematico coincidono con i limiti della macchina informatica. Così la matematizzazione del mondo è propriamente compiuta: quel che si può dire in forma matematica coincide con tutto ciò che la macchina attualmente o potenzialmente dice. Questo definitivo compiersi non segna certo la fine della tecnica bensì il ridimensionamento di una ideologia della tecnica: il mito matematico della tecnica, la matematica come garanzia della verità della tecnica. A questo estremo compiersi, a questo toccare il limite, corrisponde un salto di consapevolezza umana, un diverso modo di concepire la relazione uomo-natura. A mo’ d’esempio: proprio perché il fare matematica è un attributo della macchina, nella rappresentazione della natura possiamo abbandonare la matematica all’oblio, possiamo dimenticare la matematica.


Parlare, scrivere, cercare il senso

La macchina informatica, come la scrittura, è una tecnologia intellettuale. Il suo avvento può essere comparato appunto al passaggio dalla cultura orale alla scrittura.

Mette conto ricordare che il pensiero chiamato logico corrisponde a una mentalità relativamente recente, plasmata dalla scrittura alfabetica e dal canone d’apprendimento che essa comporta. La ricerca antropologica mostra, con bella evidenza, come i locutori di cultura scritta usino pensare per categorie, mentre quelli di cultura orale pensino piuttosto per situazioni.

L’alfabeto e la scrittura fonetica sono state le condizioni di possibilità che hanno permesso lo sviluppo del pensiero razionale: passando dall’ideografia all’alfabeto e poi dalla calligrafia alla stampa, l’ossessione mnemotecnica della cultura orale perde il suo senso; e la narrazione cessa l’egemonia sul sapere trasmissibile. In Esiodo la giustizia è una persona che agisce, s’appassiona e subisce – in Plato- ne è un concetto. I personaggi e gli eroi della cultura orale, soggetti d’avventure mitiche, sono tradotti dalla scrittura in idee o principi.

Va da sé che la comparsa della parola alfabetica non scaccia via la parola sonora; si limita a mutarne lo statuto. L’oralità primaria rinvia alla centralità della parola sonora prima che la comunità adotti la scrittura; l’oralità secondaria riduce la parola sonora a complemento di quella scritta. Così, ad esempio, la poesia e il canto certo sopravvivono nelle culture scritte; essi, tuttavia, vengono mutilati della loro funzione mnemonica ed enciclopedica, e divengono propriamente valori estetici. In Occidente il processo d’espansione della cultura scritta giunge al paradosso investendo il regno stesso del suono, la musica. La musica scritta è fortemente innovativa, si dispiega in una vertiginosa successione di stili, del tutto estranea alla musica di tradizione orale. Questa dinamica è indissociabile dal rapportarsi con la scrittura al suono; giacché così l’opera si identifica con lo spartito, struttura di segni astratti fissata una volta per tutte sulla carta. E non è forse paradossale che il suono sia chiamato «nota», cioè segno di scrittura? La nota rinvia a un sistema convenzionale di rappresentazione visuale dei suoni. Sul piano epistemologico sarebbe un errore confondere la musica con la musica scritta, analogo a quello di ridurre il pensare alle regole sintattiche della scrittura. Certo, la prosa scritta non è un semplice veicolo espressivo del pensiero filosofico o giuridico o scientifico o politico, dal momento che questi àmbiti culturali non pre-esistono alla scrittura. Infatti, senza scrittura, non v’è datazione, né liste d’osservazione, né tavole di cifre, né codici legislativi, né sistemi filosofici; e ancor meno critiche di questi sistemi. Con l’avvento della scrittura la memoria si stacca dall’individuo come dalla comunità. Il sapere è congelato nelle parole scritte: esso è là, disponibile, consultabile, comparabile. Questa sorta di memoria obiettiva, morta, impersonale promuove una attitudine, già marginalmente presente nella cultura orale, di ricerca intellettuale della verità. L’oggettivazione della memoria disgiunge la conoscenza dalla corporeità individuale o collettiva. Il sapere non è più ciò che nutre l’essere umano, ciò che lo costituisce come parte di una data comunità linguistica: esso è divenuto un oggetto analizzabile, criticabile, verificabile. L’esigenza di verità, nel senso moderno e critico del termine, è un effetto collaterale della necrosi parziale della memoria corporea, che ha luogo quando il sapere è catturato dalla tela dei segni tessuta dalla scrittura. Ed è ancora la scrittura ad assicurare la diffusione di quei due modi di conoscenza – la teoria e l’ermeneutica – che sono appunto divenuti «luoghi comuni» della cultura occidentale. La teoria, come l’etimo attesta, significa visione, contemplazione; essa si costituisce come metafora del vedere, conoscenza acquisita tramite il senso della vista, il senso attraverso il quale si accede al testo scritto. La teoria è anche la processione, quella lunga serie di segni allineati l’uno accanto all’altro che formano il testo. Così nella letteratura matematica, poniamo negli Elementi di Euclide, una lunga fila di teoremi segue pochi assiomi, come i greci che si recavano alle feste solenni d’Olimpia erano schierati dietro i loro preti e i loro idoli. L’altro modo di conoscenza, quello ermeneutico, quello che cerca il senso, si costruisce come metafora del decifrare i segni, per analogia con l’attività divinatoria. La ricerca del senso conosce il suo apogeo in tutte le civiltà della scrittura con l’interpretazione dei testi sacri, compito al quale si votano, con furore anch’esso sacro, generazioni di chierici. Non v’è dubbio, per altro, che tanto la teoria quanto l’interpretazione sono modi di conoscenza noti all’oralità primaria; ma solamente con lo sviluppo della scrittura essi acquistano uno statuto gnoseologico privilegiato, diventano un genere maggiore.

Si pensi al libro: nella Grecia classica doveva essere letto ad alta voce in pubblico o in compagnia di se stessi, perché soltanto risuonando il testo si realizzava; nell’epoca moderna il libro non è più appunto mnemonico per il lettore bensì, viceversa, il corpo e la voce umana forniscono i caratteri ai pensieri muti, secondo il detto di Schiller. Per i moderni, nella scrittura si realizza direttamente un pensiero muto che acquista corpo e voce tramite colui che scrive.

La macchina informatica diffonde un terzo modo di conoscenza distinto dalla teoria come dall’ermeneutica: la conoscenza informatica.

Anche questa volta bisogna guardarsi dall’ingenuità di credere all’assolutamente nuovo, ritenere che la conoscenza informatica sia stata partorita oggi e temere che essa scacci d’un solo gesto i modi classici del conoscere. Ciò che va compiendosi è piuttosto una diversa combinazione delle forme di conoscenza, un loro diverso ordine gerarchico, tale da assegnare all’informatica lo statuto di conoscenza maggiore, relegando la teoria e l’interpretazione a un ruolo subordinato, se non del tutto marginale. Così come la poesia, il canto, il racconto sono stati detronizzati dalla loro collocazione di genere massimo di conoscenza dalla prosa teorica e dal commento interpretativo. La conoscenza informatica si distingue dagli altri modi di conoscenza per la sua natura operativa. Si tratta, a ben vedere, di una doppia natura. La prima è dovuta alla circostanza che l’informatica è un’attività di manipolazione di un numero discreto di segni secondo regole operatorie ben definite; la seconda deriva dalla proprietà della macchina informatica di immagazzinare informazioni a fini operativi. Lo scopo centrale della conoscenza informatica non è la completezza e la coerenza dei dati e dei giudizi sul mondo, bensì l’ottimizzazione di procedure, siano esse di decisione, o di diagnostica, o di gestione, o di pianificazione. La conoscenza informatica trasforma senza requie le sue procedure perché l’azione possa essere più efficace e soprattutto più veloce. Il primato della cultura operativa sulla teoria e l’interpretazione si afferma tramite una ridefinizione svalutativa di queste da parte di quella. Perfino le teorie matematiche cominciano a essere riguardate nella comunità scientifica come una attività estetico-decorativa – la prassi ordinaria della ricerca e dello sviluppo scientifico si limita ormai, non senza soddisfazione, alla simulazione, ai modelli numerici, ai «sistemi esperti», alle basi di dati complete e aggiornate. Le teorie degradano a trucchi mnemonici per facilitare il calcolo; trucchi di cui ci si può liberare ogni qualvolta si costruisce un algoritmo capace, pur senza fornire alcuna spiegazione, di consentire la previsione e l’azione. Il paradigma del calcolo che ha ormai invaso la biologia, la psicologia e perfino le scienze sociali, ridefinisce la teoria come una computazione mal riuscita, così come i saperi delle società selvagge erano stati ridefiniti dagli antropologi del secolo scorso come teorie false o incoerenti, malgrado che non fossero ad alcun titolo delle teorie.


La memoria

L’introduzione della macchina informatica nella produzione e nei servizi contribuisce potentemente allo smottamento semantico di un’altra parola-chiave: la memoria.

A prima vista si potrebbe credere che il moltiplicarsi a dismisura delle memorie informatiche, nella forma di banche dati, prosegua quel lavoro di accumulazione e conservazione del sapere intrapreso dalla scrittura. Si tratta di un malinteso. Le banche dati non raccolgono, nella generalità dei casi, tutte le verità su una questione determinata, ma solamente l’insieme delle conoscenze utilizzabili da un cliente solvibile. Quasi i due terzi delle informazioni accumulate nel mondo concernono dati strategici, economici, commerciali, finanziari ultraspecializzati. L’uso della banca dati è innanzitutto operativo: ottenere l’informazione più affidabile, il più presto possibile, per prendere la decisione più efficace. I dati obsoleti sono sistematicamente eliminati; sicché una banca dati è assai meno una memoria che uno specchio, il più fedele possibile in un istante determinato, di un mercato o di una attività specializzata. I «sistemi esperti», che possono essere considerati delle banche dati più complesse, capaci di trarre autonomamente conclusioni inedite partendo dalle informazioni disponibili, accentuano questa perdita di significato della parola memoria. Questi sistemi non sono infatti concepiti per conservare il saper fare di un esperto, bensì per evolvere senza sosta, a partire dal nucleo di conoscenze mutuate dall’esperto. Il programma del «sistema esperto» non viene riscritto ogni volta che questo perviene a una conclusione originale, i linguaggi dichiarativi permettono di arricchire o modificare il sistema senza dover ricominciare daccapo. In una certa misura, il «sistema esperto» migliora autonomamente il suo funzionamento man mano che la sua esperienza viene compiendosi.

Qui il sapere non è più congelato nella scrittura, ma, al contrario, posseduto da un movimento incessante, cambia continuamente per essere sempre attuale e pronto all’uso. Qui la memoria è talmente affidata ai dispositivi automatici, talmente oggetto di manipolazioni e rielaborazioni, talmente estranea ai corpi degli individui e alle abitudini collettive da meritare un altro nome, da assumere un altro significato.

Nella cultura orale la comunità faceva corpo unico con la memoria, il sapere era votato alla preservazione dell’identico, alla trasformazione in sé medesimo dell’immutabile. La semioggettivazione del ricordo, che caratterizza la civiltà della scrittura, ha reso possibile la ricerca della verità, cioè la scienza moderna. Il sapere informatico è libero così dall’attività umana del «ricordare»; o, se si vuole, la memoria informatica è talmente un attributo della macchina che la verità può cessare d’essere lo scopo fondamentale della conoscenza, a favore dell’operatività e della velocità.


La libertà collettiva di evocare significati Trasformando le persone e gli eroi avventurosi dell’oralità in concetti, la civiltà della scrittura aveva permesso il dispiegarsi del pensiero dell’essere. Macinando nei suoi programmi i concetti concepiti dalla scrittura e usando la logica come un motore, la macchina informatica riassorbe il pensiero dell’essere nella pura accelerazione. Noi sentiamo collettivamente il tramonto di una cultura e l’oscurarsi dei modi di conoscenza che abbiamo appreso ad amare per via di una lunga educazione. Noi sentiamo ugualmente l’inutilità della resistenza. Le tecnologie informatiche sono là per durare, e noi siamo solo all’inizio di una trasformazione del modo di comunicare e di pensare.

L’ordine di grandezza della trasformazione in corso è paragonabile all’invenzione di un certo tipo di «discorso razionale» presso i greci. Si tratta di una mutazione di mentalità analoga a quella che ha avuto luogo nella successione tra oralità e scrittura. Il paragone va anche inteso come memento della storicità dei nostri modi di conoscenza: ciò che è nato può morire. La nostra cultura ha resistito alla sparizione delle mitologie viventi del mondo orale e all’apparizione della scrittura; noi oggi resistiamo con intimo struggimento all’avvento nel nostro universo intellettuale delle tecnologie informatiche.

Per chiudere senza concludere, conviene ricordare che le caratteristiche della macchina informatica giocano il ruolo di condizioni di possibilità e non di determinazioni – che una nuova macchina è sempre compatibile con una vecchia sciocchezza. Le trasformazioni di mentalità sono correlate, ma non causate, dalle innovazioni tecnologiche.

La macchina informatica ci autorizza solo a riconoscere la libertà umana collettiva di mutare il significato di parole che sembravano certe per sempre; e mutare le parole vuol dire mutare i sentimenti e le affezioni che esse evocano: libertà, questa, di cui è difficile fare buon uso in caso di emergenza. Così, se è vero che la macchina informatica produce disoccupazione, giacché essa rende il lavoro umano ripetitivo assolutamente superfluo, è dubbio che sia la macchina la causa della indigenza del disoccupato, di quel suo essere al di fuori del ritmo collettivo, di quella perdita di comunicazione che segue l’esclusione dal lavoro socialmente riconosciuto, per quanto penoso e degradante esso sia, di quella temporalità talmente privata da rasentare pericolosamente il tempo caotico e asociale del sogno.

L’indigenza del disoccupato, quella vera, il soffrire della libertà di disporre del proprio tempo, ha origine nel desiderio, o meglio, nell’assenza di desiderio, nell’autointerdizione a osar stipulare un nuovo significato della parola lavoro, un altro calendario, un diverso tempo collettivo.


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Franco Piperno (1943-2025) è stato protagonista presso il comune di Cosenza dell’ideazione e creazione del nuovo planetario, professore di Struttura del materia e Astronomia visiva all’Università della Calabria ed è altresì noto per la sua partecipazione alle vicende politiche degli anni Settanta in Italia. Ha curato per Machina la sezione «sestanti».

Per DeriveApprodi ha pubblicato: Lo spettacolo cosmico. Scrivere il cielo: lezioni di astronomia visiva (I edizione 2007) e Il vento del meriggio (2008).

 

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