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La razza nella costruzione del mondo contemporaneo

Recensione a Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista di Aurélia Michel




Un volume che ripercorre la lunga storia di razza e razzismo dalla nascita dell’Europa moderna, qui presentato in una lettura puntuale che apre il confronto con l’ipotesi del capitalismo razziale di Cedric Robinson.


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Aurélia Michel è una storica dell’Università Paris-Diderot, ricercatrice del Cessma (Centre d’études en sciences sociales sur les mondes africains, américains et asiatiques) e docente di «Storia delle Americhe nere e latine». Fra i suoi temi di ricerca c’è la storia della schiavitù e del razzismo, i processi di costruzione dello Stato-nazione e l’integrazione delle popolazioni nere e indiane, in America Latina.

Il suo libro, Il bianco e il negro. Indagine storica sull’ordine razzista, Einaudi, Torino 2021 [2020]), traccia il percorso storico della razza nella costruzione del mondo contemporaneo, evidenziando i fatti e i processi storici che hanno reso centrale la schiavitù nella costruzione della modernità europea e che, in continuità, hanno generato il razzismo istituzionale e la violenza attualmente presenti nelle democrazie capitaliste. Nella sua prospettiva, la razza, che non esiste biologicamente, è una realtà sociopolitica e per questo non può essere superata attraverso un antirazzismo morale. La sua posizione è chiaramente erede di una tradizione che ha il suo capostipite in Eric Williams [1] e segue una traiettoria che passa per l’economia-mondo e i sistemi-mondo di Fernand Braudel [2] e Immanuel Wallerstein [3], fino agli studi più recenti di Sven Beckert [4]. Una tradizione che ha collocato la schiavitù entro lo sviluppo capitalistico, piuttosto che fra gli ostacoli residuali dei modi di produzione precedenti.

Nel lavoro di Michel emergono quattro punti fondamentali per il dibattito sulla questione.


· La schiavitù ha preceduto l'odierno lavoro libero. Con la conquista dell’America, la schiavitù era diventata la soluzione per consentire la produzione nei nuovi territori conquistati, dove, a fronte dell’abbondanza di risorse, la manodopera scarseggiava. La tratta dall’Africa Occidentale e Centrale garantì un’offerta immensa di manodopera, per la crescente domanda che seguiva la scoperta delle Indie Occidentali. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo gli schiavi nelle Americhe crebbero esponenzialmente: 3000 nel 1593; 8000 nel 1600; 17000 nel 1620 [5]. Fu il frutto di un quadro politico che permise il ricorso alla schiavitù. Tuttavia, questo sistema necessitava di continui apporti umani dall’esterno e, per questo, nel lungo periodo si preferì il lavoro libero, in quanto aveva il vantaggio di essere riproducibile.


· La piantagione schiavista anticipa la proprietà privata e la libertà del proprietario di disporre di terra, lavoro, capitale e risorse naturali. Ha rappresentato la possibilità di concentrare la produzione in una qualsiasi parte del mondo, quella più redditizia, aggirando i limiti spaziali e demografici, in un processo che separa produzione e riproduzione, fino a quel momento interdipendenti. Nasce così la «modernità economica». Un’innovazione che Michel paragona alla delocalizzazione della fine del XX secolo. La piantagione atlantica era una nuova forma produttiva, un dispositivo su scala globale fondato sui principi dell’economia moderna: la proprietà privata, i capitali, l’organizzazione del lavoro, lo Stato. Un’immensa manifattura in cui l’uso sistematico della violenza è l’unico principio di socializzazione: gli schiavi non sono soggetti politici, né sociali, non si riproducono spontaneamente, fanno parte del capitale e sono comprati sul mercato. Affinché questo sistema potesse essere continuamente alimentato è stata necessaria una gestione razionale e statuale per fabbricare «negri» e farli lavorare: una «industria di disumanizzazione» che si sviluppa al ritmo del commercio coloniale.


· La razza segue la schiavitù. Scopo della razza non è giustificare la schiavitù ma gestirne la fine, senza danni per l’élite bianca. La tesi di Michel si differenzia da quella dei pensatori decoloniali classici latinoamericani[6]. La razza non nasce con la conquista dell’America e la nascita del capitalismo come sistema globale ma a metà del Settecento, per risolvere la crisi intrinseca della piantagione coloniale, incapace di riprodurre gli schiavi. A fronte di una sempre più alta domanda di manodopera, per la crescente estensione delle piantagioni, la crisi di approvvigionamento e produzione di schiavi ne aveva fatto aumentare il prezzo, inducendo gli operatori a cercare alternative alla tratta atlantica. La congiuntura di metà secolo XVIII, tra la guerra dei Sette Anni e la crisi delle filiere negriere, obbligò le amministrazioni europee a ridefinire l’organizzazione delle piantagione; un cambio di paradigma che porterà al progressivo abbandono della schiavitù come modalità produttiva. Haiti sarà l’epicentro della crisi, della tensione rivoluzionaria tra la Francia e le colonie, rivelando l’instabilità della finzione del negro, non più capace di garantire la produzione coloniale. Anche se la schiavitù verrà poi ripristinata nel 1802 da Napoleone, la situazione è ormai stata scossa ed è necessario pensare a nuovi sistemi che riescano a garantire la produzione coloniale. In questo passaggio storico, alla schiavitù seguirà la razza, che, negli anni Trenta e Quaranta del XIX secolo, ha acquisito il suo significato contemporaneo.

Dal 1830 al 1850 le nuove conquiste europee – ad esempio, l’occupazione francese dell’Algeria - sono concepite come colonie di popolamento. Il paradigma della razza, declinato in forme differenti a seconda della densità di popolamento delle aree conquistate, permette l’uso della violenza necessaria per effettuare spostamenti coatti, lavoro forzato, occupazioni territoriali e assoggettamento di popolazioni. Poi, con l’ascesa delle imprese di coloni pionieri-proprietari, la schiavitù sarà abolita nelle colonie francesi come effetto della legge Schoelcher (1848) a favore di un colonialismo di popolamento rivolto agli europei più poveri.

Tra il 1850 e il 1883, secondo Michel, la razza è un elemento che organizza la realtà economica su scala mondiale, al pari della moneta o dello Stato. Negli stessi anni, negli Stati Uniti, viene è abolita la schiavitù e negli stati del sud passano le leggi segregazioniste. Il periodo che va dalla Conferenza di Berlino (1885) alla Grande Guerra è definito, nel libro, come del «governo delle razze»: non si tratta più di distinguere bianchi e neri nello spazio atlantico ma di trovare un repertorio per organizzare il lavoro, governare le popolazioni, amministrare i territori. Un esempio del nuovo corso sono le nuove piantagioni latinoamericane instaurate da multinazionali quali la United Fruit.


· La razza è coetanea della famiglia, del genere e della nazione. Tutte «invenzioni», accomunate da una presunta «naturalità», per legittimare la diseguaglianza. In Europa, l’immagine della nazione si è costruita su un ordine razziale non egalitario che presuppone il dominio degli europei sugli altri popoli. Qui sta la contraddizione tra l’uguaglianza propagandata dalle rivoluzioni nazionali borghesi e la persistenza di fatto di un’esclusione su base razziale. Le rivoluzioni della fine del XVIII secolo e i movimenti romantici nazionali tedesco e italiano costruirono un nesso fra nazione, libertà e uguaglianza: l’appartenenza nazionale si collega alla definizione indoeuropea del libero, il quale si definisce tale in una comunità di parenti, la nazione, cui ogni membro contribuisce assicurando la sussistenza delle generazioni future e pagando, con le imposte, il proprio debito alla generazione precedente. Si pone dunque la questione dell’integrazione dei neri come «congeneri»; piantatori e proprietari di schiavi – molti dei quali sono promotori del processo democratico in atto – ovviamente si oppongono. La finzione del negro, sorta dalla schiavitù, ora diventa funzionale a spiegare il nuovo ordine politico ed economico attivato a partire dalla rivoluzione nordamericana, la cui costituzione è stata scritta per liberi proprietari, escludendo neri e indiani dalla cittadinanza. Stati Uniti e Francia sono state due società schiaviste che hanno formulato i fondamenti della società politica e democratica, di fronte al paradosso di mantenere la schiavitù e di non poter assimilare i neri entro la «fraternità nazionale». Questo è il contesto in cui si consolida il concetto di razza nel discorso scientifico, giustificando la diseguaglianza tra gli uomini e gli ordinamenti legali che la sanciscono.

La possibilità legale che i negri diventino cittadini-proprietari induce le élite coloniali a sottrarre loro l’accesso alla nazione, vincolandolo all’identità immaginaria e pseudo-naturale della bianchezza, cui si accede per filiazione biologica. Passiamo così dalla finzione del negro alla finzione del bianco. L’autrice conia il termine domi-nazione per mostrare come l’idea di razza abbia accompagnato la fine della schiavitù atlantica e l’instaurazione delle forme di potere stato-nazionali a capo di nuovi imperi coloniali. I codici e le legislazioni moderne hanno l’obiettivo di regolare la detenzione e la trasmissione della proprietà: la nazione è dunque la domi-nazione, la nazione delle «domus», delle proprietà; la nazione si fonda sul dominio che i proprietari esercitano su coloro che lavorano per assicurare la riproduzione della stessa proprietà. Questa transizione è stata guidata da gruppi di potere con campi d’interessi distinti: i proprietari di piantagioni legati al modello schiavista atlantico e le nuove élite industriali liberali alla ricerca di materie prime e sbocchi commerciali. Dalla tensione fra questi si è giunti gradualmente a un’accezione particolare di nazione che limita solo a certi gruppi la portata dell’uguaglianza, tanto in Europa quanto negli Stati postcoloniali in America Latina.

All’inizio del XX, l’ordine razziale e il principio coloniale si consolidano in tutti i continenti. La Grande Guerra farà diventare la razza un’ideologia delle folle, associata al sentimento nazionale si estende a ogni area della società civile: la finzione del bianco ha compattato le élite con una parte delle masse popolari in nome della potenza nazionale. Sotto l’insegna della supremazia bianca si articolano gli interessi coloniali e padronali con movimenti sociali e popolari; la finzione del negro è una valvola di sfogo per esercitare una violenza fisica, salariale e politica.


Secondo Michel, la persistenza della razza oggi, non sarebbe legata alle esigenze del capitalismo e del ordine politico attuale. Sarebbe piuttosto un fatto psicologico, chiamato in causa per rendere sopportabile una realtà diversa dal principio di uguaglianza, per proteggere il privilegio dei bianchi. In conclusione, l’autrice sostiene la necessità di far avanzare il principio di uguaglianza, per congedarci dalla finzione di una «naturalità»; farla finita con il mito della filiazione biologica come organizzazione del sociale. Insomma: «disfare la razza».

Può essere utile un confronto tra l’ordine capitalista bianco identificato da Michel e il capitalismo razziale discusso da Cedric Robinson nel suo celebre Black Marxism (1983) [7], mostrando le affinità e le divergenze tra questi due lavori. Occorre ricordare l’intento diverso dei due testi, così come il diverso profilo e la differente collocazione dei suoi due autori. Infatti, Robinson era un politologo più che uno storico; si sofferma sugli Stati Uniti – anziché sulla Francia – e muove una critica al marxismo occidentale, alla luce del pensiero radicale nero; la sua ricostruzione storica della razza e del capitalismo razziale è funzionale a questa operazione.

Entrambi condividono l’idea che la creazione del negro quale lavoro schiavile sia stata fondamentale per lo sviluppo del capitale commerciale e industriale a livello globale. Fra gli aspetti in comune tra i due lavori c’è anche la scomparsa del confine netto tra razzisti filoschiavisti e antirazzisti schiavisti, le cui opinioni, secondo Robinson, non sarebbero distinguibili rigidamente: l’idea di inferiorità dei negri, della loro assenza di storia e dell’incapacità di produrne una era, infatti, il frutto della razionalizzazione ideologica dominante dell’oppressione razziale, negli Stati Uniti. In generale, egli ritiene che il concetto di negro sia stato costruito non solo come unità di opposizione al «bianco» ma anche come negazione del passato africano, in quanto a differenza di altre definizioni quali «africano», «moro», «etiope», esso non è situato nel tempo e nello spazio. Il negro, dunque, non ha cultura, non ha religione, non ha umanità. La costruzione ideologica del negro è totalmente differente dalle precedenti immagini degli Africani, che nei secoli precedenti erano stati dominatori o antagonisti degli europei; i negri, invece, sono concepiti unicamente quali sorgenti di energia, utilizzabile come forza lavoro. Inoltre, anche Robinson ha ben chiara l’importanza della Rivoluzione di Haiti e del ruolo svolto dalle difficoltà di riproduzione degli schiavi.

Un’importante differenza, invece, è di tipo spaziale e temporale: nell’identificazione della nascita del razzismo. Nell’opera di Robinson si enfatizza la sua nascita in Europa, nel Medioevo, dall’interno del feudalesimo e nei rapporti con i territori e popolazioni periferiche europee, bianche, che furono dunque razzializzate. Robinson fa propria la tesi di Wallerstein (1974) sull’etnicizzazione della divisione del lavoro in questo periodo, facendo riferimento ad altri studi che la confermerebbero. Slavi e irlandesi sono stati i primi negri. Per questo, l’autore afferma che la civiltà europea non è il prodotto del capitalismo; piuttosto, il capitalismo può essere compreso solo nel contesto storico, sociale e ideologico da cui è apparso, senza rompere nettamente con esso:


La borghesia che ha guidato lo sviluppo del capitalismo proveniva da particolari gruppi etnici e culturali; i proletari europei e i mercenari degli Stati dirigenti provenivano da altri gruppi; i suoi contadini da altre culture ancora; e i suoi schiavi da mondi totalmente differenti. La tendenza della civiltà europea attraverso il capitalismo, così, non era quella di omogeneizzare, bensì di differenziare, di ampliare le differenze regionali, subculturali e dialettiche in differenze di tipo «razziale». Come gli slavi divennero gli schiavi naturali, la stirpe razzialmente inferiore per la dominazione e lo sfruttamento durante l’Alto Medioevo, come i tartari giunsero a occupare una posizione simile nelle città italiane del Basso Medioevo, così nell’interconnessione sistemica del capitalismo del XVI secolo, i popoli del Terzo Mondo hanno iniziato a colmare questa categoria in espansione di una civiltà riprodotta dal capitalismo[8].


Michel, al contrario, sostiene che, in Europa Occidentale, dal XII secolo, in poi, il lavoro forzato stava scomparendo. Sarebbe poi ricomparso al termine del XV secolo come prologo di ciò che avverrà nelle Americhe: nel 1471 i portoghesi occuparono l’isola di Sao Tomè, in un arcipelago al largo del Gabon, per farvi una piantagione di zucchero. Per questo la schiavitù dei negri segnerebbe una rottura con il feudalesimo, così come con l’economia medievale e le sue forme di colonialismo.

Per quanto sia ancora lunga la strada per la «decolonizzazione» dell’economia, anche tra gli studiosi cosiddetti «mainstream» le idee degli autori qui analizzati hanno fatto breccia. La schiavitù e il colonialismo hanno svolto un ruolo centrale nel processo di arricchimento dell’Occidente - mediante la divisione internazionale del lavoro di cui ha usufruito il capitalismo industriale - e le odierne diseguaglianze tra Paesi e all’interno di essi conservano una chiara traccia di questa eredità. A sostenerlo è uno dei più importanti economisti esperti di diseguaglianza, Thomas Piketty[9], il quale ha mostrato come le società schiaviste e coloniali siano state le più diseguali della storia, compromettendo il percorso di sviluppo delle popolazioni che l’hanno subito. In particolare, è emblematico il caso di Haiti, su cui – dopo l’indipendenza – gravò un pesante debito pubblico per compensare i proprietari di schiavi della loro perdita; eguale logica di indennizzo era prevista dalla legge abolizionista di Schoelcher. Ciò non solo è emblematico della «continuità tra logiche schiaviste, coloniali e proprietariste», ma anche delle «profonde ambiguità della Rivoluzione francese di fronte ai problemi della diseguaglianza e della proprietà». Ancora oggi, isole d’Oltremare quali la Riunione o la Martinica hanno una diseguaglianza di reddito superiore rispetto alla Francia metropolitana; la quale, per Piketty, è «una repubblica coloniale che non sa di esserlo».

Nelle loro differenze, unendo il rigore della ricostruzione storica con l’apporto politico e ideologico contemporaneo dei movimenti e dei pensatori radicali per l’emancipazione nera, i libri di Michel e Robinson sono due libri importanti non solo per capire il ruolo della razza entro questo percorso storico segnato dalle relazioni asimmetriche inscritte nella storia coloniale, ma anche per spingerci a combattere il razzismo non con la morale e l’integrazionismo paternalista ma lottando contro la diseguaglianza strutturale nel sistema economico in cui viviamo.



Note [1] E.Williams, Capitalism and Slavery, University of North Carolina Press, Chapel Hill 1944. [2] F. Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, XVe-XVIIIe siècle, Armand Colin, Malakoff 1979. [3] I.Wallerstein, The Modern World-System, vol. I: Capitalist Agriculture and the Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, Academic Press, New York 1974; The Modern World-System II: Mercantilism and the Consolidation of the European World-Economy, 1600–1750, Academic Press, New York 1980. [4] S.Beckert, Empire of Cotton. A Global History, Knopf, New York 2014; S.Beckert, S.Rockman, a cura di, Slavery’s Capitalism. A New History of American Economic Development, University of Pennsylvania Press 2016. [5] A. Michel, cit., p. 68. [6] A. Quijano, Colonialidad del poder, eurocentrismo y America Latina, in E. Lander, a cura di, La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas latinoamericanas, Clasco, Buenos Aires 2000. [7] C.Robinson, Black Marxism. The making of the Black Radical Tradition, University of North Carolina Press, Chapel Hill 2000 [Prima edizione: Zed Press, London 1983]. [8] Ivi p. 26. Traduzione mia. [9] T. Piketty, Capitale e Ideologia, La Nave di Teseo, Milano 2020, pp. 257-269, pp. 302-321; Una breve storia dell’uguaglianza, La Nave di Teseo, Milano 2021, pp.85-155.


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Andrìa Pili, studente laureando in Scienze Economiche all’Università degli studi di Cagliari, è membro del collettivo Filosofia de Logu, e co-autore del libro Decolonizzare il pensiero e la ricerca in Sardegna (Meltemi 2021). Per Vortex ha scritto: Questione sarda: arretratezza o subalternità?

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