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In interno. Frammenti di un lavoro sempre più dentro


Pascal Legras, Viaggio nella venticinquesima ora, 1996


Con questo articolo dedicato al «lavorare da casa», divenuto nuova normalità per milioni di persone con compiti «remotizzabili», apriamo il percorso interno alla rubrica Transuenze che abbiamo chiamato Iperindustria (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito), sulle trasformazioni del lavoro e della produzione. L’autrice, Sandra Burchi, è ricercatrice, collabora con l’Università di Pisa e altri centri di ricerca, ha partecipato a numerose ricerche sul lavoro flessibile e sull’houseworking dei giorni nostri. Su questi temi, oltre a svariati articoli, ha pubblicato nel 2014 il volume Ripartire da casa. Reti e lavori nello spazio domestico, edito da Franco Angeli. Come nei suoi lavori precedenti anche in questo articolo il suo sguardo, che muove da una esplicita prospettiva di genere, privilegia l’osservazione dei fatti sociali a partire dal loro impatto sulla vita quotidiana. Il lavorare da casa, in questo contributo interrogante, è sottratto alla visione edificante di strumento che realizza la quadratura del cerchio tra sostenibilità ambientale e «conciliazione vita-lavoro», senza con ciò rinunciare a ipotizzarne usi differenti, in grado di migliorare l’esistenza di chi lavora. Soprattutto, la sua analisi pone chiaramente in luce come il lavorare a e da casa, oggi, sia in relazione con sistemi organizzativi che richiedono di mettere in gioco la totalità della persona, la sua soggettività, le risorse che appartengono alla sua sfera sociale.


Lavorare da remoto, a distanza, da casa, per molti è una normalità già da tempo. Si tratta di una condizione di lavoro poco vista ma ampiamente messa a fuoco dalle analisi sulle trasformazioni del lavoro almeno dagli anni Novanta. Fra i luoghi in cui il lavoro si è disperso negli ultimi vent’anni, via precarietà e sviluppo tecnologico, la casa è tornata a essere sede di una domestication temuta (Morini, 2012), o adattata (Burchi 2014) da chi guarda a questo fenomeno criticamente, ma fortemente incoraggiata dalle politiche aziendali. Un libro che sta lì sulla mia scrivania ormai da mesi e che non posso far altro che leggere per frammenti, irritata da tanto entusiasmo, si intitola così: «Smart working. Mai più senza» (Visentini, Cazzaroli 2019). In effetti è facile pensare che su questa strada non sarà facile «tornare indietro» e forse non è esattamente la cosa da fare. Sarebbe più importante chiedersi come andare avanti ora che abbiamo scoperto che lavorare da remoto è possibile. In Italia i decreti con cui il Governo si è mosso negli ultimi mesi estendendo l’applicazione della modalità di lavoro agile «ad ogni rapporto di lavoro subordinato per tutta la durata dell’emergenza», hanno imposto il ricorso a una legislazione recente (e poco nota) e abituato all’uso veloce dell’inglesismo che la rappresenta. È ormai noto che l’assimilazione che la società sta facendo relativamente allo smart working non è corretta e che questa unica formulazione identifica modalità di lavoro diverse che, in vario modo, sono state delocalizzate dalle sedi abituali. La richiesta di invertire la consolidata abitudine alla mobilità con un esercizio di distanziamento sociale che, in epoca di lockdown, ha usato le singole abitazioni come fulcro di un’organizzazione possibile, ha reso le case di tutti ambienti sovraccarichi di funzioni in cui molti e molte stanno continuando a lavorare sulla base di normative e aggiustamenti che si susseguono da marzo. Mentre in questi mesi il lavoro all’esterno si è diradato, seppur in maniera contraddittoria, nello spazio interno si è moltiplicato confondendo e riattualizzando le gerarchie tradizionali fra lavori visti e non visti, misurabili e non. Molta di questa confusione ritrova ordine collocandosi sugli assi tradizionali del genere, aprendo a nuove negoziazioni e conflitti.


In queste settimane sto affidando a un lavoro di inchiesta, tramite interviste, la possibilità di capire quale organizzazione stanno prendendo i pezzi del lavoro portato a casa. Sto ascoltando insegnanti, lavoratrici del pubblico e del privato, donne giovani e meno giovani alle prese con la gestione del proprio fare, da casa. Paola, ex manager, dopo aver girato le varie sedi europee della azienda per cui lavorava, ha cambiato professione quando ha deciso di adottare un bambino. Oggi è insegnante. Quando si è trovata a fare didattica a distanza nella stessa casa in cui il marito, da sempre, lavora da remoto per un’agenzia di ricerca europea, stanca di discutere sulla ineguale distribuzione della cura del figlio e della casa, si è decisa ad annotare su una tabella il diverso uso del tempo colorando, classicamente, le sue ore in rosa e quelle del marito in blu: «A quel punto siamo ripartiti. Quando ha visto che le sue ore erano come dei puntini blu in un mare di rosa, si è reso conto».

Encomiabile.

Incontro donne sedute in punta di sedia che non vedono l’ora di dire a qualcuno che non ce la fanno più, che vorrebbero tornare in sede ma il dirigente o il datore di lavoro «le lascia a casa». Ma ci sono anche quelle che, tornate in presenza, vorrebbero poter conservare, almeno in parte, la modalità di lavoro appreso, che ha permesso loro di ridurre la fatica di giornate a incastro o di un pendolarismo quotidiano. Le prime raccontano di giornate troppo piene, della difficoltà di separare le cose da fare in uno spazio che è sempre lo stesso, e del desiderio di tornare a contare su quegli spostamenti casa-lavoro che permettevano loro di dare ordine ai vari pezzi della giornata e di distribuire, anche nello spazio, ruoli, compiti, identità. Le seconde rimpiangono la possibilità di lavorare senza interferenze e interruzioni, un migliore uso del tempo e la possibilità di tenere testa ai diversi impegni della propria quotidiana esistenza.


Questa ambivalenza, questi desideri che, pur andando in direzioni opposte, non trovano risposte positive parlano di un primo dato, che sarà difficilmente recuperabile, la volontarietà. Saltato, per motivi di emergenza, l’accordo individuale che, in base alla legge 81/2017 formalizza la possibilità per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti di lavorare in modalità agile, è saltata la volontarietà, il diritto alla recessione e tutta una serie di tutele andate in deroga in questi mesi di aggiustamenti. Molte delle persone che ho incontrato, rispondono a degli ordini di servizio e hanno margini molto stretti, anche nel settore pubblico, di decisione. L’aver sperimentato in un periodo di quarantena e di lockdown, un modello organizzativo che prevede flessibilità e mobilità, obbligherà a confrontarsi, in futuro, con queste contraddizioni. Ad oggi è possibile osservare, anche solo attraverso una raccolta di interviste, che una modalità di lavoro che prevede una buona capacità di negoziazione fra singoli e aziende (e «fiducia», direbbero le autrici del mio libro che mi ostino a non leggere fino in fondo) ha già prodotto un evidente indebolimento. Maria ha cominciato l’intervista parlando di questo. La sua azienda ha aperto ben prima della crisi Covid la possibilità di lavoro agile, ma lei, che poteva scegliere, era rimasta a lavorare in presenza per l’intero orario di lavoro. Quando non è stato più possibile si è adeguata a una modalità di lavoro che le ha creato molti problemi di cui ha parlato con malcelata reticenza. Difficile ammettere che le tecnologie non sono poi così gestibili o che non sono sufficienti a sostituire la normale collaborazione fra colleghi. Complicato ammettere che, se non si vive con qualcuno, lavorare a casa condanna a una solitudine eccessiva, a una giornata vuota, troppo silenziosa. «Per me è stato davvero troppo difficile» mi ha detto, «alla fine tutta questa difficoltà mi si è ribaltata nella salute e ho avuto problemi fisici». Laureata, funzionaria di un istituto di credito, assistente alla direzione generale della sede principale, Maria non ha nessun problema a gestire il linguaggio, a usare bene le parole, ma per dire che dopo due settimane di smart working, il bisogno di tradurre ogni sua azione in un codice excel le ha procurato uno stress mentale che non ha saputo controllare, ha parlato di «problemi fisici», come se volesse dare un corpo al suo malessere: «ho smesso di dormire, ho perso il senso del tempo, lavoravo oltre l’orario per cercare di capirci qualcosa, ma più ci stavo peggio era. È andata meglio quando ho chiesto di utilizzare le videochiamate al posto delle chat e quando ho ottenuto che qualcun altro predisponesse i fogli excel su cui riportare i dati. Ci ho messo un po’ per stare meglio e per qualche giorno ho dovuto staccare del tutto. Vorrei tornare a lavorare in sede, ma tutto il mio gruppo di lavoro ha votato per rimanere in smart working. D’altra parte sono l’unica che vive da sola».


Del disagio di Maria mi ha colpito la difficoltà ad essere detto e il bisogno di giustificarsi come se già, nel giro di pochi mesi, si fosse creata una norma che individua nella perfetta capacità di autogestione e autonomia, una skill imprescindibile. Ho visto all’opera, in quel sentirsi troppo esposta di Maria, la percezione di essere fuori asse non soltanto rispetto alle aspettative aziendali ma a un più generico imperativo sociale, vivacissimo anche in epoca pandemica, a saper fare da sé. Il bisogno di relazioni o di «contatto umano», come mi dicono spesso nelle interviste, è difficile da far emergere se va in conflitto con il dover essere lavorativo e la produttività. Se quello svolto non è esattamente un lavoro di cura o di relazione (le insegnanti non hanno nessun problema a dire che per insegnare davvero hanno bisogno di essere in presenza, ad esempio), riconoscersi nel bisogno degli altri e di presenza è un po’ come ammettere di non saper tenere il ritmo della trasformazione digitale dei format di relazione emergenti. Del resto, mi è stato fatto notare, anche nei luoghi di lavoro le cose sono molto cambiate e la cooperazione passa in larga parte dalle chat che occupano stabilmente un angolo dello schermo e, inavvertitamente, strutturano e punteggiano il modo di lavorare. Anche da casa, quindi, è possibile contare sulla chat, comunicare, remotizzare operazioni e procedure. Si tratta di gestire bene il tempo e se stessi, fare i conti con quello che in una casa reclama attenzione, che sia il «troppo silenzio» della casa di Maria o «il troppo rumore» delle case sovraffollate delle altre. Quello che «nel frattempo» della crisi è già successo è una riorganizzazione degli spazi di casa, un veloce adattamento delle abitudini, e un’accelerazione forzata dei processi di tecnologizzazione dei singoli e degli ambienti. Molte hanno comprato un nuovo computer, una sedia ergonomica, potenziato la connettività. In molte case la stanza centrale ha smesso di essere il luogo di relax: superfici più grandi, luce migliore, tutto ha portato a individuare in quello spazio il luogo per lavorare e a contenderselo con i «congiunti». Il tavolo da pranzo può essere un’ottima scrivania, anche se si deve più volte al giorno liberarlo e allestirlo diversamente. A meno di non fare come Grazia. Quando lei e le colleghe del call center hanno cominciato a lavorare da casa, trasferendo coerentemente orari e operazioni come in un classico e contrattualizzabile telelavoro, le è sembrato pratico sfruttare una semplice prolunga. L’estensione di centimentri, normalmente usata per ospitare a pranzo amici e parenti, è diventata stabilmente la sua postazione di lavoro. Da ormai sei mesi la sua famiglia si è abituata a condividere i pasti facendo spazio a computer, cuffie, formulari, apparecchiando il tavolo solo a metà.


Una trasformazione come questa, anche pensata come transitoria (Grazia non vede l’ora di riprendere il suo vecchio tran tran ma chissà se potrà farlo) agisce su un confine simbolico che ha disegnato sulla soglia di casa la divisione fra dimensioni opposte: invisibile/visibile, chiuso/aperto, e spinge verso nuove definizioni dell’intricato rapporto fra privato e pubblico. Potrebbe essere l’occasione per prendere sul serio la critica femminista che da oltre due secoli mostra i limiti della sistematizzazione sociale e politica delle diverse sfere dell’agire, potrebbe essere l’ora per rendersi conto, detto diversamente, di «tutto il lavoro che serve per vivere», disegnando nuovi equilibri e gerarchie fra il produrre e il riprodurre, ma se non ci avesse già pensato il nostro sistema economico ad estendersi e fare profitto in ogni sfera dell’esistenza, basterebbe la tabella troppo rosa elaborata da Paola, a farci rendere conto che non è quello che sta succedendo. Molto lavoro resta invisibile e mal distribuito, oltre che non pagato. E non è solo il lavoro di cura, è, piuttosto, la cura del lavoro, l’organizzazione. Smaterializzato, digitalizzato, eseguito a distanza, lontano dalle strutture fisiche che contribuiscono a dare forma al tempo e alla complessità delle interazioni necessarie per raggiungere gli «obiettivi» (parola chiave, vero e problematico cardine su cui lo smart working prevede di far agire un nuovo sistema di equivalenze), il lavoro agile, accentuando i caratteri individuali della prestazione, invisibilizza lo sforzo necessario a impostare routine organizzative efficaci e le ridisegna come sfide individuali, completamente affidate alla capacità dei singoli di essere all’altezza del raggiungimento degli obiettivi prefissati, sottraendosi alle forme di alienazione possibile o godendo, quando la sfida è vinta, del tempo liberato da una buona capacità di gestione. Quella che è in campo non detta, passata sotto silenzio dalla praticabilità di un trasferimento immediato e di massa è un’organizzazione del lavoro che si prevede possa reggere grazie alla facilità di interazioni tecnologiche ma conta, soprattutto, sulla capacità individuale di incorporare – letteralmente – operatività e produttività. La «rivoluzione» che sgancia l’organizzazione del lavoro dalle misure ordinarie di tempo e spazio per ricalibrarle su task e obiettivi può liberare un potenziale inespresso, anche organizzativo, costituire un guadagno per molti dipendenti, proprio in termini di autonomia, favorire una gestione creativa e innovativa della, nominata dalla L. 81/2017, «conciliazione», ma si realizza accentuando processi di individualizzazione già in atto, proseguendo nel solco di una interiorizzazione crescente delle dinamiche produttive. Anche nella sua versione più smart il lavoro delocalizzato ha bisogno di individui prestazionali che, a livelli diversi, si dichiarino capaci di accettare la sfida.


Quello che continua a colpirmi di più, in questa pratica di ascolto che regge da anni il mio lavoro di ricerca sul lavorare da casa, è la capacità dei singoli di allestire pratiche organizzative interstiziali, di costruire adattamenti e soluzioni la cui transitorietà e agilità si regge tanto sulle tecnologie informatiche quanto sulle tecnologie del sé. I modelli di organizzazione lavorativa cui la modernità ha fatto riferimento sono stati pensati in relazione a spazi precisi e in coerenza con una serie di distinzioni fondamentali su cui strutturare l’esistenza individuale e collettiva. La divisione tra la casa come luogo privato e luoghi altri destinati al lavoro è una di queste, almeno dalla Rivoluzione Industriale. Sappiamo che, soprattutto guardata con un’ottica di genere ma non solo, questa divisione si è imposta escludendo dalla definizione sociale di «lavoro» tutta una serie di attività che non hanno mai smesso di produrre economie contribuendo, in vario modo alla riproduzione sociale. Sappiamo cioè che questa distinzione, è servita a nascondere, confinare e svalutare il fare delle donne così come tutto quello che rimaneva ai margini e nelle aporie di quella distinzione. Ma questo processo è servito anche a dare forma a una comprensione del lavoro come dimensione pubblica, in relazione a spazi facilmente individuabili (la fabbrica, l’ufficio, il negozio, l’impresa) che hanno svolto la funzione di definire un contesto e garantire un’identità. Portato fuori da quegli spazi e vissuto in condizioni che intersecano più ambienti, da quelli virtuali a quelli domestici, il lavoro, anche quello che può contare su un contratto formale e un rapporto di subordinazione, funziona in base a sistemi organizzativi che attingono alla dimensione privata e personale di chi lo esegue sulla base di un’autonomia che chiede una maggiore identificazione con la propria «mansione». Il lavorare per obiettivi mentre promette libertà dal cartellino, dalla presenza obbligata, dalla routine ripetitiva, apre a una spesa di sé incondizionata e incoraggia un sistema di valutazione che premia i risultati. «Bisogna mettere dei paletti» è una frase che torna e ritorna nelle interviste e che segnala la difficoltà di mettere argini a un tempo di lavoro che si dilata e cambia forma allontanandosi dai luoghi condivisi della sua esecuzione, diventando prestazione individuale. Quei «paletti», che servono ad organizzare il tempo e a trovare una misura, dicono di un equilibrio che si costruisce anche in base a una sottrazione, una tecnologia del sé andata da tempo fuori norma.

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