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Sfruttamento della sofferenza, sfruttamento della paura

Aggiornamento: 15 set

Estratto da Lavoro e salute mentale


Fitter, Happier, Angelica Ferrara
Fitter, Happier, Angelica Ferrara

Esce oggi per DeriveApprodi il primo volume di Infedeli, la collana dedicata alle trasformazioni del lavoro contemporaneo diretta da Francesca Coin: si tratta di Lavoro e salute mentale di Christophe Dejours (trad. it. Vincenzo Di Mino), un testo profetico divenuto un classico degli studi sulla sofferenza causata dal lavoro. Come afferma nell'introduzione la direttrice della collana, «questo libro, pieno di riscritture e ripensamenti, mostra che il rapporto tra lavoro e salute mentale non può prescindere dalla questione del potere, né dalla specifica struttura psichica di ogni persona, dai suoi bisogni, dai suoi desideri, dalle sue aspirazioni e dal modo in cui l’organizzazione del lavoro a esse si attaglia o meno». La sezione «transuenze» interagirà spesso con le pubblicazioni della collana.


***


Siamo giunti al capitolo più insolito, che dopo aver suscitato il no stro stesso scetticismo non mancherà di destare dubbi e sospetti nel lettore. L’atteggiamento spontaneo consiste nel prendere come riferimento la sofferenza fisica. Qualsiasi malattia del corpo non può che essere dannosa per la produttività e la redditività dell’a zienda. Ma ecco che la sofferenza mentale ancora una volta non si lascia intrappolare negli schemi esplicativi forgiati per altri e non per se stessa. Differenza essenziale che fonda l’opposizione tra medicina e psicoanalisi. Abbiamo già menzionato nei capitoli precedenti alcuni aspetti «funzionali» della sofferenza per la produttività. Nelle attività ripetitive, i comportamenti condizionati non sono solo conseguenze dell’organizzazione del lavoro. Al contrario, strutturano l’intera vita al di fuori del lavoro, contribuendo così a subordinare i lavoratori alla produttività. L’abrasione della vita mentale dei lavoratori è utile per l’instaurazione di un com portamento condizionato favorevole alla produzione. La sofferenza mentale appare in questo contesto come l’intermediario necessa rio per la sottomissione del corpo. Nel settore edile, abbiamo segnalato il valore funzionale dell’ideologia difensiva del mestiere, sia per quanto riguarda la prosecuzione del lavoro ad alto rischio che per quanto riguarda la selezione del personale. Nel settore dell’aviazione da combattimento, è lo sfruttamento di una follia molto specifica che permette di trovare uomini capaci di lanciarsi in una sfida mortale con gli elementi. Ma le cose non finiscono qui e per illustrare il nostro discorso faremo riferimento a due esempi presi dall’industria. Con gli operatori telefonici, vedremo come la sofferenza derivante dall’insoddisfazione può essere utilizzata per aumentare la produttività. L’industria petrolchimica sarà utilizzata per mostrare come l’ansia possa essere un meccanismo determinante nell’organizzazione del lavoro.



Sfruttamento della frustazione

Ecco alcune note tratte da un’indagine sulle centraliniste (Dominique Dessors, in Dessors et al. 1978).


«Il lavoro ci rende stupidi».

«A forza di stare seduti, abbiamo il sedere piatto, finiamo per avere il sedere stupido».

«Il lavoro è completamente falso. Quando parli, sono le Poste che par lano. Quando esci dal lavoro, parli alle persone con le frasi delle Poste».

«Le frasi che dobbiamo dire sono: “496, sono in ascolto”, non abbiamo il diritto di dire buongiorno».

«Che cosa desidera?», non abbiamo il diritto di dire, ad esempio, «che cosa vuole?». «Dobbiamo poi raccogliere le informazioni, cioè riformularle dopo aver le ripulite, nel linguaggio in codice».

«Poi, bisogna ricordare l’informazione e cercarla nelle microfiche. Que sto sforzo di memoria non è facile, soprattutto all’inizio...».

«Successivamente, dobbiamo ripetere l’informazione richiesta, nella forma di “domanda”». «Dopo di che, dobbiamo fornire l’informazione nella forma di “rispo sta”, nel linguaggio in codice delle Poste».

«Infine, alla formula di cortesia dell’abbonato, è l’unico caso in cui ab biamo il diritto di dare una risposta liberamente scelta».

«Non abbiamo il diritto di riagganciare. È l’abbonato che deve riagganciare per primo. Quindi non abbiamo alcun potere sull’interlocutore».

«Non sappiamo quanti chiamate avremo. Non c’è alcun controllo sulla quantità di chiamate da gestire. Una chiamata segue immediatamente la precedente. Ciò che è fastidioso sono le informazioni mal formulate o obsolete. Questo richiede una ricerca più lunga. Non abbiamo il diritto di fare più di tre schede (cioè è vietato fare più di tre ricerche per trova re la risposta a una richiesta). Che sia vero o falso, bisogna rispondere: “L’informazione non è presente sotto questo titolo”, per non dire che le Poste non ce l’hanno. Poi bisogna aspettare che l’abbonato abbia finito di lamentarsi e abbia riattaccato».

«Durante la formazione, l’apprendistato, ci viene insegnato a non essere troppo gentili, perché dobbiamo scoraggiare le persone dal ricorrere ai servizi di informazione telefonica». «I servizi di informazione (ci viene insegnato) esistono perché l’elenco telefonico è incomprensibile».


[...]


Lo sfruttamento della sofferenza

Ma il lavoro delle centraliniste offre l’opportunità di trattare la re lazione esistente tra «tensione nervosa» e produttività. Più l’operatrice è nervosa, più si sente aggressiva e più deve intensificare l’autocontrollo. Le reazioni aggressive sono provocate dall’interlo cutore, dalla sorveglianza e dall’inettitudine del compito. La frustrazione e le provocazioni si sommano nei loro effetti per suscitare congiuntamente un’aggressività reattiva. È questa aggressività che verrà sfruttata dall’organizzazione del lavoro. In mancanza di una via d’uscita diretta, quale può essere il destino dell’aggressività? Un’analisi che non ha bisogno di essere dettagliata qui permetterebbe di mostrare che l’unica via d’usci ta è quella di rivolgere l’aggressività contro se stessi (Freud 1915). L’autoaggressività può assumere molteplici forme. Ma l’intensità dell’organizzazione del lavoro gioca qui un ruolo importante. Di fronte alla necessità di rispettare la realtà (salario e disciplina della fame), l’operatrice ha interesse a mettere questa energia a beneficio del suo adattamento al compito. In virtù di un processo che trasforma l’aggressività in colpa attraverso un capovolgimento contro se stessi (Freud 1930), si instaura un circolo chiuso in cui la frustrazione alimenta la disciplina, base del comportamento condizionato di cui si è parlato nel capitolo 2. L’operatore diventa l’artefice del proprio condizionamento. Questa è la prima soluzione offerta all’aggressività in risposta alla frustrazione. Sul posto di lavoro può venirsi a creare un circolo vizioso similare. Contro l’abbonato scortese, la reazione aggressiva ha possibilità di manifestarsi solo con il supervisore. È vietato rispondere in modo aggressivo, è vietato interrompere la comunicazione, è vietato far arrabbiare l’altro facendolo aspettare indefinitamente… L’unica soluzione consentita è ridurre il tempo di comunicazione, spingere l’interlocutore a riagganciare il più rapidamente possibile. Quindi l’unica via d’uscita all’aggressività, peraltro molto risicata, è lavorare più velocemente. È un fatto straordinario, che porta ad aumentare la produttività esasperando gli operatori. Quindi non è incitandole a lavorare velocemente o creando irritazione e tensione nervosa tra le dipendenti, o attraverso la sorveglianza stessa, che si può ottenere un rendimento migliore. Da un lato la paura è la cinghia di trasmissione della repressione, dall’altro l’irritazione e la tensione nervosa sono i mezzi per ottenere il pluslavoro. Appare quindi in questo lavoro di operatrice di informazioni telefoniche che la sofferenza psicologica, lungi dall’essere un epifenomeno, è lo strumento stesso per ottenere il lavoro. Il lavoro non produce sofferenza, è la sofferenza che produce il lavoro. Per aumentare il carico di lavoro è sufficiente tirare la corda della sofferenza psicologica (rispettando comunque i limiti e le capacità di ciascuno, altrimenti si rischia di far andare in decompen sazione, ad esempio attraverso crisi di nervi). Più che una vera e propria organizzazione del lavoro, la sorveglianza delle centraliniste appare come una tecnologia del potere mediata dalla sofferenza psicologica. Questa constatazione era già stata fatta da Bégoin, ma non trovava spiegazione nella teoria pavloviana. «Alcune di loro raggiungono rendimenti considerevoli non per eccesso di zelo, ma perché il lavoro, dicono, le innervosisce, e più si innervosiscono e più vanno veloci». In generale, sono proprio le più «nervose» (nel senso di quelle più irritabili, meno pazienti ecc.) ad avere i rendimenti migliori. Si può dire senza esagerare che il «nervosismo» delle centraliniste (uno degli elementi essenziali del quadro della loro nevrosi) è una malattia necessaria nelle condizioni attuali per lo svolgimento dei loro compiti professionali. Il sistema di valutazione e il modo di calcolare il rendimento non fanno altro che aggravare questa situazione (Bégoin 1957, p. 146).

Un esempio straordinario dell’uso del nervosismo è dato dallo stesso Bégoin, ed è così chiaro che non ha bisogno di commenti:


Un medico del lavoro ci ha fornito un’illustrazione sorprendente […]. In un’azienda, per un lavoro delicato, che richiedeva una maggiore abilità professionale, erano state selezionate alcune delle «migliori dattilogra fe» dell’azienda. Sono state assegnate a questo lavoro, che era particolar mente intenso. Dopo poco tempo, tutte hanno dovuto interrompere il lavoro a causa di gravi disturbi che sono stati interpretati come manife stazioni di ipertiroidismo, e di cui si è notato, facendo un’attenta anam nesi, che presentavano già in precedenza alcuni sintomi. Si è concluso che la selezione professionale per il lavoro difficile aveva allo stesso tempo, per una sorta di coincidenza, selezionato i soggetti che presentavano tra gli altri dattilografi una tendenza ipertiroidea (ivi, p. 196).

Si può paragonare lo sfruttamento dell’ipertiroidismo [1] nei dattilografi a quello della follia narcisistica nei piloti di caccia. Ciò che viene sfruttato dall’organizzazione del lavoro non è la sofferenza in sé, ma piuttosto i meccanismi di difesa messi in atto contro questa sofferenza. Nel caso delle centraliniste, la sofferenza deriva dall’organizzazione del lavoro «robotizzata», che espelle il desiderio del soggetto. La frustrazione e l’aggressività che ne derivano, così come la tensione e l’irritazione, sono sfruttate specificamente per aumentare il ritmo di lavoro.



Sfruttamento della paura

Nell’industria chimica, persiste l’ignoranza del processo produttivo e dei suoi incidenti. La direzione non è in grado di fornire un organigramma esatto delle mansioni a causa della natura stessa del lavoro, che si struttura intorno agli incidenti da prevenire.


L’inconsapevolezza degli operai. Nella maggior parte dei casi, gli operai non conoscono il funzionamento esatto del processo produttivo, dei diversi dispositivi ecc. Hanno solo frammenti di conoscenza discontinua: il nome del prodotto in entrata e in uscita, il nome dell’impianto, la sua capacità, le sue prestazioni complessive, la data di installazione, alcuni dati quantitativi riguardanti i limiti di temperatura o di pressione, come indicati sul quadro del locale di controllo. Ma non vi è una conoscenza coerente, né del processo stesso né del funzionamento degli impianti. Non c’è alcuna formazione su questo argomento destinata agli operai. La conoscenza circola a livello di ingegneri, uffici di progettazione, sede centrale a Parigi ecc. Esistono comunque forme di sapere, anche se discontinue. Gli operai hanno infatti una notevole conoscenza dell’impresa. Imparano spontaneamente, nel tempo e per abitudine, una serie di «trucchi». Il trucco è la forma pragmatica e operativa della conoscenza operaia. È così che la direzione dà alcune istruzioni: la temperatura di questo serbatoio non deve superare i 70°C, il livello di pressione non deve superare le 25 atm., la portata non deve scendere al di sotto di tot tonnellate all’ora e via dicendo. Ma queste istruzioni sono insufficienti. Gli operai imparano a poco a poco a intervenire nelle fasi intermedie: affinché la temperatura non superi un certo livello, è necessario mantenere un flusso in entrata che «pompa il calore». Allo stesso modo, un certo livello di rumore corrisponde a un Pvc (cloruro di polivinile, prodotto utilizzato nella fabbricazione di alcune materie plastiche) che scorre bene, un altro significa che «fa delle palline». È nel lungo periodo che l’operaio associa al rumore della macchina le osservazioni degli altri operai (a valle, cioè collocati alla fine del processo produttivo) sulla qualità del prodotto ricevuto. Questo sapere non viene messo nero su bianco e ufficializzato, circola tra gli operai quando c’è una «buona atmosfera». La sua trasmissione è puramente orale. La somma delle conoscenze accumulate e possedute collettivamente dagli operai fa funzionare la fabbrica. Non si tratta di dettagli accessori, la maggior parte delle conoscenze viene trasmessa e utilizzata da operaio a operaio, senza l’intervento della direzione della fabbrica, al contrario dell’Organizzazione scientifica del lavoro. Tuttavia, questa conoscenza pragmatica è incompleta e poco rassicurante. Viene messa in discussione da un cambio di posto di lavoro, dall’installazione di un nuovo vaporizzatore o di nuove autoclavi. Le tecniche «funzionano», ma non rappresentano né un mestiere con un know‑how acquisito una volta per tutte come per gli artigiani, né una vera e propria formazione, né un mezzo per padroneggiare completamente il mezzo di lavoro. L’insieme di questi trucchi permette alla fabbrica di funzionare, ma lo statuto discontinuo di questo sapere pragmatico non riesce a rendere conto dello svolgimento complessivo del processo di produzione. La prova è il verificarsi di incidenti che non erano stati previsti, che non si potevano prevedere o che non sono mai stati compresi e che rischiano di ripetersi. Ci sono certamente guasti banali, ma ci sono anche incidenti strani e imprevedibili, o sempre nuovi e talvolta unici.


L’ignoranza dei dirigenti. Gli operai sanno che i dirigenti ignorano il funzionamento dell’impresa e dei suoi impianti. In possesso di conoscenze teoriche e di una formazione nelle grandi scuole, arrivano in fabbrica senza alcuna conoscenza pratica. «All’inizio la direzione li manda a visitare gli impianti, quindi noi li mandiamo a seguire indicazioni che non portano da nessuna parte. A volte dura diversi giorni. E poi, dopo qualche giorno di questo giochino, si rendono conto che non ce la faranno. Quando la direzione li autorizza a interrompere queste visite, si rifugiano negli uffici e non li si vede più. Si è infatti scoperto che i dirigenti, da parte loro, non sanno far funzionare da soli gli impianti. La conoscenza teorica è insufficiente per questa insolita pratica industriale. L’unica conoscenza operativa si riduce alle istruzioni ufficiali, che sono comunque scarse rispetto ai “trucchi” degli operai». I quadri ammettono implicitamente la loro ignoranza: «Quando l’ingegnere dà un ordine, lo ascoltiamo educatamente, e poi quando ha le spalle girate, facciamo come possiamo». Si tratta di ciò che tacitamente, da entrambe le parti, chiamano «ordini interpretati». In interi settori regna la più totale ignoranza: «Quando c’è un incidente, si mette giù una nuova direttiva». Le procedure ufficiali procedono così a singhiozzo. Molto spesso, la direzione chiede agli stessi operai di mettere a punto una nuova direttiva. Si verifica un’esplosione quando si introduce il nuovo catalizzatore; «nessuno l’aveva prevista». «Durante gli scioperi, si discute di possibili riduzioni della produzione che non danneggerebbero gli impianti. È in queste discussioni che la direzione si manifesta. Ci rendiamo conto che non sanno fino a dove si può arrivare. È così che noi abbiamo rallentato più di quanto loro dicessero fosse possi bile e non è saltato nulla. L’altra volta, è stato perché un ex operaio mi ha detto che gli era successo di scendere una volta al 22% che abbiamo fatto precipitare la produzione in un colpo solo a quel livello». «Un’altra volta ci hanno detto che era pericoloso fermarsi perché il processo di avviamento era esplosivo. L’avevano imparato perché in Inghilterra era esploso e c’erano stati 15 morti. Ma noi l’abbiamo fatto partire bene la prima volta e lì non sapevano che c’era un rischio». «Tutti sanno che non lo sappiamo». Quando si verifica un incidente imprevisto, molto spesso non è dovuto a una mancanza di precauzioni, ma a una mancanza pregressa di esperienza. Questa ignoranza che copre il funzionamento dell’azienda gioca un ruolo fondamentale nella costituzione del rischio e nella paura dei lavoratori.


[...]


Paura e ordine sociale in impresa

La paura è anche uno strumento di controllo sociale in azienda. Il miglior esempio è rappresentato dalla forma straordinaria che assumono i conflitti. Che si tratti di salari, qualifiche o condizioni di lavoro, gli scioperi di tipo classico sono rari e persino impossibili in alcune fabbriche petrolchimiche. L’interruzione della produzione non solo danneggerebbe l’attrezzatura, ma soprattutto rischierebbe di provocare incidenti; perché per funzionare questo processo non deve superare una portata massima fissata in anticipo dal costruttore (in realtà la pratica dimostra che se all’inizio queste norme vengono rispettate, il più delle volte la direzione spinge a superarle in modo permanente), né scendere al di sotto di un livello di produzione minima, pena il rischio di provocare in alcuni punti pericolosi aumenti di temperatura, bloccare il flusso dei reagenti in alcuni condotti ecc. Così lo sciopero assume il più delle volte la forma di una riduzione della produzione, secondo quote che sono oggetto di interminabili negoziazioni tra la direzione e i lavoratori. Allo stesso modo, lo sciopero può avvenire solo in un determinato momento, quando un impianto è in fase di manutenzione, o quando si raggiunge una determinata fase del processo, o durante una determinata campagna riguardante un prodotto che da solo permette il rallentamento. L’argomento usato dalla direzione e attorno al quale si organizzano tutti i movimenti è sempre la sicurezza. Anche il licenziamento è impossibile, gli scioperi selvaggi sono particolarmente rari, il sabotaggio è totalmente escluso. Tuttavia, sembra che qua e là i lavoratori in lotta trasgrediscano le regole di una sicurezza che ha raggiunto lo status di vero e proprio mito. In questo dimostrano che l’uso che ne fa la direzione è abusivo, e d’altra parte il mito si basa sull’ignoranza che regna da entrambe le parti sui limiti esatti che non devono essere superati. A questo proposito, le lotte svolgono un ruolo importante nello sdrammatizzare lo scenario della sicurezza e disinnescare una parte della paura. È quindi fondamentale valutare l’articolazione Ignoranza – Rischio – Paura – Sicurezza nei suoi due aspetti indissolubili. Da un lato, è il risultato, per così dire inevitabile, della produzione attraverso processi e tecniche che non sono controllati, ma che rientrano in una scelta consapevole da parte della direzione. Dall’altro, è uno strumento di produttività e di controllo sociale e rappresenta una forma totale, completa e originale di sfruttamento. La paura è consapevolmente strumentalizzata dalla direzione per fare pressione sugli operai, per controllarli e per farli lavorare. Sembra che la costruzione di un impianto petrolchimico, dotato di attrezzature sofisticate e moderne che diventano rapidamente obsolete, e con una grande capacità di trattamento del prodotto, metta la direzione in possesso di un materiale che può far guada gnare molto denaro, a condizione di saperlo usare e mantenerlo. Non si può certo dire che la direzione, gli ingegneri, i progettisti e i costruttori ne siano completamente all’oscuro. La realizzazione dell’impianto è la prova di una certa conoscenza. Per quanto riguarda invece il suo funzionamento e il suo monitoraggio, abbiamo dimostrato che erano fin dall’inizio, e lo sono ancora oggi, privi di conoscenze pratiche. Possiedono alcune conoscenze tecniche formulate in istruzioni, che non sarebbero sufficienti per far funzionare l’impresa. Sono gli operai che, nel corso della loro pratica, scoprono e talvolta si trasmettono oralmente i «trucchi del mestiere». La scoperta e la produzione dei «trucchi» del mestiere sono, in un certo senso, il frutto delle potenzialità creative e inventive degli operai. Ma, a differenza degli artigiani che hanno potuto elaborare un know‑how in secoli di pratica, per quanto riguarda il ciclo produttivo bisogna scoprire i trucchi in un periodo di tempo che varia, a seconda dei casi, da pochi giorni a qualche anno. Niente di paragonabile, quindi. D’altra parte, i trucchi hanno qui un carattere vitale, perché è grazie a questi che gli operai riescono a controllare, se non a padroneggiare, il processo.

In questo modo, la scoperta dei trucchi viene in qualche modo ottenuta dalla paura. Lo stato di ansia e di allerta, che non abbandona il lavoratore durante tutta la sua giornata lavorativa, stimola l’immaginazione e la curiosità. Ed è in questo corpo a corpo violento che si sviluppa il sapere operaio; in questo scontro tra attrezzature mostruose e minacciose e operai privi di qualsiasi preparazione o formazione effettiva, costretti dalla situazione ansiogena ad adattarsi il più rapidamente possibile, grazie alla scoperta e alla produzione di conoscenze pragmatiche sullo strumento di lavoro. Non fraintendiamo, i «trucchi» non sono sempre semplici «astuzie»; molto spesso sono il frutto di diversi anni di osservazioni quotidiane. È così che, dopo una serie di incidenti che si sono ripetuti nell’arco di due anni, un operaio scopre la sequenza di variazioni, fluttuazioni e allarmi che portano all’incidente in questione. Non c’è alcun legame logico tra i diversi elementi di questa catena, ma l’operatore rileva i due o tre segnali simultanei o successivi che gli consentono, d’ora in poi, di prevedere l’incidente che si verificherà pochi minuti dopo e di prevenirlo. Allo stesso modo, quando si presenta un’anomalia, un altro operaio ha scoperto una sorta di ricetta per risolverla: diminuire un po’ la pressione qui, aumentare la portata lì, spingere sulla temperatura altrove, chiedere al compagno della postazione vicina di diminuire un altro parametro. Questo sapere non si articola con alcuna conoscenza teorica. È puramente empirico e deriva dall’esperienza e dall’osservazione. I «trucchi» costituiscono un sapere operativo, la cui somma porta a un modus operandi che solo gli operai conoscono veramente. Ma ci sono ancora molte zone d’ombra a cui non sono stati applicati i «trucchi». In ogni caso, la direzione conosce bene l’importanza di questo sapere pratico quando, a seguito di un incidente, chiede agli stessi operai di «mettere a punto una procedura» per evitare che si ripeta. Ciò che rimane fondamentale in questo «sistema» è che non si tratta di semplici trucchi destinati solo a ridurre il carico di lavoro, come si vede in altre situazioni lavorative, ma di conoscenze che fanno funzionare la fabbrica. D’altra parte, la rapidità della produzione di trucchi, cioè la scoperta e l’invenzione di metodi operativi efficaci, la loro articolazione, la loro messa in pratica e il loro campo di validità testimoniano innegabilmente l’impegno degli operai. Un impegno il cui motore principale è ancora, ovviamente, la paura, e che porta alla creazione di connessione con il non-sapere dei dirigenti. In definitiva, lo sfruttamento della paura aumenta la produttività, esercita pressione sull’ordine sociale e stimola il processo di produzione di «ingredienti» indispensabili per il funzionamento dell’azienda. In relazione al lavoro delle centraliniste, abbiamo già dimostrato che quando la sofferenza è utile alla produttività, può essere stimolata dal management. Lo stesso vale per la paura, il cui valore «funzionale» rispetto alla produttività può portare al suo utilizzo come tecnica organizzativa di comando.


Note

[1]  L’ipertiroidismo, infatti, corrisponde a un’iperattività della ghiandola tiroidea. La sintomatologia è dominata da tremore alle estremità, accelerazione del ritmo cardiaco e soprattutto da estremo nervosismo. È quest’ultimo che è stato selezionato con l’aiuto di test come fonte di pluslavoro (maggiore produttività).


***


Christophe Dejours psichiatra e psicoanalista, dirige l’Institut de recherche en psychodynamique du travail. È uno dei principali studiosi delle trasformazioni contemporanee del mondo del lavoro e delle sue patologie. Tra le sue pubblicazioni in italiano: Lavoro vivo (2020), L’ingranaggio siamo noi. Lavoro e banalizzazione dell’ingiustizia sociale (2021), Si può scegliere. Soffrire al lavoro non è una fatalità (2021), Pratica della democrazia (2024). Travail, usure mentale è il suo libro fondamentale.

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