Terapie di classe
- Salvatore Cominu, Giuseppe Molinari
- 5 ore fa
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Un dialogo con Francesca Coin su infedeltà, grandi dimissioni, lavoro e salute mentale

A settembre è stata inaugurata la collana «Infedeli» di DeriveApprodi, diretta da Francesca Coin, con la pubblicazione del primo titolo: Lavoro e salute mentale di Christophe Dejours.
Le finalità e l’impostazione della collana si intrecciano con quelle che abbiamo dato alla sezione «transuenze»: anzitutto l’intenzione di (ri)porre al centro la dinamica soggettiva del lavoro, che riteniamo ancora oggi cruciale per comprendere forme e modalità di una possibile rinnovata azione collettiva, anche in un contesto in cui essa fatica a esprimersi nei luoghi di lavoro.
Per questo siamo contenti di pubblicare questo dialogo, molto ricco e denso di spunti, con Francesca Coin.
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Salvatore Cominu, Giuseppe Molinari: Una parte degli scienziati sociali ha continuato a rimarcare, anche oltre il «secolo del lavoro», la sua rilevanza – secondo i casi - per la formazione soggettiva, la costruzione delle appartenenze o come fattore esplicativo delle disuguaglianze sociali. Più problematico il nesso tra lavoro e conflitto. Anche negli ultimi due decenni vi sono state lotte sul lavoro, in altre regioni del mondo o – in dati settori – anche nei paesi a capitalismo maturo. Tuttavia, è difficile oggi attribuire ai luoghi di lavoro un posto centrale per l’azione collettiva. Perché è importante una collana dedicata al lavoro? Ritieni che questo terreno sia tuttora rilevante per l’organizzazione del punto di vista di parte, di critica e di trasformazione sociale?
Francesca Coin: Credo sia importante parlare di lavoro oggi proprio perché l’azione collettiva non sempre è in grado di esprimersi all’interno dei luoghi di lavoro. Nelle piccole e microimprese, ad esempio, come anche nei luoghi di lavoro fatti di precarietà e disomogeneità contrattuale, la solidarietà è difficile. In casi come questi, la mancanza di lotte non è un indicatore di benessere lavorativo. Si tratta, piuttosto, di contesti in cui il malessere sprofonda nel silenzio a causa della ricattabilità di chi lavora. Purtroppo, in assenza di un vero interesse della politica istituzionale ai salari o alle condizioni di lavoro, troppo spesso c’è ancora chi vive il proprio malessere in condizioni di solitudine. In questo senso discutere di lavoro è importante. Consente di contrastare le narrazioni dominanti, di liberare dal senso di colpa e di costruire un noi.
S.C., G.M.: Nei tuoi saggi il tema dell’infedeltà all’impresa, alla sua logica, all’imperativo della competizione tra pari funzionale agli obiettivi dell’accumulazione, è una componente fondamentale. Le dimissioni volontarie di massa, al centro della tua pubblicazione più conosciuta (fenomeno in parte rientrato, ma rimasto su livelli più alti rispetto alla situazione ex ante) ci dicono della diffusa consapevolezza del rapporto tra qualità della vita e funzionamento delle imprese. Rispetto agli anni immediatamente post-covid, in che modalità si sta dando questa infedeltà?
Non direi che il fenomeno è rientrato. In Italia, dal 2022 a oggi, ci sono stati circa due milioni di dimissioni all’anno. Il dato è costante. I dati più recenti (2025) relativi al Friuli-Venezia Giulia, ad esempio, dicono che nella regione le dimissioni sono il 75% delle cessazioni. Sono tassi altissimi. Quello che è cambiato sono le parole: la formula «grandi dimissioni» è scomparsa nel dibattito pubblico. È subentrato al suo posto un frequente riferimento alla meno eclatante carenza di personale, che si vorrebbe riferire alla difficoltà che le aziende hanno (1 su 2) a trovare personale come conseguenza della crisi demografica. Ma si tratta di fenomeni per molti versi sovrapposti e contigui: l’attuale carenza di personale è più acuta nei settori attraversati da un turnover elevato: sanità, ristorazione, commercio, e poi ancora scuola, servizi alle imprese, lavoro sociale, eccetera. In questi settori, il malcontento è strutturale, e le dimissioni sono endemiche. Questo non deve sorprendere perché parliamo di settori devastati dalla disorganizzazione del lavoro. L’attuale organizzazione del lavoro in questi settori è, a tutti gli effetti, disfunzionale, in ciascun caso per ragioni diverse, come ho provato a mostrare nel libro. Quello che è cambiato rispetto al 2023 è che in Italia hanno ricominciato ad aumentare i licenziamenti, in molti casi nei settori legati all’automotive. L’altra cosa che è cambiata è che sono state introdotte norme per disincentivare le dimissioni, dallo smantellamento del Reddito di Cittadinanza all’introduzione di modalità restrittive di accesso alla Naspi. Questo non solo perché l’infedeltà è percepita dalle aziende come un affronto: in un’economia reputazionale, l’elevato turnover dei dipendenti è un disonore per il brand, ma perché la difficoltà a reperire personale è reale, e se questo nel pubblico viene tollerato perché è funzionale a un progetto di smantellamento e privatizzazione, come avviene nella sanità, nel privato in molti casi è un problema. In questo contesto, il turnover volontario è ancora la prima causa di cessazioni e continua ad avere numeri almeno doppi rispetto ai licenziamenti. È negli Stati Uniti che c’è stata una certa fretta di annunciare la fine delle grandi dimissioni, dopo due anni in cui il turnover ha riguardato circa cinquanta milioni di persone all’anno. Gli Stati uniti, tuttavia, hanno accettato addirittura di aumentare la disoccupazione per indebolire il lavoro. Quando Larry Summers insisteva, nel 2022 e 2023, che bisognava aumentare la disoccupazione per ridurre le dimissioni volontarie, disegnava un programma che poi è stato fatto proprio dallo stesso Presidente della Fed Jerome Powell, che suggeriva che solo una accresciuta disoccupazione avrebbe disincentivato le persone ad andarsene riequilibrando in questo modo i rapporti di forza. Quindi non parlerei di un fenomeno rientrato, bensì di un braccio di ferro che è una delle tante facce della guerra di classe odierna. Il punto di fondo è che il lavoro deve obbedire: i tentativi di irridere questo fenomeno e di contrastarlo vanno in questa unica direzione. Una direzione, fino ad ora, inconcludente.
S.C., G.M.: La collana esordisce con un testo e un autore importanti, la ripubblicazione corredata dall’introduzione alle diverse edizioni di Lavoro e salute mentale di Christophe Dejours. Perché si è iniziato da qui, cosa ci dice l’analisi di Dejours rispetto ad oggi, quali gli aspetti che anticipa?
Quando l'editore Gigi Roggero mi ha proposto di dirigere questa collana, non sapevo se ne sarei stata capace o ne avrei avuto il tempo. Quello che sapevo era che volevo tantissimo che Travail usure mentale di Christophe Dejours fosse disponibile in italiano. E quando ho capito che Gigi condivideva questa direzione, ho pensato che potesse essere una bella avventura. Per me il punto di fondo è che la salute mentale è diventata il punto di caduta di tutte le disfunzioni del sistema capitalistico. In un’epoca in cui la forbice tra la richiesta sempre più incalzante di performance migliori ogni anno va di pari passo a salari e tutele sempre più basse, mentre il costo della vita e gli affitti aumentano e tutti cercano di sopravvivere nel mercato facendo sempre di più, per fare fronte a un lavoro che vale sempre di meno, è inevitabile arrancare. In una delle presentazioni che abbiamo fatto a Vag61 di Bologna su questo tema, qualcuno ha definito la semplice condivisione di queste difficoltà come un massaggio dell’anima. Io credo che la condivisione delle vulnerabilità individuali sia oggi il punto di raccordo della ricomposizione di classe: la roccia sulla quale la coscienza di classe può iniziare a trovare una ricomposizione.
S.C., G.M.: Dejours ha analizzato in tempo reale gli effetti della ristrutturazione organizzativa del lavoro a partire dagli anni Settanta e Ottanta (che dietro etichette accattivanti ha promosso una ri-soggettivazione subalterna dei lavoratori attraverso molteplici dispositivi – indicatori di performance, valutazioni individuali, ingiunzione al commitment, ecc.). Dejours ci parla del deserto sperimentato nei decenni passati dal mondo del lavoro, ma non abdica dalla centralità del «lavoro vivo» e ritiene che sminuirne l’importanza non faccia che rafforzare la sua svalorizzazione politica, laddove occorrerebbe semmai «reincantare il lavoro». Cosa potrebbe significare, oggi?
F.C.: Se capisco bene la domanda, credo che il lavoro vada ripensato totalmente. Il lavoro dovrebbe rispondere ai bisogni sociali e farsi carico della riproduzione sociale e della transizione ecologica, promuovendo trasporti sostenibili, economia circolare, progetti di riforestazione e protezione della biodiversità, riducendo le emissioni di CO2 e questo richiede un cambio di paradigma rispetto a quello odierno. Invece il lavoro oggi è quasi interamente cooptato dal profitto e dalla rendita, in campo immobiliare, finanziario, assicurativo, energetico. In questo contesto valorizzare il lavoro significa pagare le persone, permettere loro di sopravvivere e di pagare un affitto e cure mediche, ma anche ripensare ciò che si fa e perché lo si fa. Il tentativo di reindustrializzazione dal basso dell’ex GKN è uno degli esperimenti più fertili di questo ripensamento. L’inedia istituzionale e i bastoni tra le ruote che sono stati messi pur di ostacolare in ogni modo la riconversione di un sito produttivo dismesso per trasformarlo in un polo produttivo sostenibile gestito in forma cooperativa, dice molto di quanto questo cambio di paradigma sia inviso a chi detiene oggi il potere. L’autoritarismo odierno nasce precisamente per ostacolare ogni progetto di trasformazione sociale. Se l’infedeltà nasce dal tentativo di sopravvivenza di chi non vuole essere complice di questo sistema, è evidente che per proteggerci serve che da questa nascano nuove forme di organizzazione collettiva.
S.C., G.M.: Dal progetto collana e dal libro, si evince come l’interesse non è tanto (o non solo) verso l’analisi dei cambiamenti del mercato del lavoro, ma evidenzia la volontà di indagarne la dinamica soggettiva. Su questo terreno, se si vuole nel gioco tra soggettivazione e assoggettamento dei lavoranti, quali segnali andrebbero colti o esplorati per il loro potenziale critico almeno latente, o per la loro ambivalenza? Vi sono aspetti nei comportamenti soggettivi nel confronto del lavoro che ritieni andrebbero valorizzati?
F.C.: Per me la vita psichica del lavoro contemporaneo è, a tutti gli effetti, il corpo del reato, il sintomo dell’aggressività estrattiva del mercato. Anche per questo per me capire come stanno le persone è importante. C’è una questione empatica, sicuramente, ma c’è anche una questione politica. La frase tu come stai contiene in sé, in primo luogo, il riconoscimento dell’esistenza dell’altra persona. Ti vedo, sento la tua vicinanza e mi interessa sapere come stai. Le persone oggi invece non vengono viste. Siamo assenti agli altri e a noi stessi, spesso, perché una volta terminata la lista di cose da fare ogni giorno, spesso non riusciamo a fare altro. Sentirsi visti, sentire che qualcuno ti vede e che a qualcuno importa come stai, è la conditio sine qua non di ogni alleanza. È anche il grado zero della coscienza di classe. Ci può essere una rivolta senza coscienza di classe, ma non ci può essere trasformazione sociale senza coscienza di classe, e il primo passo della coscienza di classe è vedere la persona accanto a te. C’è stato un tempo in cui si diceva - ad esempio – che gli scritti di Mark Fisher erano politicamente problematici perché si soffermava sulle passioni tristi della nostra epoca. Ho sempre pensato che questa fosse una sciocchezza. È proprio dalla condivisione delle nostre passioni, gioiose o tristi che siano, che si crea un noi. Non c’è noi senza condivisione, e non c’è trasformazione sociale senza noi. Lo so che questa non è una priorità per tutti, ma senza queste condizioni il massimo che vedo sono atteggiamenti rivoluzionari, che durano il tempo di un’azione e poi lasciano dietro di sé lo stesso vuoto che c’era prima.
S.C., G.M.: Siamo in un quadro di conclamato ritorno del «capitalismo politico» nella sua espressione di potenza, guerra, ricentralizzazione autoritaria. Vedi il rischio di un arruolamento del lavoro nella nuova economia di guerra?
Avete ragione, è così. Però esistono anche strumenti di contrasto. Quando i portuali di Genova rifiutano di maneggiare carichi di armi, mettono in campo pratiche di ripudio della guerra. I giuristi che lavorano sull’obiezione di coscienza per sostenere le persone che non vogliono perdere il lavoro né essere complici di un’economia di guerra, mettono in campo strumenti di resistenza. Io credo la maggior parte dell’umanità non voglia questo modello di società futura, bellica e autoritaria. Si tratta di introdurre tutti gli strumenti che abbiamo perché il futuro non rifletta i desideri di pochi oligarchi, ma i sogni e i desideri della maggior parte dell’umanità.
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Francesca Coin, sociologa, si occupa di lavoro e diseguaglianza sociale. Sino al 2022 ha lavorato come Professoressa Associata nel Dipartimento di Sociologia dell’Università di Lancaster, nel Regno Unito. Ora insegna all’Università di Parma. È direttrice della collana di libri sul lavoro «Infedeli» per Derive Approdi, co-direttrice, insieme a Sara Farris, della collana «Feminist» per Edizioni Alegre. Il suo ultimo libro, pubblicato da Einaudi, Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (2023), ha vinto il Premio Alessandro Leogrande (2024) e il Premio Biella Letteratura e Industria (2024), ed è stato tradotto in inglese (Bloomsbury Publishing) e spagnolo (Tercero Incluido Editorial).
Salvatore Cominu svolge da quasi trent'anni attività di ricerca, formazione e consulenza in materia sociale ed economica. Collaboratore dal 1998 del Consorzio Aaster, nel corso degli anni ha partecipato a numerosi progetti di livello locale, nazionale ed internazionale su argomenti molteplici, dalle trasformazioni del lavoro allo sviluppo urbano e territoriale, dall'economia sociale ai problemi dell'azione collettiva. Su questi temi ha pubblicato diversi articoli su riviste e contributi in volumi collettivi. Per DeriveApprodi ha pubblicato contributi in vari volumi. Per Machina cura la sezione «transuenze».
Giuseppe Molinari è dottorando in Lavoro, Sviluppo e innovazione all'Università di Modena e Reggio Emilia. Per DeriveApprodi ha pubblicato, insieme a Loris Narda, Frammenti sulle macchine. Per una critica dell'innovazione capitalistica (2020). È responsabile del coordinamento redazionale di Machina.








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