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Diario della crisi - Industria bellica S.p.A.: come fabbricare la guerra infinita


Pubblichiamo la prima parte di un articolo di Rossana De Simone che entra «nel laboratorio segreto della produzione» degli armamenti. Corroborando l’analisi con dati presi dai più importanti report governativi, l’articolo spiega come è proprio il settore delle armi, nello stretto intreccio tra aziende della difesa e sicurezza e Stati, uno dei pezzi più importanti che sta trainando il tentativo di ricostruire una base industriale, soprattutto negli Stati Uniti, e come questo aspetto influenzi direttamente lo svolgersi della guerra in Ucraina.

Il testo è pubblicato in contemporanea su Effimera e El Salto, tradotto in spagnolo.


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Il 16 agosto 2021, parlando dalla Casa Bianca, il presidente americano Joe Biden si è rivolto al mondo per spiegare il collasso in Afghanistan e la fuga degli americani: «Non rimpiango il ritiro. L'Afghanistan non è negli interessi USA»[1].

Con il suo discorso Biden ha voluto riaffermare che era necessario voltare pagina e pensare alle nuove minacce, a Cina e Russia. Dopo vent’anni di guerra globale, serviti per prendere in mano le redini dell’ordine mondiale e per sostituire l’islam radicale al comunismo come minaccia alla pace mondiale, negli Stati Uniti e nel mondo si è cominciato a discutere delle numerose operazioni militari, che hanno distrutto un paese dopo l’altro, e del declino dell’occidente nell'egemonia globale.

Dei 21mila miliardi di dollari [2] di spese militari effettuate dal 2001 al 2022, che hanno portato alla militarizzazione della politica interna (in nome della sicurezza), 16mila miliardi sono andati alle forze militari (compresi 7200 miliardi per le società private di sicurezza), 3mila miliardi ai programmi per i veterani, 949 miliardi alla sicurezza interna e 732 miliardi alle forze dell’ordine federali. Degli otto generali che hanno comandato le forze americane in Afghanistan – senza mai «vederne» e ancor meno denunciarne il disastro – il generale Joseph F. Dunford Jr, è entrato a far parte del consiglio di amministrazione di Lockheed Martin, il più grande appaltatore del Pentagono, mentre l’attuale Segretario della Difesa Lloyd Austin, già comandante della Combined Joint Task Force, è membro del CdA di Raytheon Technologies, uno dei più grandi appaltatori militari del mondo [3].

Una cosa è certa: la guerra sotto forma di necessità economica fa sicuramente bene ai rendimenti azionari dei maggiori appaltatori della difesa a livello mondiale (Boeing, Raytheon, Lockheed Martin, Northrop Grumman, and General Dynamics) [4].

Il sistema di produzione degli armamenti – sempre più costosi e con un tempo di ricerca e sviluppo sempre in divenire –, unitariamente a quello militare del Pentagono, non è più semplicemente appendice ma parte integrante del meccanismo di produzione e riproduzione capitalistico. A differenza di altri settori, le aziende della difesa e sicurezza, insieme a quelli considerati strategici, hanno sempre un certo grado di controllo governativo considerando che lo Stato è il primo committente che sostiene e finanza l’intero ciclo produttivo di un nuovo prodotto, e che decide sia le cooperazioni intergovernative sia le collaborazioni multinazionali all’interno di un mercato sempre più competitivo e transnazionale.

La funzione anticiclica delle spese militari, come pensata da molti economisti keynesiani, volta cioè a contrastare situazioni di crisi, ha ormai assunto un significato diverso dal momento in cui le crisi cicliche capitalistiche tendono a presentarsi sempre più ravvicinate nel tempo. Analogamente, la crisi pandemica, sebbene abbia evidenziato l’importanza per le imprese dell’aerospazio di avere due comparti separati – uno civile, l’altro militare –per bilanciare le attività dell’uno con l’altro in funzione anticiclica, non è servita a smascherare lo scandalo dei lauti finanziamenti statali per programmi la cui tecnologia proviene dal settore civile. La ricerca e sviluppo a duplice uso, fortemente incentivata dall’amministrazione Clinton [5] nei primi anni ’90 – comprensiva di tutte le tecnologie d’avanguardia come l’intelligenza artificiale, i veicoli/velivoli senza pilota, i big data o le nanotecnologie – viene da tempo sviluppata e prodotta essenzialmente dal settore civile, ma conteggiata ugualmente come fosse tecnologia proprietaria del prescelto general contractor. Se poi si entra nel merito dei bilanci di queste aziende, si può appurare che la maggior parte del denaro speso sul militare va al capitale, differentemente da ciò che accade negli altri tipi di lavoro: solo 15% del prezzo di ogni F-35 viene usato per pagare il costo del lavoro coinvolto nella produzione, fabbricazione e montaggio, mentre l’85% serve per le spese generali [6].

Dopo l’ondata di fusioni e acquisizioni avvenuta nei primi anni ‘90, che hanno rimodellato la base industriale della difesa americana riducendo il numero delle prime contractor e la concorrenza, il rapporto del Pentagono «Consolidation of Defense Industrial Base Poses Risks to National Security» [7] ha analizzato i pericoli di ulteriori consolidamenti tra grandi produttori con dati aggiornati. Risulta infatti che le aziende del settore aerospaziale e difesa si sono ridotte da 51 a 5 (Lockheed Martin, Raytheon Technologies, General Dynamics. Northrop Grumman e Boeing), da 13 a 3 i fornitori di missili tattici, di satelliti da 8 a 4. Negli ultimi trent’anni, la base industriale si sarebbe contratta del 40% mentre sarebbero 15.000 i fornitori a rischio. Secondo gli esperti è necessario frenare la politica delle fusioni tra gli appaltatori per evitare rischi per l’economia e la sicurezza nazionale non solo perché ha significato un rialzo dei prezzi, ma ha portato a lacune nella catena di approvvigionamento e minacciato le capacità produttive. Si sono identificate almeno 300 vulnerabilità in cinque settori che dovranno proteggere le loro catene di approvvigionamento: dai materiali strategici e critici alla microelettronica, dalle batterie ai missili. In seguito anche la pandemia di coronavirus ha provocato interruzioni alle catene di approvvigionamento globale dai semiconduttori ad altri beni e materiali, creando carenze nelle attività di fabbricazione e produzione. Durante la pandemia la Casa Bianca aveva invocato il «Defense Production Act» (legge sulla produzione della difesa) per riutilizzare alcune fabbriche per produrre ventilatori.

Il problema però non è stato tanto la loro capacità produttiva, ma la mancanza di componenti provenienti da più di quattordici paesi diversi (filtri e allarmi, tubi e alimentatori, ecc.).

Una delle iniziative prese dal governo ha riguardato in parte il finanziamento di piccole e medie imprese (PMI) per la produzione di beni come semiconduttori, prodotti biotecnologici e biomedici, energia rinnovabile e accumulo di energia, in parte fornendo crediti all'esportazione alle imprese statunitensi che vendono beni all'estero [8].

Tuttavia per la prima volta, e non per problemi salariali o pensionistici, queste aziende hanno dovuto rallentare la produzione grazie a un parassita e alla paura dei lavoratori. Secondo l’agenzia di stampa internazionale Bloomberg, gli appaltatori della difesa USA hanno mantenuto in funzione la maggior parte degli impianti e hanno chiuso solo per qualche giorno per pulire le strutture. A seguito dello scoppio della crisi per coronavirus, l’Aerospace Industrial Association ha chiesto al Dod di dichiarare l’industria della difesa «infrastruttura critica», in modo che le aziende potessero costringere i propri dipendenti a continuare a lavorare.

E, nonostante il calo del Pil mondiale per via della pandemia e la crisi economica che ha coinvolto interi settori, nel 2020 gli ordini e le consegne di armi non si sono fermati (531 miliardi di dollari con un aumento dell’1,3% rispetto al 2019) anche in presenza di misure restrittive che non hanno consentito la consegna delle armi e, in alcuni casi, il proseguire dei cicli produttivi. Anche la spesa militare globale ha continuato a crescere attestandosi a 1.981 miliardi di dollari, un aumento del 2,6% rispetto al 2019 e del 9,3% rispetto al 2011, confermando il forte potere di pressione delle lobby dell'industria della difesa nei confronti delle istituzioni.

Nel 2022 il governo degli Stati Uniti decide di rafforzare il «Buy American Act» [9], la legislazione sugli investimenti, per consentire di porre il veto a qualsiasi fusione che si ritenga dannosa per la sicurezza nazionale. Il presidente Biden ha infatti espresso la volontà di spezzare il potere dei trust per rigenerare capacità di produzione autentiche in caso di conflitto grave e ad alta intensità. Tuttavia è evidente che non si va verso un percorso di deconsolidamento – visto che sono prevedibili movimenti nei settori cyber, intelligenza artificiale, ipersonico, guerra ibrida, informatica quantistica, armi antisatellite, ecc. – in quanto rimane incontrovertibile che, essendo la difesa guidata dalla tecnologia, gli appaltatori più grandi acquisiranno sempre più società high-tech per accedere alle loro tecnologie.

La preoccupazione del presidente deriva da uno studio del CSIS secondo cui anche negli Stati Uniti l’industria della difesa non è in grado, a breve termine, di aumentare i tassi di produzione.

Un avvertimento in questo senso c’è stato quando, durante una conferenza fra alti funzionari del Pentagono, legislatori statunitensi e massimi dirigenti del settore produttivo, Gregory J. Hayes presidente e direttore di Raytheon Technologies (che insieme a Lockheed Martin, produce i sistemi missilistici Stinger e Javelin) ha dichiarato: «Il problema è che abbiamo consumato così tante scorte nei primi 10 mesi di guerra, che abbiamo sostanzialmente esaurito 13 anni di produzione di Stinger e cinque anni di produzione di Javelin. La domanda è: come faremo a rifornire le scorte?»

Con le attuali capacità l’industria della difesa statunitense impiegherebbe in media 8 anni per sostituire le piattaforme perse e per ricostruire le scorte di missili e munizioni. La decisione da parte della Casa Bianca di ampliare la base industriale è decisiva anche per gli alleati che armano l'Ucraina, e un segno che gli Stati Uniti si preparano ad un possibile ampliamento della guerra.

La richiesta di approvvigionamento di 170 miliardi di dollari del Pentagono per l’anno fiscale 2024 si concentra sulla sostituzione delle munizioni fornite all'Ucraina, e di armi come i missili a lungo raggio che sarebbero necessari in un conflitto con la Cina. Nel documento emesso dal DoD sulla richiesta di bilancio della difesa per l'anno fiscale 2024 viene evidenziato l’enorme e continuo aumento delle spese militari: dai 781,9 miliardi di dollari nel 2022 ai 858,6 miliardi di dollari nel 2023 e 886,3 miliardi di dollari nel 2024 [10]. Secondo i dati del SIPRI (Istituto di studi sulla Pace di Stoccolma) la spesa mondiale è in continuo aumento dal 2015 e ha raggiunto il massimo storico nel 2021 con 2.113 miliardi (pari al 2,2% del Pil globale). Stati Uniti, Cina (293 miliardi di dollari, pari al 14% della spesa globale in crescita del 4,7% rispetto al 2020 e del 72% rispetto al 2012), India (nel 2021 ha speso 76,6 miliardi di dollari in crescita del 33% rispetto al 2012), Regno Unito (con 68,4 miliardi, in crescita del 3% rispetto al 2020) e Russia (nel 2021 65,9 miliardi, in crescita del 2,9% rispetto al 2020) sono i Paesi che occupano le prime cinque posizioni in classifica e pesano per il 62% del totale delle spese militari registrate nel 2021. Per quanto riguarda l’Europa, la spesa militare continentale nel suo complesso è ammontata a 418 miliardi di dollari nel 2021, registrando una crescita del 3% rispetto all’anno precedente e del 19% rispetto al 2012.

Una delle due caratteristiche dell’industria della difesa dell'Unione europea è quella di avere una struttura diversificata che comprende grandi multinazionali e operatori di piccole e medie dimensioni. L’altra riguarda la domanda che proviene quasi esclusivamente dai governi nazionali che controllano le acquisizioni di prodotti e tecnologie e le relative esportazioni. Le differenze nazionali in termini di requisiti, spesa pubblica e investimenti, non possono che frammentare il mercato europeo della difesa. Stando all'associazione che raccoglie le industrie europee dell'aerospazio, della sicurezza e della difesa (ASD) in rappresentanza di circa 3.000 aziende, al 2021 vi erano 3,57 milioni di persone occupate tra diretti (942.000), indiretti (966.000) e indotti (oltre 1,66 milioni). Il volume d’affari del comparto ammontava a 578 miliardi euro, di cui 241 miliardi diretti, 148 miliardi indiretti e 189 miliardi indotti. Infine gli investimenti complessivi in ricerca e sviluppo sono stati di 18,5 miliardi di euro.

Tuttavia la necessità di condividere le risorse per raggiungere un'economia di scala, soprattutto nei grandi programmi di sviluppo che non possono che essere condotti solo su base multilaterale, ha spinto le industrie a divenire sempre più transnazionali e integrate nella catena di produzione del valore globale.

Politica sempre ostacolata dagli USA. Se programmi collaborativi come Tornado ed Eurofighter Typhoon sono stati un successo europeo, il caccia statunitense F-35 è stato concepito anzitutto per dividere la capacità competitive e collaborative europee, oltre che per condividere i costi di un progetto costosissimo, garantirsi il controllo tecnologico, una alleanza strategica e un business garantito.

Senza dimenticare che tra gli azionisti delle industrie francesi Dassault Aviation e Thales, della franco-tedesca Airbus, dell’italiana Leonardo e della spagnola Indra Sistemas, oltre allo Stato vi sono diversi fondi d’investimento statunitensi: BlackRock, Vanguard, Fidelity Investments, Wellington Management e Capital Group. Ciò non significa rendere il mercato della difesa meno competitivo.

Ogni considerazione sulla posizione attuale dell’Unione europea in politica estera e di difesa deve partire dal vertice NATO di Madrid (2022) in cui si è disposta l’estensione dell’area d’interesse dell’Alleanza alla Cina e all’Indo-Pacifico, cioè oltre quel Nord Atlantico cui fa riferimento il Trattato che nel 1949 diede vita alla NATO: «La NATO è l’alleanza militare più potente del mondo ed è esclusivamente difensiva». Di fatto, con la dissoluzione dell’Urss e del Patto di Varsavia, la NATO ha assunto il compito di stabilizzazione politico-militare globale sulla base dell’articolo 4 (intervento in Bosnia del 1995), e dell’articolo 5 che considera l’attacco diretto a un paese membro come un attacco a tutti.

Dunque la cooperazione UE-NATO è un pilastro fondamentale della stabilità e della sicurezza europea [11].

Nella Dichiarazione congiunta UE-NATO del gennaio 2023 si è ribadito che «questo è un momento chiave per la sicurezza e la stabilità euro-atlantiche che dimostra più che mai l'importanza del legame transatlantico, richiedendo una più stretta cooperazione UE-NATO» e dunque è necessario continuare a sostenere «pienamente il diritto intrinseco dell'Ucraina all'autodifesa e alla scelta del proprio destino».

Nel 2021 il Consiglio europeo ha istituito uno strumento per la pace, fuori bilancio, per finanziare tutte le azioni in materia militare e di difesa, con l'obiettivo di prevenire i conflitti, mantenere la pace e rafforzare la sicurezza e la stabilità internazionali. Ad oggi l’importo totale del sostegno fornito alle forze armate ucraine è stato di 3,6 miliardi di euro, ma si sta già decidendo come utilizzare altri 2 miliardi di cui 1 servirebbe per inviare proiettili dalle scorte esistenti, mentre l’altro per sostenere la capacità di produzione industriale complessiva o per procurarsi munizioni da Paesi terzi.

Un anno fa Josep Borrell, l’alto rappresentante dell'UE per Affari esteri e sicurezza, insieme al segretario generale della NATO Jens Stoltenberg, aveva dichiarato che le scorte militari della maggior parte degli Stati membri della NATO europea si erano in parte esaurite, per cui bisognava lavorare con l'industria per aumentare la produzione di armi e munizioni.

Con queste dichiarazioni si è confermato non solo il consolidamento dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Europea e il rilancio del ruolo della Nato, ma anche l’incapacità dell’Europa di svolgere un ruolo autonomo nello scontro tra Usa, Russia e Cina, sebbene Stati Uniti e Russia l’avessero tagliata fuori dai colloqui sull’Ucraina nel gennaio 2022. Incapacità che emerge con forza se si considera che a Bruxelles il dibattito sulla politica di difesa e sicurezza verte tutto sul ruolo delle industrie di settore da incentivare con aumenti del budget, e ponendo come esigenza urgente lo sviluppo delle capacità e tecnologie necessarie a operare nel nuovo contesto di guerra. Così non si capisce bene cosa voglia dire chiedere un «consolidamento ove opportuno» [12] quando i ministri della difesa francesi, spagnoli, tedeschi e italiani affermano di preferire programmi di cooperazione al consolidamento e la tendenza è quella di andare verso una maggiore autonomia degli Stati membri, e dunque favorire le industrie nazionali.

Nel dicembre 2022, sempre Josep Borrell, ha tracciato gli aspetti positivi e negativi sullo stato dell’Europa in materia di sicurezza e difesa riprendendo i risultati degli studi pubblicati dall’Agenzia per la difesa, dal Parlamento e dal Consiglio europeo. Nel report «2022 Coordinated Annual Review on Defence» (CARD) [13] si denuncia che meno del 20% di tutti gli investimenti nei programmi di difesa è effettuato in cooperazione: la cooperazione in materia di difesa rimane l'eccezione, invece di essere la regola. Con il commissario Thierry Breton, commissario europeo per l'industria, al fine di aiutare l'industria ad aumentare la sua capacità di produzione, Borrell ha creato un nuovo strumento chiamato EDIRPA per agevolare e incentivare gli appalti congiunti con 500 milioni di euro per il periodo 2022-2024: «mentre la guerra infuria alle frontiere dell'Europa, rispondiamo all'appello dei capi di Stato dell'UE presentando oggi un nuovo strumento per sostenere, a livello europeo, l'acquisizione congiunta di armi. Oltre a contribuire a ricostituire parte delle scorte a seguito del trasferimento di armi all'Ucraina, proponiamo un incentivo mediante il bilancio dell'UE per indurre gli Stati membri ad acquistare insieme». E, sempre per promuovere la cooperazione in materia di difesa, il Fondo europeo per la difesa (FED) dispone di 8 miliardi [14]. La Commissione ha destinato 1,2 miliardi di euro a un primo gruppo di 61 progetti (l’Italia è presente con imprese, università e istituti di ricerca in 33 progetti) [15] per la ricerca e sviluppo di velivoli da combattimento, veicoli corazzati e navi, tecnologie dello spazio, informatica, cloud militare o intelligenza artificiale. Sostanzialmente, se saranno attuati tutti gli aumenti di spesa annunciati, la spesa totale dell'UE per la difesa aumenterà di altri 70 miliardi di euro entro il 2025.

Per concludere è fondamentale citare l’istituzione nel 2015 di un Gruppo di personalità sulla ricerca nella difesa (Group of Personalities on Defence Research, GoP) che includeva, oltre al capo della politica estera dell'UE Federica Mogherini, gli amministratori delegati di Indra, MBDA, Saab, Airbus, BAE Systems, Finmeccanica e due membri rappresentanti istituti di ricerca privati che si occupavano di ricerca militare (TNO e Fraunhofer-Gesellschaft). L’assenza assoluta di qualsiasi rappresentante della società civile e del mondo accademico fa pensare che si sia voluto creare una lobby in grado di influenzare non solo i processi politici dell'UE ma anche le decisioni sulle priorità di finanziamento [16].

Ed è semplicemente sconcertante leggere alcuni punti presenti nella Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 202317: «dal 2017 sono stati avviati complessivamente 61 progetti PESCO, nessuno dei quali ha ottenuto risultati tangibili» e che, «sebbene l'ambizione dell'UE di diventare un abile attore della sicurezza risalga a oltre 20 anni fa, i risultati in termini di capacità, interoperabilità e cooperazione efficace sotto il profilo dei costi restano piuttosto limitati». Inoltre si può rilevare l’ipocrisia contenuta nella «Posizione comune del 2008/944PESC118 su norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari» che definisce otto criteri comuni (norme minime) che contiene: il vincolo circa «l’esportazione di tecnologia e attrezzature militari al rispetto dei diritti umani e del diritto umanitario internazionale da parte del paese destinatario». E, al punto sulla situazione interna del paese destinatario: «gli Stati membri rifiutano licenze di esportazione di tecnologia o attrezzature militari che provochino o prolunghino conflitti armati o aggravino tensioni o conflitti in corso nel paese di destinazione finale».




Note

[4] https://theintercept.com/2021/08/16/afghanistan-war-defense-stocks/

[7] DOD Report: Consolidation of Defense Industrial Base Poses Risks to National Security:

https://media.defense.gov/2022/Feb/15/2002939087/-1/-1/1/STATE-OF-COMPETITION-WITHIN-THE-DEFENSE-INDUSTRIAL-BASE.PDF

[8] https://www.csis.org/analysis/takeaways-president-bidens-supply-chain-plan-2022

[15] Le iniziative dell'UE in materia di politica di sicurezza e difesa comune:

[16] https://eda.europa.eu/news-and-events/news/2015/06/18/high-level-group-of-personalities-on-defence-research-issues-statement

[17] Risoluzione del Parlamento europeo del 18 gennaio 2023 sull'attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune: https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0010_IT.html

[18] Posizione comune 2008/944/PESC:

Modifiche apportate nel 2019:

https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:02008E0944-20190917&from=EN



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Rossana De Simone, delegata sindacale CUB ha partecipato alle lotte in fabbrica all'Aeronautica Macchi di Varese per la riconversione al civile della produzione. Redattrice per PeaceLink ha contribuito con altri alla stesura dei libri «Se dici guerra...Basi militari, tecnologie e profitti» e «Frammenti sulla guerra. Industria e neocolonialismo in un mondo multipolare» per Kappa Vu editore. Infine «Embargo militare contro Israele. Dossier a cura di BDS Italia».

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