top of page

Il sogno interrotto della global city

Milano e l’ingiustizia spaziale


Betsi Brandfass


Con questo contributo di decostruzione argomentata del «Modello Milano», da anni presentato come benchmark dello sviluppo urbano nel nostro paese, inauguriamo il cantiere della rubrica Transuenze dedicato alle trasformazioni economiche e sociali dei territori. Nel presentare questo percorso (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/pensare-il-transito) avevamo richiamato la necessità di un lavoro d’inchiesta, tanto nelle metropoli quanto negli spazi intermedi delle città diffuse, nella provincia industriale e terziaria in cui l’urbano si distende e compenetra, stressando l’intreccio tra produzione materiale, società, rappresentazioni e conflitto. In questo articolo, già pubblicato sulla rivista in lingua spagnola Critica Urbana (https://criticaurbana.com/) e qui riproposto in versione più estesa, si pongono in luce i tratti ricorrenti dei processi di accumulazione/estrazione delle città globali, sottratti all’edificante immagine di una crescita basata sul matching naturale tra risorse localizzate e movimenti dei capitali. Il rinascimento milanese ha il suo presupposto nel convergere di interessi ben delineati, con al centro le nuove élite che hanno sostituito i vecchi poteri e le dinastie industriali, in grado di capitalizzare i trasferimenti dello Stato. L’autrice, Lucia Tozzi, è giornalista e studiosa indipendente delle politiche urbane. Ha collaborato e scritto per Il manifesto, La stampa, Domus, Il giornale dell’architettura, Arquine, Architectural Design, Napoli Monitor, ha fatto parte delle redazioni di Abitare e Alfabeta2, ed è editor cultura per Zero edizioni. Ha pubblicato tra le altre cose «City Killers. Per una critica del turismo» (Libria 2020) e «Dopo il turismo» (Nottetempo 2020).



La pandemia ha avuto il pregio di mostrarci – per un periodo di tempo limitato e su porzioni consistenti della terra, ma non sul 100% – l’aspetto materiale che potrebbe assumere l’azzeramento dell’ipercinesi imposta dalla globalizzazione. A un certo punto è diventato quasi impossibile muoversi con qualsiasi mezzo di trasporto, gli esseri umani dovevano stare fermi. Per la loro sopravvivenza, però, le merci dovevano essere spostate. Una situazione che ha reso visibile quello che Saskia Sassen dice da anni sulle città globali, ma che è sempre rimasto leggermente in ombra nella divulgazione mediatica perché meno spendibile rispetto al resto del suo discorso: le città globali non sono fatte solo di flussi e di simboli, non sono rappresentazioni omologate di poteri egemoni e diffusi, ma sono materialmente ancorate al territorio su cui insistono, da cui – è la loro principale funzione – estraggono con ogni mezzo risorse naturali e umane.

Durante il Covid le élite estrattive hanno dovuto interrompere il loro movimento continuo, ed è emerso che l’unico moto necessario, oltre a quello degli addetti alla cura, era quello di chi era legato alla produzione e alla distribuzione delle merci: rider, cassiere del supermercato, operatori della logistica. «Gli invisibili sono diventati visibili, e la loro funzione sociale ha cominciato a essere riconosciuta» dice l’artista e rider Lupo Borgonovo in Riders not Heroes, un documentario prodotto da 2050+ di Ippolito Pestellini e -orama di Davide Rapp sull’economia delle piattaforme e il gig-labor a Milano. Questo assurdo scenario urbano fantasma ha posto in evidenza l’esercito dei lavoratori necessari indispensabili a tenere in piedi, emergenza o meno, le città globali o quasi globali, ma anche la brutalità della funzione puramente estrattiva di queste metropoli.

Le retoriche politico-mediatiche hanno chiamato questi lavoratori eroi, ma a poco a poco è diventato palese, anche per i più ignari, che lavorano sotto ricatto, senza protezione alcuna, vittime di nuove forme di caporalato. E che lo sfruttamento selvaggio a cui sono sottoposti non è un effetto marginale, ma un elemento costitutivo del modello urbano della globalizzazione.

Il mondo globalizzato ha avuto bisogno, tra le altre cose, di rompere l’ordinamento spaziale interno agli Stati, di riconfigurare i circuiti internazionali intorno a nuclei spaziali urbani o distretti produttivi che concentrassero al loro interno le risorse che prima erano distribuite in modo più uniforme sui territori nazionali. Saskia Sassen ha descritto in mille modi questo processo di addensamento nelle città globali, come la costruzione da parte delle multinazionali di complesse reti di intermediari appartenenti al mondo della finanza, dell’informazione, account, studi legali, che permettono alla corporation di acquisire tutte le conoscenze, le informazioni, i mezzi per estrarre le risorse del paese. Per comprare terra, fertile o edificabile, per appropriarsi delle ricchezze locali, materie prime, acqua, foresta (per esempio in Africa o Sud America), ma anche per sfruttare al meglio i lavoratori locali, per monopolizzare l’industria turistica locale (per esempio nei paesi mediterranei), per privatizzare i servizi come acqua, trasporti, energia, sanità, formazione.

Per fare questo naturalmente i grandi capitali hanno bisogno di trovare un’ampia disponibilità nelle città, e scelgono di investire su quelle che sono in grado di dimostrare di essere l’oggetto privilegiato dei finanziamenti pubblici. I privati non si fidano affatto dei privati, infatti. Non basta, come dice la favoletta, che tanti creativi si ritrovino a interagire in una amena città fondando tante start-up, alimentando la club culture e un diffuso clima di tolleranza per indurre le imprese a rischiare i propri soldi. Non basta che i sindaci e i capetti locali pieghino leggi e tasse ai desideri degli investitori. È necessaria la garanzia che i soldi pubblici atterrino in quel posto e non altrove, perché la gerarchizzazione del territorio è funzionale a una maggiore stabilità e a una rendita più alta.


Si è trattato di un passaggio epocale ben preciso, come spiega in modo chiarissimo Neil Brenner in Stato, spazio, urbanizzazione (Guerini, 2016): «Rispetto allo Stato nazionale improntato su una politica di welfare keynesiano, con il suo progetto di distribuzione equa dell’industria, della popolazione e delle infrastrutture sui territori nazionali, gli Stati glocalizzati cercano di differenziare lo spazio politico-economico nazionale attraverso una ri-concentrazione delle capacità economiche in centri di crescita strategici, urbani e regionali […]. Questi spazi sub-nazionali vengono posizionati all’interno di circuiti sovra-nazionali (europei o globali) di attività economica». 

Fino agli anni Settanta il modello keynesiano, praticabile all’interno dei confini statali, mirava a costruire uno sviluppo egualitario, in grado di distribuire risorse e servizi sull’intero territorio. La svolta neoliberista verso un’economia glocal, dove merci e capitali possono circolare liberamente, implica invece una strategia di sviluppo diseguale, fondata sulla competizione tra città e distretti produttivi sul mercato globale, sulla gestione imprenditoriale di questi spazi-enclave e sulla subordinazione gerarchica dei territori periferici, sul loro sfruttamento intensivo. Il meccanismo impone la riproduzione scalare dei divari territoriali, dal grande al piccolo: tra paesi egemoni ed egemonizzati, tra regioni ricche e povere al loro interno, tra centri e periferie di queste regioni urbanizzate.

La storia di Milano dell’ultimo decennio illustra in modo esemplare il tentativo di costruire una città globale, la modalità vampiresca attivata da questo meccanismo inesorabile nei confronti del territorio, e la contestuale costruzione della retorica del modello Milano. Una retorica tossica, fondamentale per oscurare le diseguaglianze territoriali attraverso un racconto fondato sul puro successo, sulla positività.

Milano è sempre stata una città ricca, ma non ha mai avuto il primato di Londra o Parigi sul territorio nazionale. Non solo Roma, in quanto capitale, ha storicamente mantenuto funzioni e poteri cruciali, ma molte altre città italiane grandi e piccole, al nord ma anche al centro sud, hanno mantenuto un ruolo importante sul piano della produzione industriale, della ricerca, della ricettività turistica, del prestigio culturale, e – cosa che ora sembra quasi impossibile a dirsi – sono state persino più appetibili sul fronte del mercato immobiliare. All’interno della stessa regione Lombardia Milano guidava, ma con un distacco non fortissimo dal ricco e interconnesso territorio circostante.

La sua storia nell’ultimo mezzo secolo è tutt’altro che una lineare e placida ascesa verso l’egemonia. Dopo il periodo d’oro dei «Trenta gloriosi», in cui era cresciuta enormemente sotto il profilo culturale e produttivo, il conflitto sociale esplose qui più che altrove e la repressione la rese la capitale della tensione negli anni della crisi e del terrorismo. Negli anni Ottanta seguì per reazione il suo periodo più euforico, tramandato ai posteri come «la Milano da bere», in cui al riassetto ideologico, all’avvento del neoliberismo e del postmoderno corrispose per la prima volta un’immagine allegra, vitale, di una città che aveva sempre sofferto di una percezione un po’ grigia e spenta, all’esterno come all’interno. Furono gli anni dell’identificazione con la moda e la movida, cui seguì il decennio nero, punitivo, di Mani Pulite: una tempesta giudiziaria che travolse l’intero mondo imprenditoriale e politico italiano e il sistema corrotto che li legava, ma il cui epicentro indiscusso era Milano. Nel nuovo millennio due giunte di centrodestra, guidate dai sindaci Albertini e Moratti, tentarono in ogni modo di rilanciare una Milano grandiosa, arrembante, puntando soprattutto su nuovi progetti immobiliari che non avevano più l’aspetto rustico delle vecchie speculazioni da palazzinari, bensì l’immagine glamour dei rendering di archistar come Renzo Piano e Norman Foster prodotti dal nuovo real estate finanziarizzato. A un’immensa area a sud-est, Santa Giulia-Rogoredo, e all’ancora più vasta area di Sesto San Giovanni a nord, fu affidata la speranza della rinascita milanese, e invece entrambe le operazioni fallirono così miseramente che la città rischiò, alla vigilia della grande crisi del 2008, il peggior tracollo della sua storia.

La vittoria della gara per l’EXPO 2015 fu la salvezza. E non, come dice la vulgata, perché l’EXPO abbia attirato investimenti privati, ma perché ha permesso di convogliare su Milano tutti gli investimenti pubblici che nel frattempo venivano tagliati senza pietà alle altre città italiane, per via della crisi e delle successive politiche di austerity.

L’evento in sé ha richiesto quasi 2 miliardi e mezzo di finanziamento pubblico (ma i ricavi netti, a dispetto delle dichiarazioni trionfali del sindaco Sala, ex dirigente di EXPO, ammontano a 800 milioni di euro), e le opere infrastrutturali che in assenza dell’evento sarebbero rimaste sulla carta richiesero almeno altri 10 miliardi di euro, come testimoniano le pubblicazioni documentatissime del collettivo offtopic.lab [1].

Fino all’inaugurazione, e anzi fino all’autunno, a quattro mesi dall’apertura, l’evento possedeva tutte le caratteristiche di un flop. Pochi visitatori, ristoranti vuoti dentro il recinto ma anche in città (campeggiavano scritte «locale chiuso per EXPO»), vuoto di contenuti, lo scontento serpeggiante tra i moltissimi lavoratori e professionisti che da anni aspettavano un coinvolgimento nella costruzione e gestione dell’evento ma si erano ritrovati a mani vuote. Pochissimi avevano lavorato, ancora meno potevano dire di avere guadagnato qualcosa.

Ma quella fu l’occasione in cui prese consistenza il meccanismo mediatico fondamentale del modello Milano: l’occupazione militare e commerciale dei media. I soldi che non erano stati redistribuiti tra la popolazione, tra architetti, designer, ricercatori, pubblicitari, gestori di eventi, furono investiti nella stampa nazionale (che però si era già cooptata da sola, nella speranza di prendere qualche briciola in più degli altri) e soprattutto in quella internazionale. Non solo per fare propaganda positiva, ma soprattutto per censurare qualsiasi critica. Chiunque tentasse di descrivere l’oggettivo deserto di idee e persone dell’EXPO veniva tacitato come gufo, pessimista. La propaganda riuscì a ribaltare la situazione, attirando milioni di visitatori nelle ultime settimane di apertura, e soprattutto alimentando l’idea del successo totale della manifestazione.

Quello che ha funzionato per l’EXPO, si è detto poi, andrà bene anche per Milano: e così è stato. Appena chiuso l’evento, Sala è diventato sindaco, e ha portato in Comune quella stessa strategia di comunicazione sul filo del sentimento, quella che Anne-Cécile Robert, in un libro di notevole lucidità, ha chiamato «la strategia dell’emozione» [2]. Si tratta di una forma di depoliticizzazione dello spazio politico di grandissima efficacia, ma ampiamente sottovalutata, che consiste nell’invocare in qualsiasi contesto la sfera emotiva, in modo tale che sia la rabbia o l’empatia, la commozione o l’orgoglio a mediare l’interpretazione dei fatti, ostacolando la comprensione razionale o l’analisi critica della realtà. Nel contesto geopolitico internazionale, la strategia delle emozioni è utilizzata per oscurare le contraddizioni e le complessità intrinseche a ogni conflitto: politici e media enfatizzano la sofferenza di segmenti prescelti di popolazione – reificandoli in vittime da compatire – e la violenza di alcuni leader – carnefici da odiare – precipitando i fatti, gli interessi economici, gli equilibri politici, gli atti giudiziari, i processi sociali in una dimensione distante e inintelligibile. Nel quadro delle politiche urbane, sempre più mischiate, o addirittura assimilate, a strategie di marketing, la strategia delle emozioni serve a cancellare i conflitti e le diseguaglianze, e a manipolare l’opinione pubblica trasformando le zucche – decisioni che concentrano la ricchezza nelle mani dei poteri forti – in carrozze – azioni democratiche che avvantaggiano l’intera città.

Così, dopo avere costruito un incomprensibile orgoglio per avere ospitato una grossa fiera di paese, dopo avere mobilitato migliaia di volontari illusi di scambiare il proprio contributo gratuito con una «visibilità» che poi curiosamente non si è tradotta in posti di lavoro, Sala è andato avanti con la creazione di una retorica che ha costantemente associato un sentimento di empatia e felicità pura alle più sordide operazioni urbanistiche, alla turistificazione a tappe forzate della città, alla mercificazione della cultura, alla privatizzazione dei servizi.

In quattro anni il Comune ha avviato operazioni immobiliari gigantesche con oneri di urbanizzazione risibili e indici edificatori altissimi, su terreni pubblici e privati. Spinte dai bassi costi, grandi società immobiliari, italiane e straniere (società cinesi, australiane, statunitensi, del Qatar, dell’Arabia Saudita hanno in mano quasi un decimo del territorio comunale) si accingono a «rigenerare» – cioè a costruire soprattutto case di lusso e torri di uffici, con qualche funzione mista – le aree pubbliche degli ex-Scali Ferroviari per più di un milione di metri quadri, le aree delle ex-caserme, a trasformare il bellissimo e capientissimo stadio San Siro in uno stadio di lusso-centro commerciale circondato ancora da case di lusso, e l’area di Santa Giulia fallita 10 anni fa. E il trasferimento, già approvato, degli istituti universitari scientifici e medici localizzati in uno dei quartieri più pregiati di Milano, Città Studi, verso i comuni di cinta Sesto San Giovanni (area ex-Falck) e Rho-Pero (area ex-EXPO) ha ancora lo scopo di alimentare la filiera del real estate, con il pretesto di fondare grandi poli scientifici e tecnologici.

Abitanti, lavoratori e studenti non ricevono palesemente nessun vantaggio diretto o indiretto da questo genere di trasformazioni urbane: la ricchezza che ne deriva si concentra nelle mani di pochi e gli spazi realmente pubblici sono pochi, spesso escludenti. I valori immobiliari crescono, ma non viene adottata nessuna politica (fiscale, edilizia, di rent control) per contrastare l’espulsione dei ceti fragili dalla città. In una città che conta più di 10.000 famiglie in lista d’attesa per un alloggio, il bilancio del 2019 allocava solo 12,8 milioni di euro per «la riduzione del disagio abitativo» [3], e l’unica politica abitativa sbandierata dal comune è un Social Housing mal regolato, in grado tutt’al più di sistemare qualche decina di famiglie appartenenti al ceto medio ogni anno. Spettatori passivi di decisioni che influiscono in maniera radicale sulla loro vita urbana (anche quando vengono coinvolti in pratiche di urbanistica «partecipata», una specie di triste farsa utilizzata per sedare ogni conflitto sul nascere), sono però considerati materia viva da cui estrarre valore: si parla comunemente dello spostamento di migliaia di studenti, di malati, di lavoratori come di un «asset» per valorizzare aree periferiche.

Le diseguaglianze economiche sono forti non solo tra aree centrali e periferiche, tra élite e popolo invisibile, ma anche all’interno di ceti sociali che vengono rappresentati come omogenei (classe creativa e professionisti) e che sono in realtà divisi tra una percentuale ristrettissima che effettivamente guadagna e una maggioranza che lavora in regime precario e semigratuito (una ricerca recente di ACTA stimava il reddito medio annuo di un lavoratore della cultura in 15.000 euro, cifra che non permette di affittare un appartamento dignitoso in città).

E la cosa grave è che queste diseguaglianze sono prodotte nella città che dal 2000 al 2016 ha aumentato la propria quota sul PIL italiano del 17,7% [4], unica nello scenario italiano ma anche rispetto al proprio hinterland, oggi in sofferenza. L’Italia ha ridotto drasticamente il finanziamento pubblico agli enti locali, e secondo il rapporto Svimez 2019 sull’economia del Mezzogiorno ha tagliato dell’8,6% la spesa al Sud nel decennio 2008-2018, mentre al Nord è aumentata dell’1,4% [5].

La spesa procapite per opere pubbliche al centro-nord nel 2018 è stata di 278 euro, al sud (che ne ha infinitamente più bisogno) di 102 euro. E l’accumulo di nuovi grandi eventi come le Olimpiadi invernali 2026 è la scusa per continuare su questa linea di accumulazione.

Uno scenario così divergente (e i divari sono anche più drastici se si guarda a Milano nei confronti del territorio circostante) ha conseguenze durevoli sui luoghi, e soprattutto sulle migrazioni. Le regioni povere perdono popolazione, ma Milano non offre le opportunità che promette.

Forse la chiave migliore per capire a quale punto il Modello Milano – ora messo a dura prova dalla pessima gestione della pandemia – sia il discutibile prodotto di politiche economiche glocal che implicano un forte intervento statale, e di un progetto di comunicazione teso contemporaneamente all’attrazione di un pubblico globale e alla manipolazione della cittadinanza locale, è il progetto MIND (Milano Innovation District) sui terreni ex EXPO. La legacy ufficiale del grande evento prevedeva un grande parco, ma il grosso debito contratto dalla società AREXPO (di proprietà del Ministero delle finanze, Regione Lombardia e Comune di Milano) per l’acquisto dell’area ha portato prevedibilmente alla ricerca di una valorizzazione più classica, benché non facile per via della pessima ubicazione dell’area. Uffici e case di lusso non avrebbero avuto mercato in un luogo così brutto e lontano dal centro, così nasce l’idea di un grande polo per la ricerca scientifica e tecnologica. Appaltato allo sviluppatore australiano Lendlease, e affidato il masterplan a Carlo Ratti, comincia la grande narrazione della smart city, per addensare energie e soldi intorno a un nuovo e opaco centro di ricerca (Human Technopole), il nuovo ospedale Galeazzi, il polo scientifico dell’Università Statale di Milano, e la Fondazione Triulza. Rendering che affiancano chiari e moderni edifici a paesaggi alberati e placidi specchi d’acqua, affollati di persone rilassatissime e multiculturali che passeggiano o bevono un drink e mezzi rigorosamente elettrici e autoguidati delineano il pittoresco futuro del successo milanese, una provinciale derivazione del sogno della Silicon Valley. Le immagini e i mirabolanti racconti trasmessi acriticamente dai media sono il braccio armato di quello che in un recente saggio Ugo Rossi e Sami Moisio hanno chiamato lo «start-up state», l’intreccio tra il cosiddetto capitalismo della conoscenza e lo stato imprenditore: «Lo Start-up State funziona attraverso la costruzione materiale e simbolica di progetti visibili e altamente mediatizzati che idealmente dovrebbero rappresentare un grande cambiamento culturale: l’imprenditorializzazione» [6], e agisce come regolatore, investitore, mediatore, creando le condizioni perché in un dato territorio si concentrino le risorse per una fioritura imprenditoriale. Nel caso di MIND, mettendo non solo (non ancora) direttamente molti soldi, ma facendo convergere poteri, istituzioni, reti strategiche nel progetto.

Oltre all’ingiustizia strutturale di una simile costruzione, il Covid ha già in qualche modo rivelato la fragilità economica e sociale di questa strategia politica. Nonostante le decine di ridicoli video promozionali con persone famose che dovrebbero testimoniare la vitalità di una città multiforme, tollerante, vibrante, per mezzo di slogan demenziali, dal tristemente famoso «Milano non si ferma» che incoraggiava le persone a continuare la vita «normale» durante l’epidemia all’ultimo «Milano è sempre quella, perché non è mai la stessa», le previsioni parlano di una città svuotata, spettrale, senza lavoro e senza studenti nei prossimi anni. Un danno alla reputation e rischia di saltare tutto.

Note [1] La prima in ordine di tempo è EXIT EXPO 2015. Come uscire da Expo e vivere felici, del 2009, seguita nel 2015 stesso da expopolis. Il grande gioco di Milano 2015, pubblicata durante EXPO2015, e da molti articoli sulle conseguenze dell’evento sulla città sul sito di offtopic.lab. L’ultimo pubblicato, che analizza il bilancio di chiusura dell’EXPO pubblicato nel 2020, è https://www.offtopiclab.org/bilancio-expo-2015-quando-la-matematica-diventa-unopinione/#more-6740. [2] Anne-Cécile Robert, La strategia dell’emozione, Elèuthera 2019. [3] Alessandro Maggioni, Sulla politica della casa e la città tante parole e pochi fatti, Vita, 21/12/2019, http://www.vita.it/it/article/2019/12/21/sulla-politica-per-la-casa-e-la-citta-tante-parole-e-pochi-fatti/153677/?fbclid=IwAR1I3nqqg87FW5BEefRvM-7XnXoTzq-qfSFpQ_QW2eR035uKkUC55IPcuUQ [4] Roberto Camagni, Il successo recente di Milano, relazione alla Camera di Commercio, 30/1/2020 https://www.milomb.camcom.it/documents/10157/41875763/prezzi-immobili-2-2019-intervento-camagni-30-01-2020.pdf/f2e9662f-7623-4fab-885d-3494e3bd7d61 [5] http://lnx.svimez.info/svimez/wp-content/uploads/2019/07/2019_08_01_anticipazioni_com.pdf [6] Sami Moisio, Ugo Rossi, The start-up state: Governing urbanised capitalism, in Environment and planning A: Economy and Space, 52 (3) 2020, p. 532-52


bottom of page