Hype, ovvero l'economia della truffa
- Lorenzo Mizzau
- 30 mag
- Tempo di lettura: 18 min
Sulla macchina della colpa neoliberale

Sin dalla nascita di Machina, transuenze si è interrogato con vari articoli sulla fine del neoliberalismo o, per meglio dire, sulla rottura dell'egemonia neoliberale.
Riprendiamo questo programma di discussione con un articolo di Lorenzo Mizzau, che si concentra soprattutto, riprendendo Lazzarato, sull'economia del debito. L'ipotesi dell'autore, per dirla con le parole sue è che «in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine».
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Il soggetto non deve capire che i maltrattamenti costituiscono un attacco premeditato alla sua identità personale da parte di un nemico antiumano. Deve essere indotto a pensare che merita le terapie cui viene sottoposto perché in lui c’è qualcosa di spaventosamente sbagliato.
W. S. Burroughs[1]
Il neoliberalismo è morto. Lunga vita al neoliberalismo!
Che l’ipotesi neoliberale, oggi, faccia acqua da tutte le parti è sotto gli occhi di ciascuno. Al punto che dichiarare la bancarotta del neoliberalismo, da qualche anno a questa parte, non appare più tanto assurdo[2].
Ecco, in un rapido scorcio, il panorama che ci troviamo di fronte. Il discorso postbellico della pace, oggi, cede il passo a un nuovo discorso e a nuove pratiche di guerra. Al meccanismo postbellico del consumo, ancora attivo in Europa lungo tutti gli anni Ottanta, subentra l’introduzione forzata della miseria come way of life. Le tecniche di management, che configuravano un paradigma di gestione soft della vita e delle anime, sono sostituite ovunque da una gestione poliziesca coatta. Infine, la circolazione diffusa dell’informazione è doppiamente rimpiazzata: sul piano della mediasfera, dal terrorismo mediatico a tutti i livelli; sul piano della tecnosfera, dall’estrazione e messa a valore di dati di ogni genere. C’è, dunque, qualcosa come uno spostamento d’asse nella gestione del potere, che riporta in primo piano miserie e violenze di ogni genere.
Tutto ciò è forse sufficiente per liquidare l’ipotesi neoliberale? Dovremmo semplicemente smetterla di parlare di neoliberalismo? O non sarebbe meglio, piuttosto, come suggeriscono Dardot e Laval, diffidare di coloro che, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2007-8, annunciarono a gran voce la «morte del neoliberalismo»?[3]
La via che vorrei suggerire sarebbe appunto la via di fuga, l’elusione di una simile alternativa. È una via che, da un lato, passa senz’altro per la crisi finanziaria; mentre, dall’altro, attraversa e disattiva l’opposizione tra una vita e una morte del neoliberalismo.
Con questo non alludo tanto a ciò che Dardot e Laval hanno chiamato «nuovo neoliberalismo»,[4] bensì, piuttosto, a qualcosa di più che è anche qualcosa di meno. È, cioè, qualcosa di meno e qualcosa di più di un’estensione delle tecnologie neoliberali di governo al livello massimamente generale di una «razionalità»: di un meccanismo, cioè, capace di organizzare le condotte di governanti e governati, di produrre e riprodurre anime e corpi sul modello della forma-impresa. Certo, nell’arco di mezzo secolo, i meccanismi di concorrenza e competizione, le tecnologie e i vettori di potere neoliberale hanno invaso in modo capillare ogni sfera dell’esistente. Hanno abbattuto innumerevoli resistenze e sterminato innumerevoli forme di vita. In più, nuovi circuiti e nuovi cablaggi hanno reso possibile la circolazione del potere nell’infosfera, l’iniezione del soft power nel regime software, e, viceversa, l’incarnazione del software nel corpo del potere, la programmazione bioinformatica e bioestetica dell’esistenza[5].
Tuttavia, la codifica dell’«insieme dei discorsi, delle pratiche, dei dispositivi che determinano una nuova modalità di governo degli uomini secondo il principio universale della concorrenza» nei termini di una «razionalità di governo»[6] non sarebbe, forse, un’operazione di surcodificazione, per usare il lessico di Deleuze e Guattari? Non implicherebbe, cioè, una certa neutralizzazione dei fattori di squilibrio a vantaggio di un equilibrio di sistema? O, meglio, un’integrazione dello squilibrio – della competizione, delle crisi ecologiche, della guerra e dell’insurrezione e della contro-insurrezione, ecc. – nel dinamismo di un continuo aggiornamento dell’equilibrio?[7] Fino a che punto, in altre parole, il paradigma della governamentalità neoliberale, articolato da Foucault nel suo celebre corso del ’78-’79, è ancora all’ordine del giorno?
È nell’ipotesi dell’«economia del debito», formulata da Maurizio Lazzarato all’indomani della crisi finanziaria che ha colpito i mercati globali nel 2007-8, che si può, forse, trovare una risposta soddisfacente a queste domande.
Che cos’è l’economia del debito? Che l’indebitamento costituisca un meccanismo-chiave nel funzionamento dell’economia liberale non è una novità. È noto che la stagione neoliberale, cominciata in pieno regime di inflazione, fiorì con il «colpo del 1979», quando sotto l’iniziativa di Volker, allora presidente della Federal Reserve, i tassi d’interesse sui debiti pubblici raddoppiarono di colpo, creando di sana pianta la condizione di indebitamento generalizzato che avrebbe reso possibile (e necessario) lo sviluppo dei mercati finanziari.
Con l’economia del debito, però, non si tratta tanto di evidenziare le ripercussioni della «finanza» sulla cosiddetta «economia reale», sulla società o le condotte degli attori economici[8]. Piuttosto, il dispositivo del debito, adeguatamente differenziato e mascherato, agirà direttamente a ogni livello di organizzazione del vivente: dalla macroeconomia al biopotere, dalla semiologia alla psicosfera e al piano macchinico.
Il rapporto di debito non opera dunque soltanto, né in modo privilegiato, a livello dell’economia politica. O, almeno, non se si sposa una concezione ristretta di economia politica. «Il debito – scrive Lazzarato – agisce contemporaneamente come una macchina di cattura, di “predazione” o di “prelievo” sulla società nel suo insieme, come uno strumento normativo e di gestione macro-economico, e come un dispositivo di ridistribuzione dei redditi. Funziona anche come dispositivo di produzione e di “governo” delle soggettività collettive e individuali»[9]. Il debito è, cioè, un meccanismo chiave della produzione e della riproduzione sociale, soltanto in quanto, allo stesso tempo, è un meccanismo di produzione del sé.
Con il rapporto di debito, dunque, non abbiamo a che fare tanto con un dispositivo economico i cui effetti riverberano, com’è ovvio, sulla vita di ciascuno. Si tratta, piuttosto, di una tecnologia di potere, di una presa diretta del debito in quanto rapporto di potere sulla soggettività, la psiche e i corpi. «La relazione creditore-debitore – prosegue Lazzarato – non si limita a “influire direttamente sui rapporti sociali”, poiché è anch'essa un rapporto di potere, uno dei più importanti e universali del capitalismo contemporaneo»[10].
Se è lecito parlare qui di economia politica, lo si potrà fare soltanto nel senso di Lyotard: ogni economia politica è sempre un’economia libidinale – un cablaggio e una canalizzazione di flussi di desiderio – e, viceversa, ogni economia libidinale si organizza sempre in rapporto diretto con un modo di produzione.[11] L’economia del debito è, in altre parole, «la fabbrica dell’uomo indebitato».
Il debito come Nexus sociale
Ma torniamo alla domanda da cui siamo partiti. Che ne è, in tutto ciò, dell’ipotesi neoliberale? Con l’economia del debito, in effetti, in gioco ci sono precisamente le stesse tecnologie di governo, le stesse istituzioni, gli stessi discorsi che regolano il funzionamento di ciò che Foucault ha chiamato governamentalità neoliberale[12]. Eppure, c’è qualcosa come una riconfigurazione di paradigma, un nuovo assestamento di tutti questi elementi attorno a un nuovo cardine.
Il punto d’osservazione privilegiato per inquadrare tale passaggio è, forse, quello incentrato sulla soggettività. In effetti, tanto nell’ipotesi neoliberale quanto nell’economia del debito, abbiamo a che fare con un modello di economia soggettiva. A ben guardare, con la crisi finanziaria del 2007-8, è in gioco un vero e proprio fallimento del programma soggettivo del neoliberalismo. «La crisi – scrive Lazzarato – non è solo economica, sociale e politica. È anzitutto una crisi del modello soggettivo neoliberista incarnato nel capitale umano. Il progetto di sostituire il lavoratore salariato del fordismo con l'imprenditore di sé, trasformando l'individuo in impresa individuale che gestisce le proprie capacità come risorse economiche da capitalizzare, è crollato con la crisi dei subprime»[13].
Il passaggio dal fordismo al postfordismo, da un’economia oggettiva incentrata sul lavoro a un’economia soggettiva fondata sul «lavoro su di sé», è, cioè, qualcosa come un passaggio mancato. Certo, al centro dell’economia postfordista non c’è più il «produttore», il lavoratore salariato, il protagonista dello scontro tra capitale e lavoro. Ma non c’è neppure l’imprenditore di sé, il capitale umano, il protagonista di una guerra economica in regime di concorrenza. L’homo oeconomicus postfordista non è né l’uomo della produzione e dello scambio, né l’uomo dell’impresa e della concorrenza. È, piuttosto, l’uomo indebitato: il supporto soggettivo, il muto punto di scarico di ogni debito, colpa e rischio, l’uomo proletarizzato, senza speranze e senza progetto, che soltanto le catene del debito possono vincolare alla macchina sociale[14].
Alla proletarizzazione generalizzata, in effetti, non può che corrispondere un regime economico basato sul debito. Hai un salario basso? Non c’è problema! Indebitati per comprare una casa! Vuoi avere accesso all’istruzione universitaria e, di conseguenza, al cosiddetto «mondo del lavoro»? Indebitati! Vuoi che la tua impresa sia competitiva sul mercato? Ottieni un finanziamento europeo! Le tue tecniche di produzione, di merci, di sapere, la tua formazione saranno passate al setaccio di un regime kafkiano di valutazione che è, al tempo stesso, un regime di prescrizione. L’economia del debito neoliberale verifica qui punto per punto la tesi di Nietzsche, secondo cui l’origine dell’animale-uomo va individuata, da un lato, nella facoltà di promettere, e, dall’altro, nella capacità di misurare e valutare, che va ricercata sul terreno dell’obbligazione[15].
Cosa dobbiamo concluderne? Anzitutto, che è soltanto il meccanismo del debito a far funzionare la macchina della soggettivazione neoliberale. Il debito non può dunque mai essere saldato, proprio perché non è il denaro a poterlo ripagare, ma la temporalità, il sacrificio sempre ripetuto dell’oggi a vantaggio di un domani che è in pugno al creditore. La «rinuncia pulsionale» freudiana, la sospensione del principio di piacere a favore del principio di realtà, il rinvio del godimento a favore del lavoro non ha perso nulla della sua attualità, nemmeno in un regime di coazione al godimento attraverso il consumo[16]. Ma la rinuncia che il neoliberalismo strappa all’uomo indebitato è, in modo sempre più scoperto a partire dalla crisi dei subprime, una rinuncia di carattere etico, in favore di un’affiliazione alla cospirazione della catastrofe.
Il debito è, cioè, – secondo l’ipotesi che Lazzarato mutua da Nietzsche, Deleuze e Guattari – un dispositivo che inietta la mancanza negli esseri[17], che introduce la morte nel vivente contrabbandandola come futuro, per proiettarli senza posa in un progetto che è sempre un progetto di società. Tale progetto è, certo, un progetto dichiaratamente fallito: un programma non più credibile, che ha infranto ogni promessa e, perciò, non gode più di alcun credito. Ed è proprio per questo che il debito dev’essere sempre rilanciato, la valutazione sempre riconfermata e il controllo sempre più capillare e macchinico.
Ecco perché Lazzarato può parlare di una «svolta autoritaria» del neoliberalismo. Nulla tiene più insieme il progetto neoliberale, se non la volontà politica cristallizzata nella macchina del debito come meccanismo di potere. È la riattivazione permanente della macchina che profila il soggetto, lo produce attraverso infinite operazioni di shaping e lo canalizza verso una società che coincide con il campo della socializzazione della mancanza e della miseria. Il debito è, in questo senso, un «fatto sociale totale» nel senso di Mauss, il dispositivo che stringe il nexus sociale e, quindi, riverbera a tutti i livelli della gerarchia[18].
Hype
Ora, se volessimo riassumere l’analisi di Lazzarato con una boutade, potremmo dire che l’economia del debito è essenzialmente una truffa. Non è un caso che, oggi, psichiatri, loschi life coach e più o meno credibili consulenti finanziari non si stanchino di mettere in guardia i piccoli investitori dal cadere nella trappola dell’hype. Come spingere milioni di persone a contrarre debiti insolvibili? Come svalutare da un giorno all’altro l’intero mercato immobiliare USA? Ma anche: Come ingaggiare centinaia di migliaia di piccoli investitori – degenerates, come loro stessi amavano definirsi – in una guerra di posizione finanziaria contro i magnati di Wall Street (come accaduto nel 2021, nel celebre caso delle azioni GameStop)?
Semplice: attraverso la cattura dell’attenzione[19], degli affetti e del sonno dell’uomo indebitato (e del creditore, del possessore dei titoli, che ne è il rovescio) e il loro costante rilancio in una spirale di illusioni ed euforie, fascino e ossessione. In breve: attivando un regime di escalation costante, che chiamiamo hype.
In effetti, l’hype sembra costituire qualcosa come il segreto motore dell’economia del debito in quanto economia del desiderio. Della parola «hype», attestata per la prima volta poco più di un secolo fa negli USA, non sorprende tanto la controversa etimologia, che la deriverebbe di volta in volta da «hyperbole» o dalla «hypodermic syringe», compagna quotidiana delle prime generazioni di morfinomani ed eroinomani[20].
A sorprendere, cioè, non è tanto l’oscillazione tra eccitazione e narcosi, parossismo e depressione, quanto piuttosto l’estensione del campo semantico, che spazia dall’economia alla frode e al marketing, dalla sessualità all’etica e alla politica. «Hype», infatti, indica tanto un trucco, l’insieme delle tecniche fraudolente per imbrogliare una vittima, quanto una menzogna o una pubblicità fraudolenta, tanto l’aumento esorbitante dei prezzi in regime di inflazione quanto una «storiella, una line impiegata a fini di seduzione»[21].
A ben guardare, all’incrocio di tutti questi significati c’è qualcosa che potremmo chiamare il trucco dell’incremento, che consiste precisamente nell’incremento del trucco: un trucco che funziona generando un’illusione per incrementi successivi di informazioni, prezzi, elogi; innalzando, cioè, una cortina di fumo sempre più spessa ed estesa, capace di sedurre, persuadere e, in una parola, catturare la vittima.
Ma l’uso più notevole della parola «hype» è, forse, quello diffuso a partire dai mesi successivi al crollo finanziario del ’29. È un uso quasi tecnico, dove «hype» prende a indicare una ben precisa tecnica di truffa – lo short-changing –, « in cui il truffatore convince il negoziante di aver pagato con una banconota di taglio più grande di quella usata realmente, ottenendo così un resto maggiore»[22]. È una tecnica triviale, dove manipolazioni di ogni genere – della psiche e del denaro – tessono una trama di illusioni, gettando senza sosta fumo negli occhi della vittima, che si trova improvvisamente defraudata tanto della merce che avrebbe dovuto vendere quanto del denaro che già possedeva.
All’epoca dell’economia neoliberale del debito, quando i flussi di desiderio vengono regolati sistematicamente dalle spirali dell’hype, è questo genere di truffe a tornare all’ordine del giorno. Nel passaggio dallo short-changing – con cui la vittima è spossessata insieme della merce e il denaro – allo short-selling – la strategia di vendita al ribasso che ha reso possibile la catastrofe finanziaria, dove la vittima finisce con il farsi carico dei rischi e dei debiti dello speculatore – può sorgere il dubbio legittimo che l’intera economia del debito non sia, in verità, che un gigantesco insieme di tecniche di truffa. Che l’economia del debito non sia, in verità, che un gigantesco schema Ponzi, è un’ipotesi seducente, avanzate più volte dopo la crisi dei subprime – e discussa, non da ultimo, da economisti del rango di Kaushik Basu, l’ex capo consigliere del ministero dell’economia indiano, che, in un articolo dal titolo eloquente, parla di «scienza e mistica delle frodi finanziarie»[23].
Ora, il limite di questa analogia non sta tanto nel carattere finito di ogni schema Ponzi, che non può non concludersi con la rivelazione dell’inganno (vuoi perché il truffatore sparirà con il denaro delle vittime, vuoi perché verrà scoperto prima di ultimare la frode). La differenza, cioè, non sta nel fatto che, qui, il circuito della catena di indebitamento è di necessità un circuito chiuso, mentre, nel caso dell’economia del debito, rimarrebbe aperto. Il tratto apocalittico del regime di debito sta lì a dimostrarlo: quando l’indebitamento si estende sul piano globale e approfondisce il suo dominio nei più profondi recessi della soggettività, il giorno del saldo prende le sembianze di un giudizio finale. «L’estensione della disperazione a stato religioso del mondo – scriveva Walter Benjamin ormai un secolo fa – è ciò da cui si attende la salvezza»[24].
Ma l’apocalisse finanziaria, il giorno della resa dei conti, è sempre una «rolling apocalypse», un regime temporale di perpetuo differimento[25]. In gioco, nell’economia del debito, non è tanto l’estrazione di valore (denaro, lavoro, risorse, ecc.) – che, come tale, è sempre un processo limitato – quanto piuttosto la riproduzione dell’economia stessa attraverso la produzione di futuro, l’illimitazione del dominio del debito sull’esistente.
È soprattutto in questo senso che l’economia del debito è anzitutto una tecnologia di potere, di assoggettamento e di soggettivazione: è qualcosa come la messa a servizio di tutta una serie di tecniche illusionistiche alla riproduzione coatta dell’esistente – o, per dirla con un’espressione paradossale – la riproduzione coatta del futuro[26]. Abbiamo già menzionato la cattura dell’attenzione e l’ipotesi di Jonathan Crary di un «capitalismo all’attacco del sonno». Ma in questione, in ciò che potremmo chiamare, con le parole del teorico queer Lee Edelman, «lo schema Ponzi del futurismo riproduttivo»[27], che troviamo in azione a pieno regime proprio nella macchina del debito, è l’intera sfera del desiderio: dalla sessualità al contropotere, dai saperi alla creatività, dalla tecnologia alla semiotica.
La macchina della colpa neoliberale
Finché si fa funzionare il meccanismo del debito soltanto nella cornice di un’economia ristretta, il parallelismo con la truffa resta una semplice provocazione. Lo è meno quando l’economia del debito è compresa come un’economia libidinale – quando, cioè, per dirla con Guattari, si sopprime la separazione tra produzione e desiderio. Dal punto di vista di un’economia ristretta, infatti, la truffa non è che una triviale tecnica di confisca del valore attraverso i metodi della predazione.
Ma chi è vittima di una truffa, ben più che di una tecnica di confisca, è vittima di una tecnica di umiliazione che è, insieme, una tecnica di assoggettamento. La truffa è, cioè, una tecnica di inoculazione di vergogna, insicurezza, terrore, e, in generale, soggezione, cioè assoggettamento. Chi è vittima di una truffa è anzitutto vittima della propria vittimizzazione – dell’innesco di un divenire-vittima che, da quel momento, non cesserà di girare, catturando e ripiegando flussi di desiderio.
È da questo punto di vista che l’economia del debito può essere messa in rapporto con la truffa. Come, dal punto di vista del desiderio, nella truffa è all’opera un divenire-vittima, nell’economia del debito è all’opera un divenire-colpevoli. Si può, in questo senso, parlare di una vera e propria macchina della colpa neoliberale. Il suo funzionamento comprende precisamente gli stessi ingranaggi della governamentalità neoliberale – i suoi discorsi, le sue istituzioni, i suoi meccanismi economici e le sue tecniche di governo – vista però a partire dal una teoria dello squilibrio di potere, del potere come squilibrio. Con l’economia del debito si tratta, cioè, di comprendere il neoliberalismo non tanto come «governamentalità» o, peggio, «razionalità», quanto piuttosto come tecnologia di potere o, per essere più chiari, come strategia di dominazione.
Che nel passaggio tra l’ipotesi neoliberale e l’economia del debito ci sia in gioco un vero e proprio cambio di passo, lo rivelano nel modo più chiaro le rispettive strategie di cattura. Se, nell’ipotesi neoliberale, in questione è anzitutto un insieme di tecniche di assoggettamento/soggettivazione, Lazzarato chiarisce nel modo più eloquente che «l’uomo indebitato» non è tanto un uomo assoggettato, quanto piuttosto un uomo «asservito». Le tecniche di soggettivazione, infatti, prese in modo isolato, si dimostrano ancora dipendenti, nel loro funzionamento, dalle istituzioni della società disciplinare[28].
Finché al centro dell’analisi c’è il soggetto – il soggetto colpevole, imputato, recluso – il modello della colpevolizzazione resta il Tribunale, con le sue sentenze e il suo linguaggio performativo. La colpa è, cioè, prodotta in base a un modello linguistico e, perciò, si codifica soltanto sul piano della rappresentazione sociale. Con la sua sentenza, il giudice può senza dubbio produrmi come colpevole, così come l’esistenza del tribunale mi ha prodotto come possibile imputato. Ma una simile condanna, come ogni enunciazione performativa, può lasciarmi perfettamente indifferente nel mio intimo. Come scrive Lazzarato, «il rituale performativo non implica e non investe in alcun modo il soggetto, non gli impone alcuna trasformazione, alcun divenire»[29].
Viceversa, l’economia del debito può innescare innumerevoli divenire-colpevoli, proprio perché è qualcosa come una macchina. Il suo funzionamento è, per così dire, alternato: innesca due processi opposti, paralleli e complementari, di deterritorializzazione e territorializzazione.
Da un lato, infatti, la macchina del debito opera con una semiologia a-significante, per dirla con Guattari[30]. Qui, il mio indebitamento non passa per l’enunciazione e la rappresentazione, ma per i «segni-potenza» che produco con ogni mio movimento, con ogni transazione e ogni navigazione in rete. Quando utilizzo la carta di credito, «le polarità delle particelle di ossido di ferro vengono convertite in numeri binari quando le bande magnetiche passano dentro un lettore dotato di un software in grado di leggerle»[31]. Io, qui, divento debitore nell’atto stesso con cui striscio la carta. È il gesto stesso, ora, e non il giudizio su di esso, a produrre indebitamento e colpevolezza.
Nel caso del tribunale, inoltre, la produzione linguistica di colpevolezza è mediata da un quadro istituzionale che garantisce la validità del verdetto; il linguaggio può, cioè, performare e produrre soltanto se garantito e mediato da tutta una serie di supporti istituzionali che si riferiscono, in ultima analisi, all’uomo. Nel caso dell’indebitamento a-significante, invece, la produzione dell’«uomo indebitato» è immediata, parla direttamente il linguaggio delle macchine, dei circuiti di feed-back, degli atomi e del cosmo – un linguaggio, cioè, subliminale, che scavalca l’umano e la sfera della rappresentazione.
Dall’altro lato, tutte le tecniche disciplinari di assoggettamento significanti restano a disposizione dell’economia del debito. Tra queste, oltre alla psicanalisi, la giurisprudenza, la formazione, il marketing, ecc., troviamo la stessa grammatica, in cui, come dice Guattari, in gioco c’è una vera e propria «edipizzazione linguistica», una peculiare prestazione del linguaggio finalizzata a «formalizzare la soggettivazione degli enunciati su una codifica astratta del tipo io-tu-egli, che dota i parlanti di un sistema di riferimenti personali»[32]. La lingua stessa, dunque, è qualcosa come un operatore di soggettivazione, che crea un soggetto eternamente imputabile territorializzando il desiderio sul triangolo edipico.
L’economia del debito funziona, dunque, come una macchina della colpa a doppio regime: deterritorializzazione macchinica e territorializzazione antropica, asservimento e assoggettamento, indebitamento pre-linguistico e rappresentazione del sé colpevole. È soltanto qui che lo stato di colpevolizzazione, per dirla con Benjamin, diventa davvero universale: nell’estensione, con la trasversalità di un debito mondializzato ben superiore alla quantità di capitale in circolazione; e nell’intensità, nell’approfondimento del rapporto di debito nelle sfere letteralmente microfisiche e pre-umane della comunicazione degli esseri. È, dunque, a questo livello che bisogna situare le strategie di resistenza. A differenza che in Foucault, potremmo dire, qui non c’è resistenza senza lotta, e non c’è lotta che non si collochi nell’orizzonte di una rivoluzione molecolare.
Note
[1] W. S. Burroughs, Pasto nudo, ed. it. di F. Cavagnoli, Adelphi, 2008, p. 32.
[2] È l’ipotesi ben illustrata da Mckenzie Wark, Il capitale è morto: il peggio deve ancora venire, ed. it. di C. Reali, Nero, 2021.
[3] Cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberale, ed. it. di R. Antoniucci e M. Lapenna, DeriveApprodi, 2013, pp. 29-44.
[4] Ivi, Introduzione all’edizione italiana.
[5] Sulla proliferazione di nuovi regimi bioinformatici, bioestetici, bioeconomici, ecc. a partire dal «biopolitical turn» si veda T. Campbell & A. Sitze, Introduction: Biopolitics: An Encounter, in Id., Biopolitics: A Reader, Duke University Press, 2013, 1–40.
[6] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, cit., pp. 30-31.
[7] Mi sembra che il punto sia ben colto dall’ottima critica all’ontologismo politico latente di Dardot e Laval sviluppata da M. Polleri, Marxismi foucaultiani. Una mappa critica, Mimesis 2024, pp. 67-88.
[8] Cfr. M. Lazzarato, La fabbrica dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, ed. it. di A. Cotulelli & E. T. Campello, DeriveApprodi, 2012, pp. 38 sgg.
[9] Ivi, p. 47.
[10] Ibid.
[11] Cfr. J.-F. Lyotard, Economia libidinale, ed. it. di M. Gandolfi, PGreco, 2012: in particolare le pp. 109-172.
[12] Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978- 1979), ed. it. di Mauro Bertani e Valeria Zini, Feltrinelli, Milano 2005, in particolare p. 186 sgg. Per un’analisi della soggettività neoliberale di matrice foucaultiana si veda R. Nigro, Genealogia e critica della soggettività neoliberale, in «Schweizerische Zeitschrift Für Philosophie», n. 81.
[13] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista, ed. it. di I. Bussoni & M. Lazzarato, DeriveApprodi, Roma 2013, p. 11.
[14] Sulla colpa nei regimi di soggettivazione neoliberali si veda E. Stimilli, Debito e colpa, Ediesse, 2015. Per un inquadramento del problema dell’angoscia da una prospettiva lacaniana si veda invece A. Mura, Dall’economia del debito all’economia dell’angoscia. Il paradigma dell’indebitamento ai tempi dell’austerity, in F. Leoni (a cura di), Re mida a Wall Street. Debito desiderio distruzione tra psicanalisi, economia e filosofia, Mimesis, 2015, pp. 193-210.
[15] F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere, ed. it. di G. Colli e M. Montinari, Adelphi., vol. VI, tomo 2, p. 255 sgg.
[16] Il riferimento è qui naturalmente a S. Freud, Il disagio della civiltà, in Id., Il disagio delle civiltà e altri saggi, ed. it. di S. Candreva et alii, Bollati Boringhieri, 2012, p. 233 sgg. Sul senso di colpa come fondamentale contraddizione della civilizzazione (Kultur) si vedano le pp. 258-268; il punto di avvio critico della teoria della civiltà di Freud e della sua topica resta, nonostante il discredito che fatalmente colpisce ogni testo un tempo celebre, H. Marcuse, Eros e civiltà, ed. it. di L. Bassi, Einaudi, 1964, in particolare pp. 64-85.
[17] G. Deleuze & F. Guattari, L'anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, ed. it. di A. Fontana, Einaudi, 2002, pp. 213-214
[18] M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, in Teoria generale della magia e altri saggi, ed. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2000, pp. 187 sgg.
[19] Il riferimento è alla celebre ipotesi post-situazionista di J. Crary, 24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno, ed. it. di M. Vigiak, Einaudi, Torino 2015.
[22] Ibid. (trad. mia)
[23] K. Basu, Ponzis: The Science and Mystique of a Class of Financial Frauds, in «World Bank Policy Research Working Paper Series», n. 6967, 2014, pp. 1–13.
[24] W. Benjamin, Il capitalismo come religione, in Opere complete, ed. it. di E. Ganni, Einaudi, 2003, vol. VIII, pp. 97-99. È particolarmente interessante, in questa prospettiva, la poco notata osservazione di Benjamin secondo cui «le preoccupazioni» sarebbero «una malattia dello spirito caratteristica del capitalismo». Per una prospettiva benjaminiana sulla fine del gold standard si veda G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalistica, pp. 112-132.
[25] Cfr. il notevole articolo di A. Samman & S. Sgambati, Financialising the Eschaton, in A. Samman e E. Gammon (a cura di) Clickbait Capitalism: Economies of Desire in the Twenty-First Century, Manchester University Press, 2022, pp. 253–270.
[26] È così il Comitato Invisibile apre il celebre manifesto L’insurrezione che viene (ed. it. di Marcello Tarì, Nero, 2019): «”Il futuro non ha più avvenire” è la saggezza di un’epoca che è arrivata, nonostante la normalità di facciata, al grado di consapevolezza dei primi punk».
[27] L. Edelman, No Future: Queer Theory and the Death Drive, Duke University Press, Durham 2004, p. 4.
[28] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, cit., p. 149 sgg.
[29] Ivi, p. 211.
[30] F. Guattari, Rivoluzione molecolare. La nuova lotta di classe, ed. it. di B. Bellotto et alii, PGreco, 2017, pp. 191-195. Ma si veda la semiotica differenziale sviluppata in Su alcuni regimi di segni: G. Deleuze & F. Guattari, Millepiani, ed. it. di P. Vignola, Orthotes, 2017, pp. 175-223.
[31] M. Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato, cit., p. 189.
[32] F. Guattari, La rivoluzione molecolare, cit., p. 163.
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Lorenzo Mizzau è dottorando e docente di filosofia politica e dei media presso la Leuphana Universität Lüneburg. La sua ricerca ruota intorno al rapporto tra governamentalità neoliberale e processi di estetizzazione della politica. Per DeriveApprodi ha tradotto Dal rifiuto del lavoro alla moltitudine. La filosofia sovversiva di Toni Negri (2025).
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