Il senso del tatto
- Elia Gonella
- 12 ago
- Tempo di lettura: 10 min

Mary Beth Edelson, Let the Games Begin, 1977
Un racconto di Elia Gonella - nel 2025 vincitore del premio Urania - per il calendario estivo di Machina.
***
Non c’è pericolo, giurai alla madre. Lei esitò ancora prima di distendere le dita affusolate per permettermi di infilarle i guanti. S’irrigidì come se attendesse un’iniezione, mentre innestavo i cavi nelle polsiere. La sentii tremare: l’inverno le aveva prosciugato il colore dalle labbra sottili. Pensai che uno scenario legato al calore l’avrebbe rassicurata, ma appena lo caricai lei sussultò e scattò all’indietro, appiattendosi contro lo schienale.
«Che cos’è?»
«Solo del tè appena versato. Una tazza di ceramica Ru».
Fissò la scrivania, dove non c’era niente. Con cautela, riavvicinò i polpastrelli alla fonte del calore e strinse le mani a coppa intorno al nulla. Quando tentò di fare forza, l’aria le resistette con la durezza della porcellana. Sollevò gli occhi verdi e colmi d’incertezza.
«Sembra così reale. Anche il peso». Sollevò la tazza inesistente e provò ad avvicinarla alla bocca, ma tremò, inspirò tra i denti stretti e lasciò la presa. Il monitor mi mostrò la ciotola che precipitava e andava a pezzi. Mi affrettai a terminare lo scenario, prima che lei sentisse quanto potevano essere affilati i frantumi.
«Si è scottata? Niente paura. Proviamo qualcos’altro».
Lo scenario seguente: una spiaggia scaldata dal sole. Lei allungò le mani sul piano di legno e lo sentì cedere e disintegrarsi nei granelli umidi della battigia. Ritrasse le dita, ma solo per poco, quando un’onda tiepida salì a lambirla.
«Com’è possibile?» Si sfilò un guanto e lo rovesciò, ma l’interno non le offrì alcuna risposta. I diecimila nano-aghi erano rientrati nella fodera a nido d’ape.
«Senta il tessuto», le dissi. «Non è bagnato. I guanti possono simulare temperature tra meno dieci e novanta gradi Celsius, ma non si scaldano né si raffreddano. Diventano il filo di un rasoio, ma non feriscono».
«Non feriscono?» Mi fissava. Intuii che la paura era pari al desiderio di lasciarsi convincere. «Poco fa, quando ho creduto di scottarmi...» Si sfiorò con l’indice il dorso della sinistra, dove aveva sentito rovesciarsi il tè. Non trovò nessun segno.
«Il dolore non è nei guanti. Non creano niente che non sia già nella mente del soggetto».
Lei non rispose. Tastò l’imbottitura con il polpastrello in più punti, prima di convincersi a indossare di nuovo il guanto.
«Ora chiuda gli occhi».
Trattenne il fiato, accennò delle carezze nell’aria, e finalmente si lasciò andare e affondò le dita nella pelliccia di un gatto che faceva le fusa. Un colpo basso: prima della visita avevo trovato sul suo profilo social foto del suo Maine Coon nel giardino di una casa di campagna. C’erano anche dei cavalli, ma non dovetti spingermi a tanto. Le avevo rubato un sorriso.
«Pensi alle possibilità. Alle esperienze che possiamo offrire a sua figlia, in un ambiente protetto».
Alla prima sessione rimasi nella sala di controllo, a osservarla attraverso i monitor mentre conduceva la figlia nel buio del teatro cieco. La bambina, la testa incassata tra le spalle in posizione di difesa, avanzava nel suo mondo di ombre, di voci amplificate da apparecchi acustici, di parole che non aveva mai imparato a comprendere, meno ancora ad articolare. In un altro secolo l’avrebbero definita sordocieca. Zoomai sul suo viso, ma l’oscurità divorava i suoi occhi. Recalcitrò, quando la madre le infilò il casco per la magnetoencefalografia, ma smise ogni resistenza quando si sentì avvolgere dai guanti aptici.
Primo scenario: il tepore di una palla d’impasto su un piano infarinato. La madre abbracciò la bambina dalle spalle e parlandole come se potesse sentirla la invitò a carezzare il tavolo d’acero inesistente, a stendere la pasta sfoglia. Ma sul monitor le aree della corteccia cerebrale lampeggiavano flebili, reazioni emotive prossime allo zero. Un picco, quando staccò una manciata d’impasto e se la portò alla bocca. Ma appena sentì che sotto la lingua non aveva sapore né consistenza, si divincolò e corse fino alle pareti materassate, cercando a tentoni la porta.
La madre sbuffò: era stata lei a scegliere quello scenario, e forse si rendeva conto che avevamo ricreato una fantasia soltanto sua. Mi affrettai a cambiare scena. Alzai la temperatura ambientale, diffusi un aroma di orchidea. Con due linee di codice innalzai pannelli di vetro scaldati dal sole, feci sbocciare palme ed agave, un’intera serra tropicale. La donna si aggirava trasognata tra la vegetazione simulata, ruotava la testa appesantita dal visore per seguire il volo delle farfalle e delle libellule che aveva insistito per includere – sua figlia sarebbe mai riuscita a sfiorarle? La bambina strappò manciate di fiori e li schiacciò sotto i piedi. Poi avvicinò un aloe, si piantò le spine nei palmi come chiodi, e la madre intervenne per allontanarla a forza.
«Basta! Basta!», gridò.
Tentai scenari più innocui: ciotole colme di panna montata e di dolciumi, una montagna di mattoncini Lego, una vasca dall’acqua bassa e tiepida in cui nuotavano mante che si potevano carezzare. La bambina sferrava calci e pugni agli oggetti virtuali, se ne disinteressava appena scopriva di non poterli esperire con il gusto e l’olfatto, finiva per tentare la fuga.
Per giorni la madre non rispose alle mie chiamate. I fondi non ci mancavano, non temevo di perdere una cliente. Ma le lesioni della bambina erano rare, la sua distanza dal mondo impareggiabile. Era una stanza chiusa dall’interno, e io sognavo che la mia invenzione fosse la chiave per entrare. In passato, i sordociechi avevano comunicato tra loro attraverso il tocco, un alfabeto fatto di linee da tracciare sul palmo, di vocali sulle punte delle dita. Si parlavano sfiorandosi le mani, un sistema macchinoso e insieme umano. Ora avevo a disposizione un nuovo linguaggio tattile, infinitamente più avanzato, ampio quanto lo spettro delle sensazioni concepibili dalla mente. Potevo riuscire dove logopedisti, neurologi e psichiatri avevano fallito. Nella bambina cercavo il gusto della sfida, dell’enigma, e più ancora la promessa del riscatto. Dopo sei anni passati a sviluppare i guanti aptici, avrei dimostrato che erano di più di un ennesimo accessorio per i videogiochi. Avevo bisogno di lei.
Guidai fino alla grande casa di campagna che avevo visto nelle foto ben composte della madre. Il cielo era giallo e una luce malsana bagnava il giardino senza rovi, il prato soffice come un tappeto antitrauma, il laghetto tra i salici recintato senza tregua. La sagoma bianca di un’infermiera passò dietro un bovindo. Nessuna traccia della bambina: immaginai che potesse uscire a giocare solo in orari prestabiliti, sotto la più stretta sorveglianza. I genitori la custodivano come un segreto, le avevano costruito intorno barriere su barriere. Trovai la madre in ginocchio davanti a un’aiola. Non impugnava una cesoia ma delle forbicine sottili. Stava spuntando una a una le spine del roseto?
«La sua vita è stata tutta interiore», le spiegai. «Gli stimoli che noi associamo a ricordi, paure e desideri, non trovano corrispettivi nella sua esperienza».
«Allora i guanti sono inutili. L’ha detto lei stesso, possono riprodurre solo ciò che è già nella mente».
«Non conosciamo la mente di sua figlia». Guardai la casa, le pietre antiche e scure che i secoli non avevano smussato. Mi chiesi dove fosse la bambina, a quale piano, quanto in profondità nelle viscere di quella fortezza l’avessero nascosta. Stava dormendo, sedata a quell’ora del pomeriggio? C’erano colori, nei suoi sogni, c’erano suoni? «Ma il sistema può aiutarci a decifrarla. Dobbiamo solo usarlo al contrario».
Il MEG della bambina si illuminò in tante aree diverse e con tale intensità da sembrare quello di un altro paziente. La madre sedeva con me nella saletta di controllo, fissava sua figlia sul monitor torcendosi le mani. Temevo che avrebbe fatto irruzione nel teatro per interrompere la simulazione.
«Guardi l’attività cerebrale», insistevo, indicando le esplosioni di colori sempre diversi. «Sta creando. Si esprime. Vive e tocca i suoi sogni».
Omisi che tra le aree più attive c’era la corteccia insulare, sede del dolore. Eppure la bambina non dava segno di soffrire. Agitava le mani e le pupille dei suoi occhi ciechi. Il viso, di solito contrito, era spianato da una meraviglia che né io né la madre avevamo osservato prima.
«Ma cosa sente? Cosa sta toccando?»
«È presto per dirlo».
Non ero più io a caricare scenari sensoriali pre-impostati: il sistema generava gli stimoli on the fly, sulla base dei pensieri della bambina. Avevo testato il nuovo metodo su me stesso: immaginavo un fuoco e attraverso i guanti ne sentivo il calore. Ma perché l’idea si trasformasse in sensazione, occorreva una concentrazione assoluta. Bisognava escludere ogni altro pensiero, cancellare il mondo, o la simulazione dissolveva. In questo la bambina dimostrava talento. Le onde cerebrali della sua immaginazione, captate dalla cuffia per il MEG e tradotte in linguaggio macchina, fluivano con forza attraverso il sistema. Qualunque cosa stesse concependo, la viveva con intensità. Ma ancora non avevamo idea di cosa fosse.
«L’AI arriverà a creare per noi dei render visuali dei suoi scenari, potremo entrarci attraverso i visori. Ma occorre tempo. La rete neurale deve assumere la forma della mente di sua figlia, imparare a pensare come lei».
La madre non mi ascoltava, fremeva. Per la prima volta, la bambina era fuori dal suo controllo.
Sognai una stanza senza finestre, aria viziata dal sudore che sembrava traspirare dalle stesse pareti. Le raggiungevo a tentoni e le sentivo scottanti di febbri, si gonfiavano e cedevano al ritmo di un affanno. Un umore mi impiastricciò le mani al punto che non riuscivo a separare le dita. Spalancai la bocca per gridare, ma il mio urlo rimase muto. Mi svegliai tremante, pensando alla bambina.
Dopo altre due sessioni, la madre smise di presentarsi. Non accettava che l’AI sarebbe arrivata a conoscere sua figlia meglio di lei. Se continuò a mandarla da me, accompagnata dalla colf, fu solo perché la bambina usciva dalle sessioni più calma e rilassata; libera dalle energie in eccesso, riusciva perfino a dormire senza sedativi.
Ora ero io a condurre la bambina nel teatro, a inginocchiarmi di fronte a lei per infilarle i guanti. Non si ritraeva, anzi sembrava impaziente di iniziare. Nella sala di controllo indossavo il visore con fiducia e studiavo i render ancora abbozzati, accozzaglie di poligoni sgranati, piani vettoriali che collassano su loro stessi, matasse digitali di rumore. Ero certo che l’AI avrebbe imparato dal sistema nervoso della bambina e che sarebbe arrivata a produrre un risultato intellegibile. Ma dopo tre settimane, ancora non registravo progressi. Sedevo da solo di fronte al lampeggiare dei monitor, in attesa di una risposta che non arrivava, mentre la bambina giocava coi suoi spettri insondabili.
Accadde un lunedì di novembre, uno di quei giorni dell’anno in cui tutto sembra finito. Nel pieno della sessione, la bambina non si limitava ad agitare le mani e roteare le pupille, correva in cerchi senza mai cozzare contro le pareti, se inciampava si rialzava senza un lamento. Padrona dello spazio, si era fermata con il fiatone quando indossai il visore. Lo feci più per noia che con speranza, eppure un’immagine si era formata. I monitor, la scrivania e la parete che mi divideva dalla saletta circolare erano scomparsi. Un buio diverso pulsava intorno a me, l’aria friggeva e io mi sentivo come circondato da una cortina elettrica. Oltre indovinavo sagome colossali, fauci che scintillavano. Mi alzai in piedi: a terra si apriva una voragine che secerneva un fluido violaceo. Non capivo. Era questo che immaginava la bambina, nelle sue ore di gioco? Stavo ancora riprendendo fiato quando gli orli della fossa si spalancarono, divorando l’intero pavimento. Indietreggiai, mi ritrovai con le spalle al muro. Avevo troppa paura per sentirmi idiota, per capire che non avevo scampo. Precipitavo.
Ricordo il seguito con le sfocature e le deformazioni di un incubo. Volavo giù in un cunicolo organico, dalle pareti viscide e scosse da spasmi. A tratti distinguevo tessuti malati, martoriati da bubboni e fori orrendi, sfinteri che secernevano fiotti. Follicoli si estendevano, si dimidiavano come frattali, mi inseguivano nel vuoto fino a lambirmi le gambe, la schiena, lo stomaco. Mi aggrappai a una sporgenza, e lo scenario cambiò di colpo in un deserto che emetteva un bagliore insostenibile. Bastò un passo per incrinare quella superficie, per frantumare la pianura in prismi affilati che si innalzavano come alberi, come torri. Fu atroce tentare la fuga tra quegli iceberg taglienti, che cozzavano tra loro fino a fracassarsi, scomponendo la luce in migliaia di raggi dolorosi. Mi trovai circondato, asfissiato, assurdamente mi coprii gli occhi con l’avambraccio – ma il visore continuò a mostrarmi i miasmi di una palude, vapori che si trasformavano in serpenti, in corde di fuoco che mi costringevano in ginocchio e mi spingevano la testa tra il ribollire dei fanghi.
Quando mi strappai il visore mi ritrovai a terra, in preda alla tachicardia, incerto se ero uscito o meno dall’allucinazione. Sui monitor, la sagoma bambina si stagliava con le gambe larghe, il capo chino e il fiatone, come l’avevo lasciata. Non poteva sapere che avevo frugato tra le sue fantasie, eppure rimaneva immobile, non si rimetteva a giocare. Lasciai il visore a terra, afferrai il secondo paio di guanti e varcai la soglia.
Nel teatro intriso dall’odore del suo sudore mi sentii un intruso. Attraverso il buio mi accorsi che lei si irrigidiva, che incassava ancora di più il capo nelle spalle e indietreggiava. Mi avvicinai piano, le presi le mani guantate tra le mie, mi accucciai di fronte a lei. Quando sentii che era il momento, infilai i guanti che aveva usato la madre.
Il gelo, la durezza della pietra e l’incandescenza, le punte di mille spine, la morbidezza soffocante di un palmo, un fiotto d’acqua prima umido, poi tagliente… le sensazioni che mi assalirono furono troppe, contraddittorie, impossibili. Quello che il visore mi aveva mostrato era solo un disegno a pastello, la versione edulcorata di una storia primordiale e feroce. Solo ora, attraverso il tatto, esperivo davvero ciò che la bambina stava immaginando. Non avevo mai conosciuto un dolore più profondo.
Singhiozzai, caddi in ginocchio, non riuscivo a raccogliere la forza, la lucidità per sfilarmi i guanti. Sentii un tocco sulle guance, qualcosa che non poteva essere parte della simulazione. Le mani della bambina, tiepide di sudore, mi carezzarono i muscoli della mandibola, tesi in un urlo muto, e salirono fino a coprirmi gli occhi. Era questo che cercavi dall’inizio, pensai, sono la cavia dei tuoi esprimenti. Per tutto questo tempo, al di là dei sogni e degli incubi, dell’irrealtà e delle macchine, del tatto e della vista, mi hai usato per sentire qualcosa di vero. Volevi scaldarti le mani con le mie lacrime.
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Elia Gonella è nato ad Arzignano (VI) nel 1987. Vive a Milano ed è responsabile di una biblioteca. Ha pubblicato tre romanzi e decine di racconti in antologie e riviste. Ha scritto per il cinema, la televisione e il fumetto. Nel 2025 ha vinto il premio Urania con il romanzo Occhi dal cielo.
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