Poesia e filosofia alla prova del contemporaneo
Domani a Bologna, alla libreria Punto Input, si terrà l'evento «Volere tutto. Da Balestrini a Lamborghini», secondo appuntamento della rassegna «Poesia e filosofia» ideata e curata da Lorenzo Mari, Luciano Mazziotta e Machina-DeriveApprodi.
Dopo l'articolo di Luciano Mazziotta, 10 frammenti su poesia e filosofia, pubblichiamo oggi una riflessione di Lorenzo Mari che prosegue l'analisi sul rapporto tra le due discipline.
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1.
Tante sono le posizioni dalle quali è stato attivato, e può essere ancora riattivato, un percorso tra poesia e filosofia in epoca contemporanea. Diventa perciò legittimo supporre che tale dialogo sia rimasto sostanzialmente ininterrotto dall’antichità classica fino a oggi, postulando quindi una solida omogeneità di fondo, quando invece vi sono frizioni e tensioni che vale la pena esplorare.
Ne dà testimonianza, ad esempio, il volume del 2019 per Columbia University Press, a cura di Ranjan Ghosh, Philosophy and Poetry. Continental Perspectives, in cui sono incluse e analizzate le prospettive, a tal proposito, degli esponenti più rilevanti della filosofia continentale del secondo Novecento e contemporanea come ad esempio Gilles Deleuze, Giorgio Agamben, Jean-Luc Nancy o Luce Irigaray. Tra questi, e senza dimenticare un contesto più ampio e inevitabilmente frammentato, può risultare di particolare interesse – anche alla luce del parallelo intervento di Luciano Mazziotta – la diade che viene ad essere composta da Jacques Rancière e Alain Badiou. Appartenenti alla stessa generazione (Badiou è nato nel 1937, Rancière nel 1940), di poco successiva a quella degli intellettuali afferenti, nel secondo Novecento, alla temperie post-strutturalista come Foucault, Deleuze e Derrida, Badiou e Rancière presentano importanti risvolti critici rispetto al pensiero di chi li ha preceduti e apportano consistenti deviazioni teoriche.
Vi è, ad esempio, un ritorno rilevante di entrambi al rapporto tra poesia e filosofia, non più così centrale nella produzione teorica post-strutturalista. Da un lato, Badiou si posiziona contro ogni heideggerismo e dichiara esaurita «l’età dei poeti» – definendo con questa espressione un campo largo aperto anche alla filosofia, alle cui estremità potrebbero essere collocati Nietzsche e Paul Celan. Il tentativo è quello di sfuggire a una riflessione sull’ontologia, dalla quale, tuttavia, Badiou non riesce a divincolarsi completamente: se infatti Lacoue-Labarthe – reagendo personalmente contro la critica di Badiou, che riguarda anche un «filosofo-poeta» come lui – individua il nesso tra poesia e filosofia come luogo di possibilità per la stessa filosofia di Badiou (nella Poesia come esperienza, libro tradotto in italiano nel 2022), Alberto Moreiras rintraccia in Badiou l’affiliazione a un complesso «heideggerismo di sinistra», dove non c’è davvero una parola finale per «l’età dei poeti», nel loro dialogo con la filosofia, se non per quella sutura politico-filosofica che si pone al servizio – secondo un’interpretazione heideggeriana più «di destra», si potrebbe aggiungere – di una (dunque falsa) «re-sacralizzazione dell’esistenza».
Per quanto riguarda Rancière, invece, egli sposta progressivamente l’asse della propria riflessione dalla formazione marxista verso la letteratura e le arti visive, nel tentativo di definire il «regime estetico» che è stato inaugurato dalla modernità, in rottura con il rigido sistema dei generi di derivazione aristotelica. In tale regime può allora avvenire quella «redistribuzione del sensibile» che forgia nuove ipotesi, intrinsecamente politiche, rispetto a quello che si può dire, vedere e fare. Con la caduta delle precedenti gerarchie, qualsiasi materiale è diventato disponibile per l’elaborazione artistico-letteraria: lo splendore è diventato «ordinario» – per citare Mallarmé, uno dei primi poeti, secondo Rancière, a formulare esplicitamente tale disponibilità, che poi si è manifestata in molti modi negli ultimi due secoli, probabilmente fino alle recenti teorizzazioni goldsmithiane della «scrittura non-creativa».
Si potrebbe dire molto altro – e in questo contributo si cercherà di dire qualcosa in più sulle posizioni di Rancière – ma, tornando al sommario inquadramento storico già anticipato, si può subito osservare come la ricezione italiana di Badiou e Rancière appaia chiaramente radicata nel dibattito poetico italiano delle ultime due decadi: per citare solo alcuni esempi, Rancière ha goduto di una certa fortuna nella militanza culturale radunatasi intorno a Nazione Indiana all’incirca tra il 2007 e il 2013 – attorno al Partage du sensible (2000) e, successivamente, alla Politique de la littérature (2007) – mentre la stessa traduzione di alcuni testi di Badiou (Il risveglio della storia, 2012, e Lo splendore del nero, 2017) è stata affrontata da un poeta-traduttore come Michele Zaffarano e da un poeta-editor come Vincenzo Ostuni per Ponte alle Grazie.
D’altra parte, e secondo linee più generali e inevitabilmente sommarie, il dibattito poetico successivo – per quel che afferisce al suo sguardo fuori dai confini, si intende – sembra aver ripiegato verso una polarizzazione tutto sommato più rassicurante – forse perché pienamente inserita nella «età dei poeti» rintracciata da Badiou – tra Benjamin e Heidegger. Parallelamente, la riflessione filosofica coeva sembra essersi attestata all’altezza della tradizione post-strutturalista, insieme alla torsione della filosofia verso la teoria – intesa come theory – e al debordare, anche negli ambienti accademici europei, degli Studies nati in area angloamericana.
Pare inutile, nonché presuntuoso, cercare di riconciliare questi strappi reciprocamente asimmetrici e questo divario. Allo stesso tempo, tornare a proporre oggi – dopo quasi dieci anni di condiviso «ripiegamento», se si vuole, verso altri territori – un riferimento a Rancière (insieme a Badiou) può essere utile, non per farne un riferimento filosofico e politico sine qua non e decisivo, ma come cartina di tornasole, o meglio come riferimento dialettico, per alcuni fenomeni culturali che sono avvenuti o che si stanno ora sviluppando.
Tutto questo, come premessa per stare nel tempo, storicizzando la ricezione di alcuni testi che possono certamente continuare ad esercitare il loro fascino ancora oggi.
2.
Fuori dunque da ogni pretesa di darne una sintesi completa (com’è stato fatto in questi anni da Jean-Philippe Deranty e, in lingua italiana, da Giovanni Campailla), s necessario isolare alcuni nuclei del pensiero di Rancière che sembrano più utili di altri per una ricognizione aggiornata dei possibili territori sospesi tra poesia e filosofia in ambito italiano.
La partizione del sensibile, innanzitutto, come recita il titolo del libro uscito in francese nel 2000: riflettendo sulla tradizione inaugurata dai veti sulla poesia nella Repubblica di Platone, Rancière ne rintraccia uno dei motivi fondamentali nella pericolosità sociale della pratica mimetica (il principio mimetico consente di «fare due cose alla volta», mentre il principio della comunità ben organizzata, secondo Platone, è che ciascuno «farà una cosa sola», quella alla quale è destinato dalla sua «natura»), più ancora che nei rischi propri del simulacro. La pratica poetica, come altre pratiche artistico-letterarie, mira alla redistribuzione del sensibile, interrompendo e ricostruendo (con ciò, riconfigurando) i nessi tra ciò che si può dire, ciò che si può vedere e ciò che si può fare al di la della loro presunta univocità (di tipo «poliziesco», mentre la «politica», per Rancière, ad esempio nel Dissenso, del 1995, è basata sulla «sovversione del sensibile»). In questo, la pratica artistico-letteraria non è soltanto «eccezione» o «eccedenza» ma è un contributo essenziale al fare politico che non necessita, a questo proposito, di ricorrere a una specifica posizione ideologica o attitudine engagée né a particolari scelte tematiche, ma può essere «politica» in funzione dei suoi stessi procedimenti di formalizzazione.
Ne deriva una visione del regime della visibilità come costitutivo del regime estetico, in una relazione, di fatto, dialettica con la concezione di «regime della visibilità» adottata, per esempio, negli studi culturali. Da un lato, la posizione di Rancière rende più complessa la questione della visibilità – superando e integrando il piano di una semplice critica tematica o delle rappresentazioni, così come viene spesso praticata nell’ambito degli studi culturali, e in relazione a prodotti culturali che sono di vario tipo, ma con frequente esclusione dei testi poetici – apparentandola, per ragioni intrinseche ai singoli procedimenti di formalizzazione di un testo, a un «regime estetico» più ampio.
D’altra parte, come ha sottolineato, tra gli altri, Timothy Huzar – nella sua tesi di dottorato, accessibile qui, e successivamente in un articolo per Cultural Critique (2021) – il regime della visibilità adottato da Rancière prevede, in un’ottica che è più di egalitarismo radicale che non di analisi schiettamente marxista, che l’accesso alla visibilità da parte di chi ne abbia subito esclusione sia anche l’accesso a quello stesso livello della comunità politica goduto da chi è già visibile. Tale accesso non si limita a un’integrazione, di stampo liberale, in un contesto politico immutato, ma ha certamente un impatto poietico – vi è una chiara omologia tra la presa di parola operaia, intorno al 1850, così come viene analizzata da Rancière ne Les nuits prolétaires (1981), e la modernità poetica, inaugurata più o meno nello stesso periodo da Baudelaire – e quindi trasformativo sulla comunità in questione. Tuttavia, se confrontata con le coeve posizioni di Saidiya Hartman, in particolare in Scenes of Subjection (1997), la proposta teorica di Rancière non sembra prendere in considerazione chi non voglia o non possa avere accesso alla stessa visibilità e comunità politica, mantenendosi invece sulle posizioni di una fugitive politics, o «politica fuggitiva».
A questo proposito, è chiaro il radicamento nella storia della popolazione afroamericana, dal Middle Passage fino ai giorni nostri, passando, dunque, per una secolare esperienza di fughe dalla condizione schiavile: dal punto di vista estetico questo è stato più volte ribadito nella letteratura afroamericana – tanto in un romanzo come Beloved (1997) di Toni Morrison come in un’opera di poesia sperimentale come Zong! (2008) di Marlene NourbeSe Phillip – come il «doppio vincolo» di una storia la cui trasmissione è necessaria e al tempo stesso impossibile. Come suggerirà poi anche Fred Moten, il passaggio dalla phoné al logos di chi è nell’invisibilità e «non ha voce» non tiene conto di chi, da una posizione fuggitiva, continua a produrre suoni infraudibili o per contro rumorosi (come black noise), che restano al di sotto delle condizioni di udibilità della comunità politica così come i «beni sottocomuni» teorizzati da Moten e Harney in Undercommons (2013) restano in qualche modo sotto i «beni comuni».
In questo senso, se la poesia italiana non ha ancora aperto un vero confronto con la «politica fuggitiva», ciò lo si può imputare, di fatto, al mancato attraversamento, in tutta la sua complessità, della possibile dialettica tra la riflessione sulle esclusioni dal «regime della visibilità» che sono proprie degli studi culturali, o della theory, e quelle che derivano da un’estetica come quella rancièriana. Quest’ultima presenta un secondo nucleo di interesse nel secondo capitolo dello Spettatore emancipato, «Le disavventure del pensiero critico», risalente a un articolo di Rancière già pubblicato nel 2007. Qui Rancière analizza i fenomeni complementari della «malinconia di sinistra» (oggetto anche di un fortunato saggio di Enzo Traverso del 2016) e del «furore della destra» – che di certo non hanno perso, anzi hanno aumentato la loro presa sull’agone politico contemporaneo – come sintomatici della crisi della critica, e della cosiddetta «arte critica», compreso anche il loro versante cosiddetto «post-critico». A tale crisi concorrono l’impotenza della ragione illuminista e la spettacolarizzazione della contestazione anticapitalista, destinate entrambe ad essere fagocitate – sussunte, in senso marxista, anche se Rancière non sembra amare questo termine – dalla stessa logica che le ha generate; quel che vi si può opporre è una serie di «ipotesi irragionevoli» che risuonano con quanto teorizzato anche altrove da Rancière:
Riconfigurare il paesaggio del percettibile e del pensabile vuol dire modificare il territorio del possibile e la distribuzione delle capacità e delle incapacità. Il dissenso rimette in gioco allo stesso tempo l’evidenza di ciò che è percepito, di ciò che è pensabile e fattibile, e la separazione di quanti sono capaci di percepire, pensare e modificare le coordinate del mondo comune. Il processo di soggettivazione politica consiste infatti nell’azione di capacità impreviste che vengono a scindere l’unità del dato e l’evidenza del visibile per disegnare una nuova topografia del possibile. L’intelligenza collettiva dell’emancipazione non è la comprensione di un processo globale di assoggettamento, essa è la collettivizzazione delle capacità di chiunque, della qualità degli uomini senza qualità.
Ciò non equivale a dire che tutti gli uomini sono poeti, né in senso assoluto né in altre accezioni, se non a quella che – attraverso la mediazione del Maestro ignorante Jacotot, ricordato più avanti – mantiene un’omologia con il gramsciano tutti gli uomini sono filosofi («non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens», Q 12 § 1)
Da ultimo, e tornando a una questione di matrice storiografica, si può annotare come Rancière rifletta spesso su autori di poesia del diciannovesimo secolo come antesignani della modernità poetica: da Wordsworth e Keats a Whitman (passando, in quest’ultimo caso, per la mediazione filosofica di Ralph Waldo Emerson, in Aisthesis), Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé (con una particolare menzione per Rimbaud, cui Rancière dedica un saggio, nel 1993, per sottolineare l’inclusione nell’idioletto rimbaldiano di altri lingue e registri, secondo una mossa all’epoca rivoluzionaria).
Al contrario della lettura di Pessoa da parte di Badiou – al centro della sua «inestetica» (1998), nelle intenzioni anti-heideggeriana, sta la «metafisica senza metafisica» rintracciata, sulla scorta di Judith Balso, proprio in Pessoa – Rancière non concede molto spazio al modernismo, considerandolo, con lo stile tranchant di un’intervista, una sorta di «invenzione a posteriori» operata dal marxismo, e quindi, in particolare, da Adorno. Modernismo transnazionale che invece è stato recente oggetto di riscoperta anche nella poesia italiana delle generazioni più giovani – con nuove traduzioni di William Carlos Williams, T.S. Eliot, César Vallejo (e anche Rainer Maria Rilke, oggetto, da parte di Luciano Mazziotta, di un peculiare intervento autoriale) – mentre Baudelaire (appena ri-tradotto da Milo de Angelis), Mallarmé (ne è in uscita il Meridiano curato da Valerio Magrelli) e Rimbaud (ultimamente ritradotto in varie edizioni, ma in ambito poetico si possono ricordare, ad esempio, le traduzioni Garzanti di quarant’anni fa ad opera di Dario Bellezza) restano appannaggio delle generazioni precedenti.
Un discorso a parte meriterebbe ancora la ricezione di Beckett, che, insieme a Celan, resta un punto di riferimento indiscusso trasversalmente alle generazioni e agli ambiti poetici. Se anche in questo caso la frequentazione di Beckett da parte di Rancière non sembra granché esplicitata, Beckett è invece terreno di dissidio tra l’interpretazione virata in negativo di Adorno (nel saggio «Tentativo di capire Finale di partita» del 1961) e quella virata in positivo di Badiou (Beckett. L’inestinguibile desiderio, del 1995). Senza ripercorrere l’intera questione, sembra però opportuno sottolineare il ruolo centrale di Finale di partita, dove «la filosofia, lo spirito stesso», come scrive Adorno, «si dichiara come fondo di magazzino, rimasuglio irreale del mondo dell’esperienza» e anche «il processo poetico [si dichiara] come logorio». È in particolare la filosofia ad essere diventata parodia di sé stessa, come nella battuta di Hamm: «Mi piacciono le vecchie domande. Ah, le vecchie domande, le vecchie risposte, che c’è di più bello!». Nella sua scrittura, Beckett a toccare il grado zero sia della filosofia sia della poesia; non è infatti compito della pièce denunciare la filosofia come autoparodia, in un senso quasi moralistico, anzi, come scrive Leonardo Distaso, «la pièce non pensa affatto di essere la parodia di un pensiero tradotto filosoficamente poiché già questo è la parodia di sé nell’epoca in cui il banale è male». Distaso trova comunque uno spiraglio, in Beckett, che riporti il «dialogo tra filosofia e poesia» e si tratta, di nuovo, di una ripartenza anti-platonica:
Dimenticare la vocazione socratica e la condanna platonica – il compito più difficile e anche più rischioso – vuol dire anche smettere di spiegare tutto alla gente, la stessa gente che Platone vuole condurre fuori dalla caverna e che Socrate dice che ragionava meglio dei poeti: «HAMM: Ah, la gente, la gente, bisogna sempre spiegargli tutto». Adorno spezza questo incantamento per ritrovare l’incantesimo della poesia (dopo Auschwitz) oltre la comunicazione che annuncia l’impossibilità della comunicazione stessa e che riporta la parola a sé stessa: «L’idea che “alla gente bisogna sempre spiegargli tutto” viene inculcata ogni giorno da milioni di superiori a milioni di subalterni. Il nonsenso che si vuole motivare... non soltanto è crudelmente illuminato dalla stoltezza del cliché occultata dall’abitudine, ma è anche espresso contemporaneamente dall’inganno del parlarsi». Ed è proprio svelando questo inganno, dissolvendolo nell’estremo assurdo in cui non è possibile distinguere la quiete del nulla e quella della conciliazione, che la filosofia può di nuovo incontrare la poesia…
Non sembra un caso, a questo proposito, che almeno un’affermazione di Adorno tra quelle coitate – «l’idea che “alla gente bisogna sempre spiegargli tutto” viene inculcata ogni giorno da milioni di superiori a milioni di subalterni» – risuoni così bene con le pagine sul Maestro ignorante di Rancière, offrendo così, come si vedrà nell’ultimo passaggio, un appiglio per un nuovo tornante dialettico della questione, forse il principale.
3.
Ogni discorso che torni a intrecciare poesia e filosofia tenendo conto di questi riferimenti che possano sorgere dal confronto dialettico con le opere di Rancière, Badiou, o ancora altre opere e riferimenti, non intende con ciò ricadere nelle aporie e contraddizioni proprie di chi si impone di cercare un’alternativa alla crisi della critica militante, in ambito poetico (secondo una lamentatio ricorrente negli ultimi anni, ma non sempre fondata), o alle secche di una critica letteraria su base filosofica (mentre anch’essa esiste e gode di buona salute).
Si cerca, piuttosto, di porre nel tempo – «storicizzando, storicizzando sempre!», à la Jameson – una riflessione che sia anche fuori dal tempo, poiché è «perdita di tempo» sia nel senso del privilegio sociale del lavoro intellettuale sia in quello di gratuità e necessità, collocabile oltre ogni decretato «finale di partita». Si tratta di agire nel contemporaneo stando contro il tempo: né nel tempo della canonizzazione, né fuori dal tempo di una contemporaneità come a-temporalità assoluta.
Ad essere contro il tempo è, ancora una volta, il movimento dialettico che può essere rimesso in moto dall’opera di Rancière, pensando, ad esempio e in chiusura, all’orizzonte ultimo delle sue riflessioni sull’estetica: emancipazione, in senso post-marxista – come, nomen omen, nello Spettatore emancipato – e non più rivoluzione. È la traiettoria di chi, formatosi alla scuola di Althusser, se ne è rapidamente distaccato, trovando nel maestro Joseph Jacotot (1770-1840), modello del Maestro ignorante (1987) una «figura esattamente opposta a quella di Althusser», come scrive Campailla. Avendo postulato il principio della «uguaglianza delle intelligenze» tra insegnanti e discenti – principio poi sviluppato da Rancière anche in ambito estetico, sempre a partire dallo Spettatore emancipato – Jacotot è un modello per l’egualitarismo radicale che si va sostituendo, nel pensiero di Rancière, alle precedenti affiliazioni marxiste e post-marxiste. Sempre seguendo Campailla, è a partire dal confronto con il «maestro ignorante» che per Rancière
[…] non dovrebbe più essere posto un unico paradigma che condizioni tutti gli altri conflitti, come l’idea che solo la lotta della classe operaia determini un vero rapporto antagonistico con il sistema capitalistico. Ma piuttosto l’emancipazione dovrebbe essere intesa come una serie di scene conflittuali, capaci di scardinare – in modi non predeterminati da alcuna teoria – la partizione sociale che divide gli individui per riunirli in una comunità unitaria e gerarchica.
Un’analisi approfondita delle «scene conflittuali» teorizzate da Rancière (magari in contrasto con quell’accezione di «scena», meramente legata alla spettacolarizzazione dell’oppressione, presente in Scenes of Subjection di Hartman) va al di là degli scopi e della misura di questo contributo, che invece si chiude con la serie di interrogativi che possono scaturire da questo ultimo riferimento alle fondamenta, materialisticamente intese, del percorso intellettuale di Rancière: emancipazione, rivoluzione, o che altro ? Qual è l’orizzonte della politica in cui si muove oggi l’intreccio tra poesia e filosofia? Quale può essere una praticabile interpretazione del sistema capitalista contemporaneo? Quale contemporaneità resta possibile contro il tempo della contemporaneità, quando quest’ultima sembra avere ormai sussunto ogni logica della critica e della contestazione?
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Lorenzo Mari (Mantova, 1984) vive e lavora a Bologna. Ha pubblicato alcuni libri di poesia, tra i quali i più recenti sono Querencia (Oèdipus, 2019) e Soggetti a cancellazione (Arcipelago Itaca, 2022), e alcuni saggi, tra cui Il taccuino dell’intellettuale. Disegno e narrazione nell’opera di John Berger (Mimesis, 2020). Traduce dall’inglese e dallo spagnolo, come nel caso del saggio Riot Sciopero Riot. Una nuova epoca di rivolte (Meltemi, 2023) di Joshua Clover e del libro di poesia Trilce di César Vallejo (Argolibri, 2021). Ha curato l’edizione italiana di ZURITA. Quattro poemi di Raúl Zurita (Valigie Rosse, 2019) nella traduzione di Alberto Masala.
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