Gli anecoici
- Silvia Tebaldi
- 8 ago
- Tempo di lettura: 10 min

Samia Osseiran Junblat, Formative Radiation, 1968-1970
Un racconto di Silvia Tebaldi per il calendario estivo di Machina.
***
Tutto iniziò vent’anni fa, in un maggio stranamente caldo.
Tranne che al piano zero, cioè nel blocco operatorio, i condizionatori furono spenti in tutto il padiglione. Perché gli impianti erano vecchi, ci dissero. Per evitare i blackout.
Poi, quattro mesi d’inferno. Finestre e correnti d’aria divennero una comune ossessione: nausea, malori e litigi, il comune sgomento che imperava; e di notte, solo di notte, tutte le finestre aperte.
E ai primi di settembre trovammo dei nidi nelle scale, nei corridoi, negli uffici, e uccelli morenti fuori dalle cove. Ammassi pulsanti di piume, gusci d’uovo, sporcizia e garze.
Ci furono tre scosse di terremoto, tre sere di seguito, quasi alla stessa ora. Io c’ero, e con me i miei compagni: avevo ventidue anni ed eravamo allievi interni, in clinica notte e giorno.
Dopo la disinfestazione, tutto sembrò di nuovo normale: una combinazione casuale di eventi, dissero.
Di quell’estate resta nel ricordo – ma è un ricordo del corpo, di quelli che non spariscono – la qualità maligna dei rumori.
Sono una dei trenta medici interni del padiglione 5.
Viviamo in clinica. Abbiamo stanze singole, un servizio mensa, l’uso di una piccola palestra. Possiamo uscire la domenica mattina, dalle sei, e rientrare entro le sette del lunedì mattina. Ma a uscire siamo pochi.
Vivere qui è più sicuro, e trovare scarpe borghesi, calzoni da città, è quasi un’impresa; e nessuno di noi ha famiglie, figli, né mantiene una casa propria per i sabati e le domeniche.
E poi siamo in un progetto di ricerca, un progetto internazionale molto importante. Importantissimo, come dice il Cislaghi. L’uomo che ha preso in mano l’azienda ospedaliera, fin dal principio di quest’era torrida.
Per tutta la notte, la centrale termica inverte il suo ciclo. E con il ciclo, il suo urlo: dai gravi agli acuti, più lunghi e battenti, nel riciclo continuo dell’acqua. Di giorno scambia aria calda con fredda, acqua calda con fredda: un rumore diverso, tutto appoggiato sui bassi, peraltro ugualmente fastidioso. Ma nel silenzio della notte, se appena esci in corridoio, ti senti in un hangar aerospaziale.
Siamo internisti, ematologi, anestesisti e chirurghi. Donne siamo sette. Prima le nostre stanze erano al piano terra, dietro il blocco operatorio, proprio sopra la centrale termica. Ora, dalla finestra della mia stanza al decimo piano, vedo laggiù i condotti metallici e il fumo, muto e bianco, che si impiglia ai rami della palma.
C’era un ippocastano, laggiù, prima di quella strana estate.
Se lo ricorda, quell'ippocastano, se lo ricorda bene anche Izaias.
Alcuni mesi fa lo ho portato da Milena, mia cugina, nel nulla in mezzo ai campi dopo Ostellato. Abbiamo preso uno di quei taxi grigi a idrogeno, Izaias e io, poi il treno delle sette. Nessuno di noi, di noi medici interni, nessuno di noi ha un’auto.
Laggiù, verso la casa di Milena, la ferrovia arriva ancora: vecchi treni verdi, lenti e pazienti, e c’era un cielo come qui in città, qui sopra all'ospedale, qui insomma proprio non vedi mai. E qualche gabbiano sul canale.
Milena ha prestato a Izaias un maglione azzurro, poi la sera glielo ha regalato: – Lo tenga, dutór. L’ho fatto io.
– Te lo ricordi l’albero vecchio davanti alla clinica? – mi ha chiesto Izaias, guardava l’ippocastano di Milena, fiori rosa su fusti eretti, foglie come mani nel vento. – Era come questo, Izaias, ma i fiori erano bianchi.
Ricordi. Pericolo. Una notte di vent’anni fa, sotto quell’ippocastano ospedaliero non ancora morto di caldo ci eravamo baciati a lungo, Izaias e io. Stupiti dalle pulsazioni, dal respiro, dalla forma dei nostri due corpi.
Più volte ci hanno messo in guardia contro i ricordi, forme spurie di eco, il Cislaghi e il Nucleo del Progetto. Come in altri contesti specialistici, anche nel nostro gruppo è in uso un’inibizione selettiva, una pillola che pulisce la memoria superflua. Ma forse non ci serve, questa pillola. Perché ricordi, qui, ne abbiamo pochi.
Ci sono vari gruppi di interni, qui in ospedale, ma noi siamo stati i primi. Con tutto fornito dall’azienda, tutto nuovo e di qualità e protetto. E nessun contatto con il mondo fuori, cioè nessun contatto che non sia mediato, filtrato, nelle sedi opportune dell'azienda. Benefit mica irrilevanti, e fin da subito: cioè dopo le prime morti per il caldo, i focolai epidemici, le aggressioni e i blackout.
Del resto, a un’azienda ospedaliera che stentava a sfangarla il Progetto sta portando un bel sacco di soldi. Fondi internazionali, fondi neanche tutti conoscibili. Solai e condotte e impianti vanno in malora ovunque, ma qui da noi c'è la luce e l’acqua, oltre alle tecnologie per il Progetto. Quattro menu-tipo, docce calde ogni sera e ogni mattina: proprio non manca niente, qui.
Quel pomeriggio Milena ci prestò due biciclette, a me e a Izaias. Lui non ci saliva da secoli e infatti è caduto subito, ma subito ha iniziato a divertirsi e abbiamo preso lungo la valle, verso la vecchia idrovora.
Con Izaias non ci eravamo più toccati, in tanti anni, se non passandoci una biro o il sale alla mensa. Eppure tutti ci abbiamo provato con tutti, qui: tutte e tutti con tutti e tutte, e nemmeno soltanto uno alla volta. Tra il corridoio e i turni di notte mensili c’è stata tutta una geometria di tentativi, di approcci, di segmenti e poligoni, sempre finiti in nulla. E non certo perché siamo timidi: siamo clinici, sappiamo bene come è fatto il corpo. Altro che timidezza, altro che goffaggine.
Eppure.
Goffi tentativi di arrivarci in fondo.
Oltre l’idrovora c’è un fienile cadente, una piccola cattedrale scoperchiata. L’avevo già visto mesi fa, mentre andavo con Milena verso Libolla, da certi parenti che non conoscevo. Un fienile che crolla, l’edera, un fico impassibile e sovrano.
Izaias ha la pelle scura, secoli di deserto nel DNA.
Non ci siamo svestiti del tutto. Sotto le arcate di mattoni, l’odore dell’erba e il suono dell’acqua; acqua che scorre, neanche una parola. Una clessidra d’acqua, il sole che si inabissa nel canale, l’orgasmo come un doppio fuoco.
Nessuno ci obbliga, a noi trenta. Non è poi male la vita qui dentro, nel padiglione 5: la scelta tra quattro menu-tipo, la sveglia alle otto meno un quarto, vero caffè e cacao per colazione. Vera ricerca clinica. Calmi, efficienti e in piena carriera. Mezzo impotenti e pieni di lavoro. Siamo così, noi trenta, così e basta.
Fuori la città inaridita, piena di crepe, e la fontana maggiore piena di ghiaia. Gente sfinita, caos, anni di gentrificazione e poi il centro vuoto, solo uffici e negozi per turisti. E una metastasi di nidi. Sembra che sia andata bene solo agli insetti, agli insetti e agli uccelli. Gli uccelli, soprattutto: sono miriadi, gridano e oscurano il cielo nelle albe verdastre, poi muti fino a sera. Poi ricominciano a gridare.
Nella bassa siamo tornati ogni sabato, Izaias e io. I sabati e le domeniche in campagna. Pomeriggi nei campi, un vecchio lenzuolo steso sull’erba, le antiche lingue di quel fuoco liquido.
Non è un paradiso terrestre, la casa di Milena e la campagna. È solo una faglia tra due inferni. Dove una perdita d’acqua, l’aberrazione di un’idrovora, un gioco asintotico di correnti, un'amnesia dell'ingegneria idraulica, un canale diversivo in malora, generarono un’isola e una tregua.
Milena ha invitato a cena vicini e amiche. Ognuno con molte vite, e storie da raccontare, sopravviventi al tempo e alle epoche. Izaias parla di ricette di casa, del servizio nel deserto, di piante selvatiche cibo e memoria.
E oggi è venuto da me con un coltello.
Ci vuole molta energia per alimentare gli impianti elettromedicali. E altra energia per raffreddarli. Costi che solo il Progetto, con le sue risorse, può sostenere. E il Progetto prevede la riduzione di tutti i servizi di Chirurgia e di Farmacologia. Prevede lo sviluppo della Terapia Strumentale, che è il futuro: e infatti noi curiamo con ultrasuoni, infrasuoni, vibrazioni e simulazioni. Curiamo, studiamo, pubblichiamo.
Il nostro stato psicofisico è eccellente. Rita Rizzi è appena sottopeso, Rossini ha un inizio di artrosi, io ho un sacco di peli superflui e gli occhi tra color oro e giallo, ma è genetico (e niente di patologico, e infatti anche Milena, mia cugina, è come me) e Veltri è ipoteso – cose così, cose normali.
Il nostro ego è un’entità debole. Lavoriamo in squadra, in équipe, con riferimento al Progetto e al suo Nucleo, lavoriamo senza passioni e senza invidia: pochi ricordi, poche parole. E le nostre stanze sono tutte insonorizzate. Quelle annesse alle sale di cura, certo. Ma anche le nostre camere, dove ogni gesto affonda nel silenzio.
Per tutelare il nostro udito, per il benessere uditivo, così specifica il Progetto. Così è scritto nel disciplinare che chiarisce tutto il campo di possibili interazioni extrauditive. Tanto progresso era impensabile, prima: le nostre cabine erano sopra la centrale termica, con trenta gradi celsius e insufficiente ricambio d’aria. Rumore di impianti continuo e monotono ma tuttavia modesto, anzi modico, e modeste le vibrazioni del pavimento. Intensità e frequenza non rilevanti, scrissero nel rapporto: dunque, un fortuito insieme di concause.
Benessere uditivo, dice il Progetto. Ma io non ci credo più.
Sì, stiamo bene, esami e valori sotto controllo. Ma siamo tutti, tutti e tutte trenta, tutti e del tutto sordi all’eco.
Quando si ammalò Milena prese il treno, e attraversò la città riarsa. Mi ha cercata. Non ci vedevamo da vent’anni. L’hanno curata Veltri, che è un endocrinologo, e Izaias che è un ottimo chirurgo: e mentre lei guariva, il mondo fuori tornava nella mia vita. Sa un sacco di cose, Milena: vive in campagna, sa fare di tutto. Ed è stata lei a dirmi il nostro nome segreto: l’ha saputo da uno delle cucine ospedaliere ovest.
La faccenda è nota, dunque: solo noi trenta non lo sapevamo. Mica ce lo vengono a dire, il Cislaghi e il suo Nucleo.
Gli anecoici, ci chiamano. I senza eco.
– Io il Cislaghi lo uccido, mi ha detto Izaias: – ho quarantasei anni, Sara, una vita buttata via. Una vita così bianca. Io vado là e lo uccido.
– Dove l’hai preso – gli chiedo, e indico il coltello. Mai visto, in clinica, un coltello simile. Non uno dei suoi bisturi perfetti: ma un vecchio coltello da cucina, con il manico in legno di pero.
Io, Sara, da sei anni mi sveglio alle quattro, e sempre con un tremito nelle ossa. Quando la centrale termica inverte il ciclo emette frequenze bassissime: non le sente l’orecchio ma tutta la struttura ossea, e non c’è fonoassorbimento che sia efficace. Ricordo la prima domenica in cui sarei partita per andare da Milena, ricordo che mi svegliai alle tre, stavo sognando che perdevo il treno. Ero lì sveglia nel buio ed ecco che arriva l’ora del ciclo inverso, quest’urlo muto nelle condutture, come un terrore dentro il cavo del corpo, dentro ogni spazio dal diaframma alla pelvi. E da allora ci sono stata attenta. E ho iniziato a capire. Non sapevo perché, ma non l’ho mai detto a nessuno. E ora, e adesso so perché.
– Cosa mi sono perso – dice Izaias. Sembra gelido, gelido ancor più che calmo, però dice: –Come ho vissuto, come mi hanno ingannato. Io vado dal Cislaghi, vado al Nucleo, o lui o io.
– Ogni uomo si fa di queste domande, tutti gli uomini e tutte le donne. Ma ora metti giù quel machete, Izaias.
Era calmo, sì. Ma io avevo paura, per la prima volta da tanti anni. Sei così bello, avrei voluto dirgli. Sei un gran fico, Izaias. Ma gli ho detto soltanto: – Sei un medico, se fai una cosa falla per bene.
Ascolta, Izaias. Ci sono altri modi di vivere, certo. Tanti altri, ma non ci interessano. Noi lavoriamo sodo, siamo calmi, affidabili. Siamo un gruppo di ricerca all’avanguardia. Siamo sopravviventi a un collasso storico. Siamo ricercatori clinici. E non abbiamo eco. Ero così anch’io, poi ho preso a passare i sabati, le domeniche, tra i canali e i pollai, in un pezzo di terra risparmiato dall’arsura. E qualcosa è cambiato.
Il coltello gliel’ha dato Milena, a Izaias. Glielo ha dato, oppure lui se l’è preso.
E mi è tornata in mente domenica sera, Izaias con lo sguardo pieno di pianure, di canali e pioppi, ma già eravamo pronti a tornare in clinica. E addosso ho sentito come un fuoco, e
allora ho ripassato il Progetto, i documenti e i rapporti, parole che mi sembrava di capire bene. Invece le capisco solo adesso.
Si sa un sacco di cose, tantissime, su vibrazioni e rumore.
Danni da rumore secondo intensità e frequenza. Effetti sull’umore, sull’equilibrio, sulla pressione del sangue. Strumenti di lavoro vibranti. Danni acustici e vestibolari. Camere anecoiche. Suoni bianchi. Tra i 15 e i 20 Hertz risonanza dei globi oculari, con nistagmo e illusioni ottiche.
Ma non si sa niente, davvero niente, degli effetti nel tempo di una miscela di caldo, aria pesante, rumori anche modesti ma continui, a basse frequenze, e vibrazioni in pavimenti e arredi trasmesse al corpo.
La centrale termica, quel drago sotterraneo ogni mattina.
La morte dell’eco. Un moderno antivirus biochimico, studiato apposta contro i ricordi.
E chissà che schifezze, nei quattro menu-tipo.
Gli effetti del rumore siamo noi, noi trenta, Izaias.
Del Progetto noi siamo gli attori, anzi i protagonisti: questo ci hanno detto mille volte, il Cislaghi e il suo Nucleo. Invece, noi ne siamo l’oggetto.
Un’équipe di monaci laici, iperspecializzati e acritici, indifferenti a tutto tranne al lavoro. Gli anecoici. E impotenti, non fosse che per disperazione.
Prima di quell'estate c'era stato il mito della realtà virtuale, poi quello dell’intelligenza artificiale, insomma tutto un marchingegno di tecnologie per simulare il sensorio, e il pensiero, di un umano cosiddetto normale. Poi è venuta l’età torrida, Izaias.
E noi siamo i suoi primitivi, anzi i mutanti privilegiati.
Poi ho guardato Izaias, gli vedo in viso come un soprassalto. Come un eureka, come una epifania.
– Mutilare il sensorio di un essere umano, chiuderlo in una gabbia, in un guscio. Rubargli l’eco. E fargli credere che quel guscio di noce sia l’intero cosmo.
Ma qualcosa è andato storto, Cislaghi. Tu, la tua cravatta a righe, il tuo sorriso lombrosiano.
È così e basta, Izaias, e ora non ci mettiamo certo a cercare prove: niente ricerche bibliografiche, le biblioteche sono chiuse da vent’anni e abbiamo solo un intranet fatto per noi trenta, apposta per noi come tutto il resto. E poi non dobbiamo mica fare una pubblicazione, gli dico. Mica ci serve un patrono accademico.
– È così e basta, Sara – dice Izaias sorridendo: – ma che gli raccontiamo agli altri ventotto? Gli diciamo che c’è il Cislaghi a cena?
Poi Izaias ha telefonato al nucleo. Ha chiesto di vedere il Cislaghi, se lo è fatto passare al telefono. Storie pese, gli ha detto, qui tra noi trenta c'è uno che tradisce. Vediamoci fuori zona, tipo dietro le cucine est: qui non mi fido, dice Izaias al Cislaghi.
Izaias ha addosso il maglione azzurro e un paio di jeans vecchissimi. Anch’io ho dei vecchi jeans, larghi, erano di Milena.
Siamo i nuovi cuochi, abbiamo detto ai due cuochi delle cucine est – due della nostra età, cordiali e stanchi, che non vedevano l’ora di farsi una sigaretta.
Siamo i nuovi cuochi. I cuochi dell’era torrida, Cislaghi.
Gulasch: Tritare la cipolla e appassirla nell’olio a fiamma bassissima. Quando sta per disfarsi aggiungere gli odori e la carne tagliata a pezzi. Farla insaporire a fuoco molto basso, per farle rilasciare i propri liquidi. Quando inizia a rosolare aggiungere la paprika, sciolta in un mestolo di acqua calda, e la salsa di pomodoro anch’essa diluita in acqua. Regolare di sale, continuare adagio la cottura.
***
Silvia Tebaldi è un’autrice e scrittrice, originaria di Ferrara. Ha scritto il romanzo Vuoto centrale (Perdisa Pop, 2009) e, per Zona 42, le novelle Quattro Lune di Giove al Capo delle Volte e Il lettore dell’acqua, rispettivamente nel 2021 e nel 2023. I suoi racconti sono presenti in antologie, blog, riviste online e cartacee.








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