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Il postfordismo tra scomposizione e innovazione

Intervista a Luca Romano


postfordismo Sergio Bianchi
Immagine: Sergio Bianchi

Nella bozza di programma sul lavoro nei decenni smarriti segnalavamo l’intenzione di voler porre sotto la lente di ingrandimento alcuni concetti particolarmente significativi per costruire una cartografia dei decenni smarriti relativa ai temi indagati da «Transuenze». Tra i concetti rientrava anche quello di postfordismo. Nei mesi scorsi sono già stati pubblicate alcune interviste/alcuni contributi ad alcuni autori che hanno avuto un ruolo particolarmente importante nel forgiare questo paradigma: quella ad Aldo Bonomi, pubblicata in «Transuenze», o quella a Enzo Rullani, che si trova nella sezione «Commonware».

L’intervista a Luca Romano di oggi, a cura di Antonio Alia, s’inserisce nel solco tracciato dai due contributi sopra menzionati, fornendoci utili chiavi di lettura per comprenderne i tratti peculiari dal punto di vista tecnico-industriale, sociale e istituzionale.


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Quando si è iniziato ad usare la categoria di postfordismo si intendeva indicare un superamento dell’assetto produttivo, economico e sociale di stampo fordista senza però riuscire a definirne con precisione e in positivo uno nuovo. In altri termini, erano chiari i confini del paradigma fordista, meno quelli a cui si stava approdando. A distanza di qualche decennio da quelle teorizzazioni, in che misura è possibile affermare che esse erano corrette e in che misura possiamo affermare che la transizione si è compiuta (e forse anche superata)? Quali sono i tratti peculiari del postfordismo?


Il postfordismo è una categoria cruciale del mutamento capitalistico che per primo Enzo Rullani ha avuto il merito di aver fissato concettualmente. Posso solo raccontare come avvenne la «gestazione» di questa nuova categoria. L’incubatore fu un seminario che ho coordinato presso la Fondazione Istituto Gramsci Veneto tra il 1995 e il 1996, condensata in un paper Sei tesi sul postfordismo. Il seminario venne frequentato, oltre che da Rullani, da Bruno Anastasia, Fabio Arcangeli, Aldo Bonomi, Giancarlo Corò, Giorgio Gottardi, Stefano Micelli, più episodicamente da Massimo Cacciari. Questo laboratorio è poi sfociato nel volume Il postfordismo pubblicato da Etas libri nel 1998. Un libro di assoluta novità teorica, anche su scala internazionale, che, a quel tempo, ho visto citare in bibliografie di mezzo mondo.

Il filo conduttore, allora, aveva il pregio di tenere insieme la rappresentazione di un «post» ovvero ciò che viene dopo il fordismo, una categoria ben strutturata nel corso del Novecento, con l’apertura al futuro, con ciò che vedevamo venire avanti.

Che cosa veniva avanti, privilegiando come punto di osservazione il sistema industriale? Il ruolo della conoscenza come forza produttiva in luogo di quella replicativa o esecutiva; lo smontaggio delle fabbriche basate su una piramide gerarchica che regolava l’integrazione verticale dalla materia prima al prodotto finito; l’esternalizzazione di segmenti di processo e la diffusione delle reti umane e tecnologiche, di piccole imprese e di lavoro autonomo di seconda generazione, nel passaggio alle filiere lunghe; il ruolo del consumatore come attore sociale, capace di condizionare il processo produttivo; l’esplosione del terziario come motore della valorizzazione; il territorio come spazio complesso della produzione, distribuzione e consumo. Ce n’era abbastanza per non confondere il postfordismo con il mero «decentramento» fordista nelle periferie a basso costo del lavoro che, invece, ispirava molti teorici di cultura operaista. Il nuovo che indicava il post del fordismo era molto di più e di diverso dal decentramento.

Oggi non è di immediata comprensione il tasso di esplosiva dirompenza teorica di questa elaborazione. Per darne una dimensione dirò che ancora in quegli anni l’eco del racconto della centralità operaia della fabbrica fordista, simbolicamente identificata con Marghera, era molto forte nel sindacato CGIL e nei partiti erede del PCI. Ebbene in quegli anni i distretti industriali di quelle aree erano, come documentano studiosi come Crouch e Porter, i casi di crescita più performanti dell’occidente capitalistico!

Nell’elaborazione che soprattutto Rullani ha impresso alla categoria di postfordismo sono centrali i concetti di complessità e differenza, varietà e variabilità che in alcune versioni scolastiche sono state talmente stemperate da dare l’impressione che a un modello «monocratico» – il fordismo – se ne sostituisse un altro, altrettanto uniformante.

A mio avviso ciò è dipeso da due ragioni. La prima, strettamente teorica, è quella di avere adottato un modello cognitivo «sistemico» di derivazione dalla biologia tradizionale; e, come Bruno Latour imputa a Luhmann, è un modello nel quale il sistema predomina e uccide la differenza. La seconda, invece, è che anche nell’attività di ricerca si sentiva la prevalenza dell’economia industriale, quando, nella nozione di territorio andava sempre più implicata l’economia urbana, la dimensione dei consumi, il lavoro come comunicazione.



Che ruolo hanno giocato lo Stato e la politica istituzionale in questa transizione?


C’è una fase storica, che coincide con gli anni Ottanta e Novanta, in cui le istituzioni del fordismo ̶ lo Stato, i partiti, i sindacati, le grandi rappresentanze imprenditoriali ̶ per quanto dentro una cornice di grande scambio verticale, pensiamo ad esempio all’accordo di Ciampi del 1992-1993, hanno operato in modo ancora compatibile, coesistendo con i processi socio-economici postfordisti. Ricordiamo le fibrillazioni dei territori, l’insorgenza delle partite Iva, il malessere del lavoro autonomo di seconda generazione e delle piccole imprese, che si rappresentavano con la sindacalizzazione politica del Nord, con il secessionismo leghista e con i tentativi di contrastarlo con la riforma federalista.

Sempre rimanendo ancorati al Nord Est, la miscela di cambiamenti socio-economici e indirizzi politici avviene con una sopravvalutazione del territorio, cristallizzandosi alla fase degli anni Settanta e Ottanta. Si pensava ̶ in particolare Giorgio Lago, la fonte giornalistica che ha forgiato il brand «Nord Est» ̶ che questo territorio si concepisse come soggetto collettivo, come potenza costituente, al punto da poter rivendicare uno Stato federale, costituito da regioni tutte autonome. Per Lago questo disegno di conferire una base costituente al federalismo era percorribile attraverso l’alleanza della rete delle medie imprese ̶ allora Confindustria Veneto era presieduta da Mario Carraro ̶ con la rete delle città ̶ il movimento dei Sindaci era ispirato da quello di Venezia, Massimo Cacciari.

Si è arrivati ad inserire l’autonomia differenziata nel titolo V della Costituzione (2001), ma siamo nel 2023 e, come sappiamo, il processo si sta avviando in un clima di forte tensione. Il dato più interessante è che sono proprio le medie imprese e le città i soggetti che nella fase successiva del postfordismo cambiano maggiormente, in profondità, riconfigurando radicalmente il proprio rapporto con il globale e il locale, smontando il concetto di territorio come soggetto sociale collettivo. Si può dire, con un pizzico di semplificazione, che il postfordismo prima ha smontato la fabbrica come soggetto compatto, poi ha scomposto anche il concetto di territorio come soggetto collettivo.

La definizione appropriata delle istituzioni del postfordismo non è mai stata precisata: probabilmente proprio perché si tratta di una metafora concettuale che sfugge a una istituzionalizzazione per la sua apertura a diversi esiti possibili. Rimangono alcuni slogan intrinsecamente contraddittori: il territorio postfordista chiede più efficienza e meno burocrazia. Già, ma come fare? La burocrazia è stata pensata, da Weber in poi, come la dimensione amministrativa dell’efficienza. Il problema oggi non sta tanto nei mezzi efficienti ma nei fini da perseguire.



In questa transizione il lavoro ha subito potenti trasformazioni. Quali sono state le principali? In che modo il lavoro postfordista si è distinto da quello fordista? Quali soggettività sono emerse (in termini di valori, rapporto con il lavoro, con le istituzioni e la politica, ecc.) e come si sono trasformate oggi? Un ruolo importantissimo è stato svolto dal lavoro autonomo che ha trainato la costruzione di un consistente pezzo di ceto medio e che per qualche decennio è riuscito ad imporre la propria egemonia.


Non vi è dubbio che il postfordismo, in una prima fase, negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, abbia rappresentato un’innovazione profonda del lavoro, in relazione all’affermazione dell’economia della conoscenza e della società messa al lavoro, in un crescendo rossiniano di ambivalenze in tutto il repertorio di sfumature che va dalla «liberazione» allo «sfruttamento» sotto mentite spoglie.

L’importanza della soggettività, la trasformazione di una parte del lavoro in comunicazione e linguaggio, l’irruzione dei consumi hanno predisposto una fase nella quale si sono ridefinite delle linee di frattura che solo a distanza di tempo appaiono riconoscibili.

Quella principale è stata individuata da Bernard Stiegler: tra liberazione del lavoro e liberazione del tempo, secondo il filosofo francese, ha prevalso la seconda, poi catturata dal capitalismo digitale. Oggi il racconto dei buoni lavori, del lavoro bello e ben fatto, di una certa cultura artigiana ̶ così potente nel paradigma del Made in Italy ̶ è totalmente soverchiato da quello degli influencer che guidano la galassia dei consumi e, direi, dei costumi.

Mi sono spesso chiesto come mai il «postfordismo», che inizialmente si è legato al lavoro in termini positivi, di soggettività, di creatività, di qualità, di autoimprenditorialità, di rete orizzontale e di collaborazione, abbia poi virato in una direzione contraria così vistosamente, fatta di svalutazione del soggetto, di imperio delle piattaforme con le loro condizionalità, di irretimento dei desideri e di sorveglianza dei processi di identificazione.

Non sono tra coloro che pensano che vada demonizzato il neoliberismo. Dopo la caduta del Muro di Berlino, senza la pressione minacciosa dell’altro sistema, l’egemonia neoliberista ha combinato un senso positivo della libertà del soggetto, più autonomo e meno sottoposto alle forze dei dispositivi disciplinari, con quella che Foucault chiamava l’«insurrezione dei saperi locali». In un modo o nell’altro questa Belle Epoque della globalizzazione ha rallentato dopo le Twin Towers nel 2001 per stemperarsi molto con la crisi del 2009.

Il fordismo è stato caratterizzato da un conflitto tra capitale e lavoro particolarmente acceso, che ha offerto, paradossalmente, anche stabilità al sistema. Il postfordismo al contrario è (stato) caratterizzato non solo dall’assenza di un conflitto di classe esplicito ma pure dall’assenza di forme di aggregazione (e quindi di identità) collettive sul lavoro. In che modo le trasformazioni del lavoro hanno contribuito a questa situazione? Ci sembra che uno dei paradossi da spiegare sia questo: nel fordismo il rovescio del lavoro passivo di fabbrica era un attivismo politico e sindacale molto forte; nel postfordismo ad un lavoro che coinvolge più integralmente il lavoratore, tanto che qualche autore parla di sovrapposizione tra vita e lavoro, corrisponde la più totale passività politica e sindacale.

Questa domanda coglie le profonde ambivalenze in cui siamo immersi. La difficoltà di una lettura strutturalmente unilaterale del capitalismo come «sfruttamento» del lavoro e come «repressione» del desiderio e dei bisogni ha lasciato il campo a una molto più poliedrica. Con l’ascesa dell’economia della conoscenza, il cui paradigma si afferma proprio sull’innesco postfordista degli anni Ottanta, il lavoro si trasforma in relazione con una tridimensionalità: la diffusione di economie globali «creative» che impongono un’innovazione accelerata e continuata; la ricerca del valore nei bisogni della vita quotidiana; il distacco, proprio per questi due processi, dell’identità individuale legata a lavoro e consumo da una relazione sociale densa. In altri termini, si appannano fino quasi al naufragio totale i soggetti collettivi del lavoro. I distretti sono evoluti in grappoli intrecciati di filiere translocali, ma la filiera non genera un senso di appartenenza sociale, è una rete di contratti privati. La polverizzazione del lavoro terziario e il sentimento di differenza legato al consumo hanno demolito il concetto di classe proprio nella fase di maggior ascesa dei «lavoretti», il cui contenuto di universalità è prossimo allo zero.

La transizione postfordista ha sicuramente spiazzato partiti e sindacati, meno le rappresentanze della piccola impresa e delle professioni non ordinistiche. In buona sostanza ha premiato le culture politiche che non presupponevano una identità sociale data a priori, il «lavoro dipendente» è diventato una pallida astrazione, ma quelle che tracciavano nuove associazioni tra soggetti non immediatamente sociali. È esattamente quello che fa la Lega Nord in quegli anni nei territori pedemontani del Veneto e del FriuliRiproduce comunità, anche nel mondo operaio o del piccolo commercio e artigianato, comunità di territorio reinventando reinventano un’identità per reagire allo spaesamento della globalizzazione vincente.

Le città negli anni Ottanta non sono spiazzate allo stesso modo delle comunità territoriali. A fianco dei ceti medi tradizionali ̶ impiegati pubblici, bancari, professionisti ̶ si inseriscono gli spezzoni di «classi creative», di lavoro autonomo di seconda generazione che è ancora padrone delle nuove tecnologie da cui oggi rischia invece di essere fagocitato. In quella fase sono nate anche esperienze molto interessanti di mutualismo solidale. Pars destruens e costruens della transizione postfordista sono state magistralmente descritte nel lavoro di ricerca di Aldo Bonomi.

È stata una fase di forte densità orizzontale del lavoro, delle reti e delle filiere che ha conferito importanza alle autonomie funzionali, ma non ha generato quelle che Roberto Esposito chiama nuove istituzioni inclusive. A ben vedere, l’alleanza inconsueta tra libertà economica del mercato in espansione e insurrezione dei saperi locali ha un denominatore comune, l’avversione per l’espansione dei poteri pubblici.



Il fordismo era costruito attorno ad un patto sociale tra capitale/stato e lavoro salariato che comportava lo scambio tra sicurezza e fedeltà e che in qualche modo faceva sistema, ordinava la società. Si trattava di un patto dinamico, alimentato e contemporaneamente messo in crisi da un’altissima conflittualità operaia. Con il postfordismo abbiamo assistito alla frantumazione della classe operaia: ad essa è corrisposta una ridefinizione del patto sociale? L’impressione che abbiamo e attorno alla quale vorremmo confrontarci è che a quella frantumazione sia corrisposta una scomposizione del patto sociale stesso, creando una moltiplicazioni di patti sociali e alimentando la dinamica corporativa della società.


Dobbiamo assumere una capacità di lettura processuale. Il postfordismo è stato subito avvolto da un’aura di sconfitta. Mi è capitato di recente di leggere un libercolo del 1994, con un dialogo tra Alfonso Leonetti e Paolo Volponi. Sembra che dopo Olivetti e Fiat ci sia stato il diluvio! In realtà la classe operaia ha vinto lo scontro nel modello fordista, cambiandolo profondamente e, così facendo, cambiando se stessa. Il momento più alto della sua vittoria lo ha celebrato negli anni Ottanta, come mostravano i rapporti di Giuseppe De Rita al Censis. Per capire in che cosa è consistita quella vittoria riporto una considerazione di una delle più straordinarie intelligenze della prima Repubblica, oggi interdetta dalla più miserabile delle damnatio memoriae, Gianni De Michelis: «come partiti siamo stati travolti da tangentopoli perché non ci siamo resi conto di quanto stavano meglio gli italiani». Non solo ricchezza monetaria – ricordiamo i BOT – ma anche casa di proprietà, welfare, figli all’Università, a volte la seconda casa per la villeggiatura. Vorrei che una considerazione storica degli anni Ottanta non sottovalutasse che il postfordismo vive delle conquiste sociali ereditate dal fordismo, che la cifra individualistica che allora si afferma è anche la conseguenza delle straordinarie conquiste sociali avvenute negli anni del conflitto di classe. A differenza di quello che si pensava allora l’individualismo non si afferma contro la cultura collettiva del fordismo, ma proprio in ragione di essa, del soddisfacimento delle sue domande. Il postfordismo degli anni Ottanta corre su un binario parallelo all’arricchimento, non certo all’impoverimento. Ma questo non è per sempre.



Cosa resta oggi del postfordismo?


Considererei tre piani di risposta: il punto di vista tecnico-industriale, quello sociale e quello istituzionale.

Se guardiamo all’industria manifatturiera il postfordismo designa un passaggio della composizione tecnica del lavoro tra un modello di fabbrica integrato verticalmente a un altro strutturato per reti. La fabbrica-rete è intelligente, l’automazione e la connettività hanno fortemente supportato una qualificazione evolutiva della manifattura. Da questo punto di vista il postfordismo è una transizione che ha compiuto il suo ciclo aprendo le porte a un nuovo paradigma che non ha più bisogno di un «post» per definirsi.

Il versante sociale è quello più intricato e intrigante. Il postfordismo rompe l’identificazione tra fabbrica e lavoro produttivo, la destituisce di egemonia e apre un repertorio di cambiamenti tutti di fondamentale importanza: le soggettività al lavoro, il lavoro come linguaggio e comunicazione, la caduta del muro tra impresa e territorio, l’emergere di un’economia urbana che coniuga i processi di valorizzazione tra produzione, consumo, saperi e piaceri. Tutto questo è avvenuto sotto il segno della scomposizione sociale, del dissolvimento delle strutture – le classi – che avevano regolato i rapporti produttivi e sociali nell’epoca fordista. Il postfordismo è il nome della fase aurorale del capitalismo delle reti e, dal punto di vista sociale, dell’indebolimento dei luoghi a favore delle metropoli globali. Innesca, cioè, un processo di accumulazione polarizzata con successive ondate di distribuzione spaziale dell’economia della conoscenza.

Dal punto di vista istituzionale, va scandagliato, a mio avviso, il motivo per cui nella fase del postfordismo anni Ottanta non nascano nuove istituzioni inclusive, capaci di superare il localismo precedente, associando reti di città in forma collaborativa, governance ibride di funzioni pubblico/private, autonomie locali detentrici di un’intenzionalità strategica. Molto schematicamente, il postfordismo coesiste con istituzioni locali che affrontano l’apertura delle reti di impresa al mondo con un processo di chiusura difensiva e con una statualità che si riorganizza verso il sociale abbandonando una linea sullo sviluppo. I grandi scambi verticali tra Stato, Confindustria e Sindacati, con il tacito consenso dei partiti sopravvive per qualche tempo come puro rito senza sostanza, assistendo all’alzarsi della mediazione istituzionale in una dimensione europea.



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Antonio Alia ha coordinato la redazione di commonware.org, con cui ora cura l'omonima sezione. La sua formazione da militante è iniziata con il movimento dell'Onda.


Luca Romano ha conseguito un Dottorato di Ricerca in Filosofia dopo essersi laureato all’Università di Padova. È stato Vice Direttore della Fondazione Istituto Gramsci fino al 1998. Ha collaborato con il Consorzio Aaster ed è tutt’ora componente di AasterLab.

Nel 2006 ha fondato e dirige la società di ricerche economico-sociali Local Area Network di Padova.

Oltre alla cura con Enzo Rullani di Postfordismo. Idee per il capitalismo futuro (ETAS 1998), ha curato il volume Il pensiero federalista di Gianfranco Miglio. Una lezione da ricordare (Cierre Verona 2010) e introdotto il libro di Gianni De Michelis e Maurizio Sacconi Dialogo a Nordest. Sul futuro dell’Italia tra Europa e Mediterraneo (Marsilio 2010). Il libro più recente è L’acqua racconta l’industria. Storie di imprenditori e di ambiente nel caso Medio Chiampo (Post editori 2022). Per DeriveApprodi ha scritto il testo «Nord-Est: il policentrismo delle molecole» nel libro, a cura di Aldo Bonomi, Oltre le mura dell’impresa. Vivere, abitare, lavorare nelle piattaforme territoriali (DeriveApprodi, 2021)

Collabora come editorialista a Corriere del Veneto e Corriere Imprese.

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