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Moltitudini, capitalismo molecolare, corpi a lavoro. Discutendo i decenni smarriti



Nell’ambito del programma sui «decenni smarriti», come da intenti di questa rubrica (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-lavoro-nei-decenni-smarriti-una-bozza-di-programma), si è richiesto ad autori che negli anni Ottanta e Novanta, per diverse ragioni, concorsero nel proporre rappresentazioni e immaginario della transizione, di «ritornare» sulle loro elaborazioni e analisi del periodo. Di Aldo Bonomi, sociologo e direttore del centro di ricerche territoriali Consorzio Aaster di Milano, fondato negli anni Ottanta insieme (tra gli altri) a Lapo Berti e Alberto Magnaghi, riprendiamo tre testi della seconda metà degli anni Novanta, intitolati Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, 1996), Il capitalismo molecolare (Einaudi, 1997), Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, 2000). Volumi in cui, in modo diverso ma con reciproci e continui rimandi, l’autore prendeva programmaticamente congedo dalle macerie del fordismo (nel lessico di Bonomi, «il non più») e si addentrava nel «non ancora» (che perlopiù, all’epoca, ci si accontentava di definire postfordismo) secondo una prospettiva peculiare. Questi libri avevano un robusto sottostante di osservazione empirica delle società al lavoro nel capitalismo che stava cambiando pelle. La chiave di accesso al campo di analisi non muoveva tuttavia da una fredda e «oggettivistica» ricostruzione di queste trasformazioni. I «prototipi mentali» proposti muovevano piuttosto dai cambiamenti soggettivi e procedevano per successivi (e differenti, nei tre libri) gradi di astrazione, mantenendo perlopiù un forte ancoraggio nei luoghi indagati, coincidenti in questi testi principalmente con le piattaforme produttive in formazione del Nord Italia. Erano gli anni del leghismo in ascesa e dell’affermazione elettorale di Forza Italia, fenomeni interni alla politica che non costituivano il bersaglio del lavoro di Bonomi, ma che indubbiamente ne fecero da «quinta». La «questione settentrionale» era tuttavia squadernata a partire dalle trasformazioni materiali dei lavori, del fare impresa, delle espressioni soggettive all’opera in questi mutamenti.


Ne «Il trionfo della moltitudine», forse il più ambizioso dei tre volumi per grado di astrazione rispetto al consueto, per questo autore, radicare l’analisi nell’osservazione empirica, erano esplicitati anche i motivi ricorrenti anche nei testi successivi. Per metterli a fuoco è utile richiamare alcune posture metodologiche dell’autore, riprendendole dall’introduzione firmata da Giuseppe De Rita, che negli anni della sua presidenza al Cnel ebbe una significativa influenza su Bonomi. Il fondatore del Censis esplicitava in particolare alcune «scelte di fondo che lo rendono diverso da me: l’opzione di lavorare sulla simultaneità più che sui processi di lunga deriva; l’opzione di lavorare più sul primato del sentire che su quello della razionale autocoscienza collettiva; l’opzione di lavorare sulle interconnessioni fra il nuovo “intelletto generale” (dato dalla mondializzazione) e la nostra antica identità locale piuttosto che sull’ulteriore approfondimento di tale identità. Per uno, come me, da sempre affezionato alle lunghe derive, all’autocoscienza collettiva e al provincialismo delle identità locali (compresa quella nazionale) si tratta di un radicale cambiamento di ottica, di filosofia della ricerca».


Il capitolo introduttivo era programmaticamente intitolato «Il non più e il non ancora». In apparenza era il racconto della scomposizione a occupare la scena, con il superamento delle dicotomie del capitalismo classico tra produzione e circolazione, tra fabbrica e territorio, tra produttore e consumatore, poiché nel «non ancora» (in una tendenza però già chiaramente a fuoco) sono la società stessa, il tempo e la vita oltre il lavoro ad essere messi in produzione. Sotto la lente di osservazione, qui, sono i mutamenti soggettivi (quel «primato del sentire» per usare i termini di De Rita, che rimanda al «non più» dell’autocoscienza collettiva, ossia alla dissolvenza della comunità - anche e soprattutto operaia e «di classe»), della rappresentanza sindacale e politica e al deficit di «questi spazi come luoghi di metabolizzazione e di produzione di norme etiche e valori adeguati ai tempi, alla transizione». In secondo luogo, abbiamo un deciso spostamento della prospettiva dalla «fabbrica» al «territorio» o ad un certo modo di guardare ai territori. Per riprendere un successivo commento di Arnaldo Bagnasco al lavoro di Bonomi e del gruppo di ricercatori che lo accompagnava, un metodo che pone in luce «quanto si può rilevare e percepire della società osservando da vicino la sua organizzazione spaziale».Non si trattava di una scelta derivante da una disincarnata e avalutativa preferenza scientifica. Era piuttosto la presa d’atto dell’inefficacia (teorica e politica) della sequenza logica «dalla fabbrica al territorio» che sorreggeva la dinamica del capitalismo fordista. Poiché il «territorio» era in realtà divenuto la «fabbrica», con quanto ciò comportava in termini di rapporto tra economia, società e politica.


Il «non ancora» di Bonomi, lungi dall’essere imprigionato in un presentismo senza radici – da questo punto di vista la distanza rispetto al proprio metodo evidenziata da De Rita è probabilmente fuorviante, poiché il primato della simultaneità in Bonomi indicava la necessità di riconoscere la rottura prodottasi nelle lunghe derive dello sviluppo, delle appartenenze sociali, dell’azione collettiva, non la loro negazione appare tuttavia parco di soluzioni semplici o di scorciatoie. La rottura individuata da Bonomi, insieme a molti altri, nel passaggio al nuovo capitalismo non produceva uniformazione, standardizzazione e replicabilità delle pratiche, bensì moltiplicazione – del tempo, delle forme dei lavori, delle attività. L’apparire della «moltitudine» non conteneva dunque l’annuncio di una ricomposizione politica a venire, registrando semmai lo sfaldarsi del sistema ordinatorio delle classi non in quanto categoria analitica (che non era affatto abbandonata) ma come principio di formazione delle identità e soprattutto dell’azione collettiva. L’indicazione conseguente, più sussurrata che esposta in modo prescrittivo, era dunque scavare dentro questa molteplicità, alla ricerca di una politicità da reinventare nelle strutture del quotidiano sotto stress; sporcandosi le mani con pratiche e mentalità distanti dai valori sedimentati nella tradizione della sinistra e dalle norme elaborate nella società industriale di ieri.


Ne Il capitalismo molecolare, rispetto al precedente testo più ancorato alla ricerca empirica, si entrava nel merito delle trasformazioni produttive con una lettura in progress (in itinere, come preferirebbe dire Bonomi) del «modello italiano». Il testo risentiva della riscoperta della dimensione spaziale dell’economia e delle prospettive aperte dalla sociologia economica attraverso l’analisi delle molteplici vie dello sviluppo industriale, senza tuttavia collocarsi pienamente in quella tradizione (da cui anche alcune incomprensioni con parte degli studiosi più «specializzati» nello studio dei distretti industriali). Il postfordismo era ricostruito attraverso una scomposizione della piattaforma produttiva del Nord (i «sette Nord» attraverso cui si sviluppava il racconto) ma, accanto all’esplicitazione di alcuni tratti distintivi del modello italiano in rapporto alla letteratura sulla «varietà dei capitalismi», al centro erano soprattutto le dimensioni antropologiche e sociali dei territori; in particolare, il mondo dei piccoli imprenditori, delle partite Iva, del «pulviscolo della microimpresa al lavoro nel ciclo della subfornitura». Senza, va detto, alcuna apologia del «piccolo è bello»: l’empatia implicita verso il mondo del lavoro autonomo si collocava infatti all’interno di una pratica del conricercare (non appartenendo il disincanto avalutativo a questo autore), non nell’opposizione retorica tra fautori prescrittivi di diverse vie dello sviluppo cui aderire.


«Il distretto del piacere» chiudeva questo trittico ricollegandosi a molti dei temi sviluppati ne «Il trionfo della moltitudine», muovendo però dall’analisi introspettiva di uno specifico caso territoriale, la piattaforma del consumo esperienziale e dell’intrattenimento disegnata dalla riviera romagnola, le città-regione Bologna, le città parco a tema come Venezia e i parchi a tema industriali come Gardaland. Piattaforma che era analizzata anche dal punto di vista dei meccanismi di funzionamento economico, ma che al centro poneva il «corpo che diventa moneta vivente» ben oltre i confini del distretto indagato. Al centro della nuova economia sono le vite, come si coglie meglio laddove c’è un più intenso e consumistico uso del tempo libero, e i soggetti – da un lato trattati e stimolati con tecniche molteplici, dall’altro essi stessi produttori di segnali, linguaggi, stili – divengono moneta vivente. Il «distretto del piacere» era il territorio specializzato in questa ipermoderna ambivalenza: un luogo di consumatori produttivi, più che turisti. Qui trovava spazio anche una disamina delle figure del lavoro di questi iper-luoghi della produzione contemporanea. Che non erano tuttavia la «classe creativa» di Richard Florida, ma una composizione «tecnica» stratificata e molteplice. Bonomi non guardava alle sole punte avanzate della produzione immateriale (i soggetti con conoscenze più fini e creative), ma all’intero ventaglio dei lavori che includeva cubiste, stagionali e, soprattutto, il lavoro del consumatore e dell’utente finale «intorno a cui ruota la produzione postfordista». C’era in realtà ben poco piacere nel distretto del divertimento, in cui si mettono al lavoro i corpi e dove il macchinario cessa di comandare i soggetti dal di fuori, per diventare dispositivo incorporato dai soggetti stessi. E’ questo il nucleo intimo del passaggio, qui teorizzato e ripreso in successive pubblicazioni, dalla «catena alla ragnatela del valore», dunque dalla sequenza di stadi della produzione, ciascuno dei quali aggiunge una componente di valore, alla simultaneità e alla cooperazione per la «cattura dell’utente/cliente», posto al centro di una trama di lavori e di imprese volte a farne, appunto, macchina desiderante e moneta vivente.


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Riprendiamo tre tuoi titoli del periodo: Il trionfo della Moltitudine, Il capitalismo molecolare, Il distretto del piacere. Quali erano le riflessioni che ti avevano portato a scrivere quei libri, perché avevi scelto quei temi e quelle categorie, cosa rappresentavano in quel momento, quali le loro implicazioni politiche? E cosa ne resta oggi, nel senso di cosa ritieni attuale e cosa richiederebbe di essere revisionato?

Partirei da alcuni nodi, più pratici che teorici, muovendo dal dibattito rilanciato su Machina intorno alla categoria operaista di composizione di classe, penso al contributo di Salvatore Cominu in particolare. Quando si ragiona di composizione (di classe), bisogna considerare anche la sua scomposizione – cosa non secondaria, in quegli anni là impensabile da individuare – e quindi ragionare su come la classe si dà, come si racconta nella sua soggettività spezzata e frammentata, nella sua Weltanschauung. E quindi se partiamo da qua, come ci si inoltrava in questa scomposizione? Con quale cassetta degli attrezzi?

Con quello della conricerca, ci dicevamo, cosa diversa dall’inchiesta. L’inchiesta era funzionale a una sintesi, la conricerca ci invitava a scavare nella scomposizione. Ci risiamo di nuovo dal punto di vista metodologico: ricerca tiepida. L’inchiesta è ricerca forte. Giustamente voi che seguivate Alquati richiamate le differenze – non solo territoriali – tra l’inchiesta alla Fiat ed alla Olivetti tra fordismo hard e operaio-massa o fordismo dolce-cogestione e territorio.

Un altro pezzo della mia cassetta degli attrezzi, alzando un po’ lo sguardo e non guardando solo a quell’epicentro, cosa allora non abituale: guardando a Sud si ritrovava il «continuare a cercare per continuare a capire» di Giorgio Sebregondi e Giuseppe De Rita, la Svimez e il Censis. Non a caso quest’ultimo intitola la sua biografia professionale Dappertutto e rasoterra, che se si vuole è la negazione dell’inchiesta ed è un lavoro dentro la scomposizione.

La seconda cosa che direi importante per la mia cassetta degli attrezzi di allora era il monito riflessivo di Giovanni Arrighi. Nella scomposizione della classe non bastava più il motto «dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei». E quindi c’erano alcune domande aggiuntive: di che genere sei? Da dove vieni straniero? Ma soprattutto qual è la tua visione, la tua soggettività, se si vuole la tua Weltanschauung? Questo è il punto vero. Quindi Fiat, Olivetti, Territorio, Sud - sistema-mondo.

Ed è da qui che arrivava il ragionamento che intendevo portare avanti sulla scomposizione, sul «non più» e sul «non ancora». L’unico libro da «intellettuale» che ho scritto è Il trionfo della moltitudine – lo dico non per snobismo, ma perché non era più l’epoca degli intellettuali, era semmai l’epoca dei «produttori di prototipi mentali». Tutti gli altri libri che ho scritto sono di socializzazione dei «prototipi mentali» elaborati nella nostra attività di ricerca. Lì azzardai alcune cose che ritenevo fondamentali per capire il non più e il non ancora. Il primo, cito testualmente «la condizione sociale o la composizione di classe che caratterizza il tempo presente, il fine secolo, è la sospensione tra ciò che non c’è più e ciò che non c’è ancora»; quindi la sospensione già allora, con la stessa radicalità della sospensione di oggi, che dipende dal salto d’epoca. Gli anni ’80 e ’90 sono stati anni di avvicinamento al salto d’epoca, ma c’era già lo spaesamento. Io mi limitavo a dire, a dare, a raccontare una composizione sociale affatto diversa da quella che aveva segnato le mie appartenenze precedenti. E, aggiungevo, il «fare ricerca sociale, il fare conricerca, è una forma possibile per ritrovare tracce che portano altrove». Questo nella premessa del libro. E, ovviamente rimaneva un disagio, visto che parliamo di composizione di classe: capire come la scomposizione potesse permettere di inoltrarsi in un percorso, non da soli, ma in comune. Seconda questione. In mezzo al «non più» e al «non ancora» veniva avanti una società caratterizzata dalla potenza dei mezzi e dall’incertezza dei fini. Avvertivamo che il mondo del pensiero scientifico e tecnico pervadeva i campi della vita sociale, quello che oggi definiamo «l’intervento nella vita quotidiana del soggetto». E, nella scomposizione, la sovrabbondanza dei mezzi non era, come qualcuno diceva, il dolce postindustriale e il seduttivo postmoderno, ma l’esatto contrario. L’ iperindustriale e l’ipermodernità che non significava il superamento dell’antinomia scarsità-opportunità – c’è sempre chi vince e chi perde con l’aumento dei processi selettivi e competitivi per accedere alle opportunità. Il problema era, quindi, inoltrarsi nel non-ancora. Che definii con l’immagine/gabbia della ruota del criceto. Che mi pare ben colta nel recente libro di Roggero «Per la critica della libertà» che rimanda all’interrogativo pesante: il capitale rende liberi?

Non ti limitavi però a registrare il non più o il non ancora, provavi a tracciare alcuni scenari. L’apparire della moltitudine, che rimanda a quello che hai appena detto (con doverosa attenzione all’uso del termine, concetto multi-uso utilizzato con valenze politiche e significati differenti).

È un libro che traccia come si dà la moltitudine. Per capirlo, uso il lavoro di conricerca, il termine «mettersi in mezzo» che rimanda alla ricerca dolce, tra composizione tecnica e composizione politica. E qui, appare una categoria che è quella del territorio, non intesa come localismo, né come distrettualismo o economicismo, ma come luogo dove si dà la scomposizione della moltitudine. Tra composizione tecnica e i balbettii di composizione politica. Da questo punto di vista, il mio confronto, andando oltre, credo, le tracce di Alquati, entra in dialogo con Enzo Rullani che non a caso è un economista industriale. Ma partendo dalle ultime cose che ha scritto Enzo, il problema era leggere il territorio in transizione, in cambiamento, dove avvenivano i processi. Ma, soprattutto, qui riprendo un punto che bisogna mettere a conclusione del «non più e non ancora», la filosofia di quel testo si riassume in un concetto chiave: «prossimità e simultaneità». Eravamo passati dall’epoca del «non più» della prossimità ad un «non ancora» della simultaneità. Non a caso, i grandi processi del sistema-mondo di Arrighi. Quindi: territorio in transizione nella prossimità e simultaneità. Quindi l’esatto contrario del localismo. Il digitale è la simultaneità, iniziavano lì i processi. Il virtuale nelle catene globali. Lo spazio metropolitano come cardine. Questo è il punto.

Quindi, il concetto di territorio è l’evoluzione di una sintesi precedente che era «prendiamoci la città». Quindi, da questo punto di vista, sono gli anni di grande riflessione sul post-fordismo. Cito solo il dialogo e il percorso per me importante svolto con Marco Revelli e con il Manifesto. Ma anche l’intreccio della categoria del postfordismo con il «dappertutto e rasoterra» di De Rita, perché lo ritrovavi lì, nella scomposizione. Cose che si erano già intuite prima: la fabbrica diffusa e con altri tentativi di portare a sintesi l’operaio-sociale. E da qui il capitalismo molecolare, che è stato questo prototipo mentale, che non era l’esaltazione del capitalismo, ma l’esatto suo opposto: il tratteggiare la scomposizione.

Un libro da alcuni frainteso, molti quando lo citano lo intendono come il racconto delle partite Iva, della piccola impresa.

Certo è il racconto di queste vite minuscole ma è soprattutto il racconto del passaggio della conricerca dalla Fiat o dall’Alfa Romeo alle fabbrichette. Era il mettersi in mezzo tra il cambiamento della composizione tecnica e la frammentazione della composizione politica. Ma se uno rilegge Il capitalismo molecolare le cose sono chiare. Oserei dire: erano storie «operaie». Faccio un’aggiunta: in questo mettersi in mezzo, c’era un intelletto collettivo che si muoveva. Queste riflessioni le facevo con Magnaghi dei Quaderni del Territorio, con Marco Revelli, con Lapo Berti economista di Primo Maggio, con Walter Ganapini che anticipava i temi ambientalisti, con Primo Moroni e Nanni Balestrini de L’Orda d’Oro. Ma anche con il Massimo Cacciari del partito dei sindaci e dell’Istituto Gramsci Veneto che in quegli anni era ancora attivo e pubblicava un Quaderno trimestrale, o ancora con Sergio Bologna e il lavoro autonomo. Tutti soggetti e riflessioni in uscita dalla fabbrica.

Sempre mettendosi in mezzo tra composizione tecnica e composizione politica con la maledetta ambivalenza di usare il «capitalismo», l’incontro con Sergio arriva quando scrivo Il capitalismo personale con Rullani andando oltre la provocazione da «prototipo mentale» che avevo tratteggiato e raccontate per far notare che le forme della scomposizione arrivano dentro il Distretto del piacere. Non più solo la fabbrica, ma la provocazione della fabbrica dei turismi dove soggettività e il corpo sono messe a valore. Andando avanti in questo, si arriva poi a due temi fondamentali, il non ancora che viene avanti: che porta a ragionare sullo scheggiarsi del diamante del lavoro; e inoltrandoti nel non ancora, ti ritrovi in una composizione sociale cambiata che si dava nelle forme di lavoro servili, nelle varie articolazioni del lavoro autonomo di prima generazione (equivalente del rapporto che usavamo noi tra operaio massa e operaio professionale) che si scompone in quello di seconda generazione (l’operaio massa come categoria dei tempi moderni), fino al lavoro autonomo di terza generazione (che è quello dell’algoritmo). Seguendo così lo scheggiarsi ed il frammentarsi del diamante del lavoro dal non più al non ancora. Se posso tornare al libro da cui siamo partiti nell’introduzione De Rita coglieva il mio scartare di lato non essendo convinto del mio sincretismo tra globalizzazione e localismo o ancor meno il mio introdurre la categoria del sentire e «del soggettivismo emozionale con il relativo termine egologia». Questo rimanda ad altre tracce di ricerca seguendo per dirla con Paolo Virno «L’essenziale fuori dal lavoro» che produceva opportunismo-paura- cinismo ed è seguendo queste «figure inautentiche» che poi ho raccontato il prototipo della società del «Rancore» che altro non è, a fronte del correre come criceti per afferrare le opportunità nella bulimia dei mezzi , lamentarsi di non essere riconosciuto e riuscito ad afferrare le opportunità e da qui la continua ricerca invece del conflitto per cambiare di un capro espiatorio . Ma questo ragionare sul sentire messo al lavoro ci porta all’oggi.

Tu vedi soprattutto un percorso di trasformazione in cui gli anni Ottanta e Novanta sono stati un’anticipazione nella scomposizione delle forme di appartenenza sociale e politica, con cui vi trovaste a fare i conti. Tu guardavi al territorio, vedevi questa scomposizione innanzitutto della produzione che veniva territorializzata lungo filiere e catene corte, mentre c’era chi guardava solo alle catene globali del valore.

Questo è un passaggio importante, rimanda alla composizione tecnica che ha una mutazione profonda, che poi è stata definita in tanti modi: post-taylorismo, produzione snella, toyotismo e via di seguito. Brutalmente cosa significava? Lo dico nel mio linguaggio, che c’era stato un passaggio dalla catena del valore alla ragnatela del valore. La composizione tecnica precedente ci aveva abituato a ragionare sulla catena del valore, all’interno della fabbrica. La ragnatela del valore, per ritornare ad Alquati (che non usa questi termini, ma ci indicava comunque quei processi), significa che il modello della fabbrica inizia ad incorporare processi più ampi. Lo si vedeva nella fabbrica dei turismi allora. Oggi lo vediamo rispetto alla logistica. Però è la ragnatela del valore che inizia a venire avanti, che portava a ragionare della messa al lavoro del soggetto, della vita quotidiana. Categoria con cui ci confrontiamo oggi. La scoperta della ragnatela del valore ha implicato andare oltre le mura dell’impresa.

Ma cambiava il capitalismo o cambiavano le lenti di ciò che chiami intelletto collettivo? Quando andavate a scoprire il terziario o le fabbrichette, andavate ad interrogare soggetti che non erano le stesse figure del ciclo precedente.

È qui che ci siamo incontrati con Bifo e altri. Ero tiepido verso alcune tesi perché ci vedevo la voglia di riprendere il soggetto dal prototipo. Intendo dire: quando ho raccontato il distretto del piacere, non pensavo che i lavori che lo animavano (dagli eventologi alle cubiste) fossero il soggetto del cambiamento, anzi spesso era un soggetto ancora più subalterno. Quindi siamo arrivati a questi tempi e alla cognitivizzazione. Anche qui: se devo usare una terminologia, abbiamo imparato a fare «sincretismo» che era la ragnatela del valore che andava avanti, a cui corrispondeva emergenze di nuovi soggetti. Ma non era l’emersione del «soggetto», la questione rimane aperta. Tutti quanti hanno cercato (io compreso) un percorso di sopravvivenza. Manca tuttora il punto sull’attraversamento del deserto, sulle oasi, sulle carovane (nel senso che anche oggi abbiamo alcune oasi, ma non abbiamo la carovana). Abbiamo sempre avuto chiaro che dentro questo inoltrarsi nel non ancora c’è sempre chi vince e chi perde. Ovviamente dando voce e prototipi mentali a chi perde. Tenendosi lontani dalle retoriche di chi vince.

Chi ha la forza di trasformare è raramente chi ha perso: quest’ultimo può esprimere rabbia, rancore, ma raramente trasforma.

Sono d’accordo, tant’è vero che l’unica speranza che do sta nel «fare carovana». Diventa importante raccontare le tracce delle carovane, che sono ambivalenti. E quindi, ogni volta dentro questo grande percorso, quando ci siamo inoltrati dentro il «capitalismo personale» che introduce un enorme sbalzo, che è la terziarizzazione. Seguendo la scomposizione siamo arrivati a raccontare i grandi processi: il terziario, l’evoluzione delle Partite Iva, che lasciano tracce da seguire anche oggi. Rimangono, secondo me, alcune provocazioni di quegli anni: ad esempio il dialogo tra me e Marco Revelli, della trasformazione dal militante al volontario, che rimanda allo sviluppo del Terzo Settore. Abbiamo iniziato questi percorsi: anche le riflessioni con Sergio Bologna sul lavoro cognitivo rimandano ai grandi temi dell’oggi. Quando arrivi ai primi del 2000 arrivi al salto d’epoca dispiegato.

Era quindi un percorso di ricerca che cercava tracce. Se dovessi riprendere quei libri, quali aspetti ritieni attuali e quali superati? All’epoca erano stati prodotti molti testi «sconfittisti». Noi leggevamo i tuoi scritti (ovviamente insieme ad altri, che in parte hai citato) poiché ci davano una lettura non schiacciata su ciò che definisci il «non più». Ad esempio, ti leggevamo perché del fenomeno leghista fornivi, in sinergia con il lavoro della Fondazione Micheletti di Piercarlo Poggio, sia un’analisi «materialistica» sia una lettura in soggettiva, non appiattita sulla vulgata del neofascismo in camicia verde propria di molti nostri compagni. Il testo sul capitalismo molecolare ci costringeva a ragionare su soggettività che non avevamo mai considerato. Vedevamo tutte le difficoltà nel costruire forme di riconoscimento sociale e politico della moltitudine: la classe non si è mai prodotta come soggetto collettivo a partire dalla sua semplice collocazione sociale. La sua costituzione in soggetto politico, al contrario, fu semmai l’esito (anche) di un grande sforzo di costruzione politica, culturale.

Qui c’è una grande questione ancora aperta oggi: il percorso di cui abbiamo parlato finora è un racconto di lunghe derive accelerate dalla transizione degli anni ’80 e ‘90. Prima ho parlato della visione del mondo, ma la Weltanschauung appartiene alla Kultur, mentre i processi che ho tentato di esplorare riguardano piuttosto la Zivilisation. Tant’è che io parlo di prototipi mentali e non intellettuali. Quindi il problema rimane questo nodo tra Kultur e Zivilisation e, per come abbiamo detto, tra composizione tecnica e composizione politica. Qua il nodo era e rimane del tutto aperto. Anzi, drammaticamente accelerato nel nuovo salto, nel fine secolo. E il fine secolo, ci consegna una composizione tecnica iperpotente: qui arriviamo a temi come la finanza o l’intelligenza artificiale che pongono un nuovo problema di Zivilisation. Alquati la chiamava «Riproduzione della capacità-umana», siamo arrivati lì. Se parliamo di riproduzione della capacità-umana, arriviamo ad una terminologia che io uso tuttora, con significati non organicisti o neo-identitari, «comunità». Se il problema è tra Zivilisation e capacità umana, rimane la questione aperta dell’«essere in comune» che rimanda a cosa significa fare comunità. Ci sono tracce di comunità operose dove siamo messi al lavoro ma inoperose nel fare carovana per cambiare lo stato presente delle cose. Sono queste le riflessioni degli ultimi venti anni.


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