Creazione e governo dei disoccupati di Napoli
Il 28 giugno 2024 si è tenuta presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali di Salerno una giornata di studi dedicata a «Soggettività digitale tra poteri e resistenze. Foucault nel XXI secolo» organizzata da Alessio Porrino, Andrea Postiglione e Adriano Vinale. L’incontro rientrava all’interno delle iniziative del «Foucault 40 World Congress». Nel suo intervento, che qui pubblichiamo, Fabrizio Denunzio prende in esame il caso dei «Disoccupati organizzati di Napoli» per mostrarci come il potere, per governare la popolazione, ha continuamente bisogno di disarticolare la forza delle lotte. A tal scopo adotta le innovazioni tecnologiche oppure delle diverse forme di organizzazione della produzione e della riproduzione che, alla luce di ciò, perdono la loro presunta oggettività, con cui spesso vengono presentate dalle scienze aziendali, per mostrarsi per quello che sono: strumenti di parte per accrescere il dominio e lo sfruttamento.
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L’ultima volta che per puro caso mi sono imbattuto «culturalmente» nel movimento dei disoccupati napoletani, dopo averne fatta esperienza storica diretta quando ero ragazzino a Napoli negli anni Settanta del Novecento, accadeva qualche anno fa tra le pagine della Dismissione, il romanzo di Ermanno Rea del 2001 dedicato allo smantellamento dell’Ilva di Bagnoli e anche lì, ripetuto acriticamente, ritrovavo, nelle parole del protagonista Vincenzo Buonocore, appartenente con fiero orgoglio all’aristocrazia operaia, il giudizio pluridecennale con cui, dentro e fuori le case, l’opinione pubblica napoletana aveva sempre stigmatizzato i disoccupati organizzati, grosso modo quello che ne faceva dei delinquenti completamente privi di ogni voglia di lavorare buoni tutt’al più a bloccare per ore il traffico della città. E così li giudicava Buonocore nel momento in cui li vedeva entrare in fabbrica grazie a un intrallazzo politico e inquinare con varie attività illecite l’ambiente operaio dell’acciaieria, contribuendone allo sfacelo già decretato da una perdita di 127 miliardi di lire nel 1977. Quelle pagine vanno rilette:
Ciò nonostante, proprio quell’anno furono assunte svariate centinaia di disperati – ex detenuti, picchiatori fascisti, piccoli contrabbandieri, iscritti in settemila al listone unica dei disoccupati organizzati – imposti all’acciaieria dai lungimiranti politici e amministratori pubblici locali. Non ci volevano che loro, i disoccupati organizzati, per perfezionare l’immagine di degrado assunta da tempo dallo stabilimento. Nei reparti, oltre a lavorare e a produrre (preoccupazione delegata sempre più ai pochi che sapevano e volevano farlo) si vendevano sigarette di contrabbando, preservativi, articoli di bigiotteria, oppure capi di vestiario, liquori, orologi, bracciali, occhiali e qualsiasi altro tipo di merce, sia di provenienza illecita che, eventualmente, lecita.
Non mancavano neppure gli usurai: stazionavano nei pressi della banca annessa allo stabilimento (quando cominciammo a percepire lo stipendio mensile invece della quindicina), pronti a piombare addosso all’immancabile disgraziato con l’acqua alla gola, che loro riconoscevano a fiuto. Si raccoglievano inoltre scommesse di ogni genere (cavalli, lotto, toto nero). Si praticava il gioco d’azzardo, Si compivano atti camorristici con la copertura non di rado di ragguardevoli protezioni interne allo stabilimento.
Ricordo l’arresto di un tizio che, ostentando nel reparto dove prestava servizio il possesso di coltelli e pistole, era riuscito a estorcere dai compagni, e dallo stesso capoturno, che si addossassero anche il lavoro che sarebbe toccato a lui, timbrando al mattino, oltre ai propri, anche il suo cartellino (Rea 2014).
La rilettura è necessaria non solo perché conferma quanto l’immaginario narrativo possa rilanciare e rafforzare a livello simbolico la stigmatizzante opinionistica corrente, quindi, che lo voglia o meno, mettendosi al servizio della riproduzione sociale della visione negativa che le istituzioni hanno dei disoccupati napoletani, ma anche perché dimostra che tale stigmatizzazione può e deve essere rimossa attraverso un indispensabile lavoro culturale e politico di informazione: in quel fatidico 1977 usciva per Feltrinelli il memorabile libro inchiesta di Fabrizia Ramondino Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti raccontano, che sicuramente era consapevole della variegata composizione sociale del movimento: «Chi sono i disoccupati? Da dove vengono? Vengono per la maggior parte da tutti i settori del lavoro precario, ma anche dai licenziamenti delle grandi industrie, anche dall’esperienza dell’emigrazione nel Nord o in Europa; contano nelle loro file anche giovani in cerca di prima occupazione, piccoli camerieri, baristi, anche sottoproletari, anche ex carcerati, piccoli contrabbandieri, molti invalidi civili» (Ramondino 2023, p. 64). Da qui nessuna stigmatizzazione, ma tanto desiderio di conoscenza.
Solo di recente mi è capitato, sempre per puro caso, di imbattermi nuovamente nel movimento dei disoccupati di Napoli, questa volta, però, sono stato più fortunato perché mi è toccata in sorte la lettura di un folgorante articolo di Andrea Bottalico, Il grande Piano per la disoccupazione e la posta in gioco delle lotte per il lavoro, uscito su «napoliMonitor» il 4 marzo 2024.
L’autore ci ricorda varie e importanti cose che vale la pena menzionare come ad esempio: il profilo socio-lavorativo di questa generazione di disoccupate e disoccupati: «Ex percettori del reddito di cittadinanza; giovani scoraggiati che non studiano, non lavorano e non sono in formazione; uomini o donne in condizioni di svantaggio o di fragilità; lavoratori e lavoratrici autonome che cessano l’attività» (Bottalico 2024); e specialmente il significato sociale ed esistenziale di un conflitto pluriennale: «Una platea storica di disoccupati conduce da anni una lotta per il rifiuto delle pratiche clientelari, del lavoro precario e della ricerca solitaria del posto di lavoro» (ivi).
Bottalico, però, fa anche un’altra cosa importante, ci fa vedere come tale platea, che conta al suo attivo nella regione Campania circa 255 mila persone, sia gestita e governata grazie a un Piano che inizia a realizzarsi nel momento in cui il disoccupato comunica il suo stato al Centro per l’impiego. Ciò che va sottolineato è il ruolo che in questo Piano svolge l’algoritmo: «Lo scopo è la personalizzazione degli interventi. C’è un algoritmo che stima la probabilità che ha l’utente di trovare occupazione entro una certa data. Dopo aver acquisito le informazioni, l’algoritmo le processa per misurare la distanza dell’utente dal mercato del lavoro, per poi smistarlo in uno dei quattro percorsi previsti» (ivi).
Al di là dell’analisi dei singoli percorsi indicati, ciò che Bottalico rivela è l’obiettivo generale perseguito dal Piano grazie all’uso della profilazione algoritmica: «Fino a poco fa gli utenti erano aggregati in target da sottoporre a trattamento. Rientravano in una delle categorie socio-economiche individuate dall’ennesima legge di bilancio. Oggi lo scenario è cambiato: Dai gruppi da inserire in specifici programmi si è passati all’analisi dei bisogni di ciascun caso sulla base di un monitoraggio capillare. Ieri erano individui raggruppati oggi sono individui frantumati nell’intimo».
Detta in breve, la funzione dell’algoritmo è quella di isolare sempre più l’individuo dal gruppo sociale di appartenenza così da distaccarlo da ogni forma collettiva di rivendicazione e questo perché, come dice sempre l’autore, i disoccupati organizzati «a Napoli da cinquant’anni rappresentano una spina nel fianco delle istituzioni», una forza sociale da demotivare e contenere, sarebbe a dire, da disciplinare.
Un potere tutto orientato al distanziamento dei corpi, allora, quello dell’algoritmo, nel quale naturalmente non va mai dimenticato, se non a rischio di ipostatizzare un artefatto tecnologico, si incarna e diventa operativo l’interesse del padronato a disarticolare ogni forma di vicinanza tra i lavoratori e a ottimizzare il loro sfruttamento in qualità di individui isolati, potere che trova una sua applicazione tanto sul corpo dei disoccupati nella forma della singolarizzazione dell’intervento in sede di ricerca occupazionale, quanto su quello di chi il lavoro ce l’ha, ad esempio, i lavoratori impiegati nelle piattaforme digitali, come ha ben dimostrato Andrea Postiglione in una ricerca sul campo tra i riders di Napoli (Postiglione 2024), che sa coniugare strumenti di analisi teorica foucaultiana ad una delle più tradizionali risorse del metodo sociologico, l’osservazione etnografica.
Stando ai lavori d’inchiesta, mi sembra che i disoccupati di Napoli non solo siano una spina nel fianco da cinquant’anni ma anche l’oggetto di specifiche strategie politiche istituzionali e imprenditoriali dure a morire. Se oggi le vediamo agire attraverso l’algoritmo, ieri funzionavano con il decentramento della produzione. È una delle grandi lezioni di Fabrizia Ramondino.
Cosa fecero gli imprenditori del settore calzaturiero campano di fronte al crescere della mobilitazione operaia del settore, nella quale confluirono anche lavoratori di altre industrie, e che vide la punta della sua massima espressione nella manifestazione del 10 marzo 1961, conclusasi a piazza Dante a suon di manganellate della polizia?
Due cose molto importanti: introdussero macchinari specializzati così da dequalificare la mano d’opera impiegata e decentrarono la produzione in tanti singoli settori che dislocarono in altrettante zone del territorio. Sintetizzando di molto potremmo dire che si difesero dalla compattezza della forza operaia creando disoccupazione attraverso una ristrutturazione del processo produttivo generale – sul quale pesarono non poco tanto la crisi industriale dell’area stabiese quanto l’installazione dell’Alfa Sud di Pomigliano – che faceva leva sulla progressiva parcellizzazione dei comparti e sulla loro disseminazione territoriale.
Anticipando di molto il dibattito che sarebbe seguito negli anni Novanta del Novecento, con una lungimiranza pari solo a quella di Luciano Bianciardi che nel 1955 definiva la natura stagional-bracciantile degli intellettuali impiegati nelle case editrici (Denunzio 2024, p. 88), individuando avanguardisticamente in piena era di stabilità salariale fordista nuclei attivi di precariato, Ramondino capisce già alla metà degli anni Settanta sempre di quel secolo, che la precarizzazione permanente dei lavoratori sarebbe diventata un’ennesima risorsa ricattatoria nelle mani dei capitalisti, foriera di una profonda, strutturale destabilizzazione nell’esistenza dei lavoratori, come scrive uno degli intervistati: «Noi non vogliamo vivere a breve scadenza, sono anni che lo facciamo, finiamola una buona volta con questa paura che, come scadono i contratti di lavoro, così scadono per noi e la famiglia le possibilità di poter mangiare» (Ramondino 2023, p. 65). E di «proletariato precario» infatti parla sempre Ramondino quando si riferisce ai disoccupati di Napoli.
A ben vedere, allora, come il disoccupato di ieri veniva creato da un processo materiale di decentramento della produzione che in realtà aveva come effetto principale il suo isolamento dal resto del proletariato industriale (segmentazione dei reparti e loro dislocamento in varie zone del territorio) così oggi viene governato da un processo immateriale che ne continua e radicalizza la logica isolazionista con un algoritmo che ne personalizza l’intervento per la ricerca di un’occupazione, allontanandolo sempre più da quanti vivono nella stessa condizione ponendolo nella sua fragile solitudine sociale di fronte alla burocrazia digitale.
C’è un’altra lezione che non dovremmo mai dimenticare di Ramondino: il disoccupato di Napoli non può mai essere disgiunto dal movimento che ne organizza la lotta per il lavoro – mai sostenuta da organizzazioni partitiche e sindacali di sinistra – che a sua volta non è mai stata una lotta solo per il lavoro, forse perché il lavoro non ha mai solo a che fare con la prestazione lavorativa ma con tutta l’esistenza umana, ed è per questo che il proletariato precario napoletano ha sempre lottato per la tutela della salute, per il diritto alla casa, contro l’aumento del costo della vita, contro lo sfruttamento del lavoro nero, in breve, ha lottato una lotta totale che partiva e parte da un enunciato rivoluzionario: alla domanda dell’intervistatrice che chiede chi abbia mai potuto organizzare i disoccupati, uno di loro risponde: «È la miseria che li ha organizzati» (ivi, p. 63). Quella di ieri come quella di oggi, contro il decentramento ieri contro l’algoritmo oggi.
Bibliografia
A. Bottalico (2024), Il grande Piano per la disoccupazione e la posta in gioco delle lotte per il lavoro, «napoliMonitor», 4 marzo.
F. Denunzio (2024), «Marcello come here»: quale industria per quale letteratura italiana? Emigrazione, precariato intellettuale, depressione, in “Sociologia”, n.1, pp. 85-91.
A. Postiglione (2024), La voce della resistenza nelle piattaforme digitali: Forme di soggettivizzazione fra informale, corporeità e relazione, «Machina», 21 marzo.
F. Ramondino (2023), I disoccupati organizzati raccontano, in F. Ramondino, Modi per sopravvivere. Gli scritti politici, Edizioni e/o, Roma.
E. Rea (2014), La dismissione, Feltrinelli, Milano, ebook.
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Fabrizio Denunzio è professore associato presso il Dipartimento di Studi Politici e Sociali presso l’Università degli Studi di Salerno dove insegna Sociologia dei processi culturali del lavoro.
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