a cura di Anna Curcio

Quello che segue è un breve racconto autobiografico di Silvia Federici, estratto da un testo pubblicato in Femminismi. Idee, movimenti, conflitti a cura di Federica Castelli e Roberto Carocci (2021) [1]. Un recente volume collettaneo che propone spunti utili per orientarsi «nel panorama plurale e mutevole dei femminismi internazionali», come spiegano i curatori. Tra i diversi contributi compare anche il testo che segue, costruito insieme a Silvia per tracciare a grandi linee l’articolazione e gli sviluppi del suo impegno teorico e militante, «quel continuo piegare l’analisi all’urgenza politica e l’incessante intreccio della riflessione intellettuale con il percorso biografico» che segna, a mio dire l’irrinunciabile punto di metodo del lavoro di Federici.
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Ho chiesto a Silvia di raccontarsi e di farlo in modo da permetterci di leggere gli sviluppi del suo pensiero. Con la grande generosità che la contraddistingue, ha messo mano al suo archivio politico-affettivo e ripercorso l’intera traiettoria del suo femminismo: dagli anni della campagna «Salario al lavoro domestico», fino alla critica alla globalizzazione e alla politica dei commons. Per lasciare spazio al racconto, il testo che segue è organizzato per blocchi temporali e ripercorre tre snodi principali. Gli anni della sua prima formazione in un’Italia ancora contadina che lavora al miracolo industriale, di cui Silvia mal sopporta le rigidità e che sarà lo sfondo di un femminismo materialista e radicale, orientato a comprendere e combattere le condizioni della subordinazione e dello sfruttamento delle donne nel sistema capitalistico. Un secondo momento è l’incontro con il lavoro di Mariarosa Dalla Costa. Gli anni dei «gruppi per il salario», dell’impegno politico-militante tra l’Italia e gli Stati Uniti e della critica femminista che rompe con il marxismo e il socialismo.Infine il soggiorno in Nigeria, dove fa diretta esperienza delle «nuove recinzioni», della «crisi del debito» e della politica dei commons delle donne africane. Intorno a questi temi ha concentrato anche il suo impegno teorico e militante più recente: nel movimento Occupye soprattutto nella nuova stagione femminista avviata da Ni Una Menos in Argentina che di Silvia Federici ha detto: «Es una de nuestras brujas feministas preferida».
Quello che segue è il suo racconto autobiografico.
La prima formazione: Parma, la valle del Po, gli Stati Uniti
Sono nata nel 1942, a Parma, la «città delle barricate» che nell’agosto del 1922 hanno fermato i fascisti che si preparavano a marciare su Roma. Sono nata in piena guerra, a pochi mesi dalla decisione di Hitler di sterminare gli ebrei, nell’anno più duro per gli italiani (come ho appreso da Romolo Gobbi). Parma era costantemente sotto i bombardamenti e con la famiglia siamo sfollati in un paesino al di là del Po, Casalbellotto, in una fattoria gestita da due donne, Rosa e Antonia, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra. Sono poi ritornata molte volte alla fattoria e le memorie più belle che ho della mia infanzia sono legate all’esperienza di scoprire la campagna, gli alberi, i fiori, gli animali. Il mio ecofemminismo ha qui le sue radici. Nella campagna della Valle Padana ho conosciuto anche un mondo, pre-industriale, che in pochi anni sarebbe scomparso e che ha però costituito per me un costante punto, se non di riferimento, di confronto.
Dopo la guerra ho vissuto a Casalmaggiore, una cittadina allora di 14.000 abitanti, sulla riva del Po, dove ho avuto le prime amiche e mantenuto il rapporto con la campagna. Siamo ritornati a Parma nel 1955 con mio grande dispiacere, ma vivere a Parma è stato cruciale. Era quasi un’oasi in un’Italia che vedeva la polizia nelle fabbriche, i massacri dei contadini nel Sud e la grande crociata anticomunista organizzata da Democrazia cristiana, Vaticano e Ambasciata americana. Ricordo i comizi in piazza, i garofani e le bandiere rosse.
Ho ricevuto un’educazione laica a cui ha contribuito anche mio padre che era un insegnante di storia e filosofa. Non era un rivoluzionario, votava liberale, e abbiamo avuto molte discussioni e liti politiche, tuttavia mi ha insegnato l’importanza della storia e ha coltivato in me uno spirito critico. D’altra parte era inevitabile. Appartengo a una generazione che non poteva non essere politicizzata. Il fascismo, la guerra, la campagna repressiva degli anni cinquanta e poi l’eco delle lotte contro il colonialismo. Sentivamo parlare dei Mau Mau, poi dell’Algeria e, quando ero al liceo, di Cuba. Alcuni dei miei compagni già discutevano se entrare nel Pci e io mi preparavo a diventare femminista.
L’Italia che usciva dal fascismo era un Paese (e in parte continua a esserlo) misogino e autoritario. Ricordo la vergogna nel vedere comparire i primi accenni di un seno. Ho però cominciato molto presto a ribellarmi alle continue proibizioni imposte in nome del mio genere e ho deciso che sarei andata all’estero dopo la laurea. Sapevo che lavorando come supplente non sarei riuscita a mantenermi e avrei dovuto continuare a vivere con la mia famiglia, accettando la disciplina patriarcale che questo comportava. C’era anche la fatica. Le supplenze erano spesso in paesi di montagna difficili da raggiungere. Per pochi soldi mi alzavo alle 5 del mattino e tornavo a metà giornata, spesso in autostop, per insegnare inglese a bambini che l’avrebbero forse utilizzato solo se fossero emigrati. Per questo, subito dopo la laurea in Lingue e letterature moderne a Bologna, mi sono iscritta a Filosofa e, nell’agosto del 1967, sono partita per gli Stati Uniti con una borsa di studio per scrivere la tesi. Partii da Genova il 9 agosto, per un’avventura che sarebbe dovuta durare un anno o due, ma in realtà non sono più tornata.
Una delle ragioni che mi ha indotta a restare negli Stati Uniti è stato lo straordinario contesto politico di quegli anni. Il 1967 è stato l’anno della Summer of Love e della rivolta della comunità nera a Detroit. Quando sono arrivata all’Università di Buffalo, dove per tre anni ho studiato e insegnato, la tensione era molto alta. Nelle settimane precedenti c’era stata una rivolta della comunità nera, contemporaneamente si preparava il processo a nove giovani che avevano tentato di passare il confine con il Canada per evitare di andare in Vietnam. Gli anni di Buffalo sono stati anni di politicizzazione. Il movimento contro la guerra e poi il movimento per il Potere nero hanno rappresentato una palestra importante per conoscere la lotta anti-coloniale, il razzismo, l’imperialismo. Buffalo era una città con una forte base industriale e una popolazione prevalentemente bianca molto conservatrice, che disprezzava gli studenti e poteva contare sul controllo repressivo di un’amministrazione mafiosa. A volte abbiamo avuto la polizia nel campus per giorni.
Ho cominciato quasi immediatamente a lavorare nel movimento studentesco e a collaborare con «Telos», una rivista filosofico-politica, che si ispirava alla corrente del marxismo fenomenologico rappresentata in Italia da Enzo Paci. Attraverso «Telos» ho conosciuto vari intellettuali e compagni della nuova sinistra italiana e ho cominciato a collaborare per tradurre materiali, da Lotta continua a Potere operaio. Nella primavera del 1972, nel corso di queste collaborazioni, mi sono imbattuta nel saggio di Mariarosa Dalla Costa, Donne e sovversione sociale [2]. Facevo parte dei gruppi femministi ma l’incontro con lo scritto di Mariarosa ha segnato una svolta importante, e in un certo senso l’inizio di una nuova fase politica che definirei di femminismo a tempo pieno.
Il femminismo a tempo pieno degli anni Settanta
L’importanza del testo di Dalla Costa risiedeva per me nella possibilità di pensare a un femminismo non limitato alla lotta per l’uguaglianza ma fondato sui rapporti di classe e radicato in una prospettiva marxista e anti-capitalista. La tesi di fondo – che il cosiddetto lavoro domestico è in realtà lavoro di produzione della forza-lavoro e quindi fondamento di ogni altra attività produttiva nel capitalismo – risolveva per me tutte le questioni che in quegli anni si dibattevano nei gruppi femministi: il rapporto tra genere e classe, le ragioni della subordinazione delle donne agli uomini, la specificità dello sfruttamento femminile nella società del capitale. Rompendo con lo schema dell’operaismo che – protagonista di una rottura storica con il movimento operaio istituzionale, dal Pci al sindacato – aveva privilegiato come soggetto rivoluzionario «l’operaio massa», l’operaio della catena di montaggio indifferente ai fini e alle modalità del proprio lavoro, interessato solo a ottenere «più soldi e meno lavoro», Dalla Costa poneva al centro della lotta femminista la casalinga, la lavoratrice non salariata impegnata nel lavoro di riproduzione. Come ho scritto in passato si è trattato di una rivoluzione copernicana, perché di contro a tutta una tradizione marxista che ignorava e svalutava il lavoro di riproduzione, questo ora appariva come fondamentale per lo sviluppo del capitalismo in quanto riproduzione di forza-lavoro. È a partire da questa analisi che nell’estate del 1972, in un incontro a Padova, abbiamo lanciato la campagna per il Salario al lavoro do mestico. Era uno strumento per rendere visibile il lavoro di riproduzione ed esprimere il rifiuto del lavoro non pagato. Allo stesso tempo intendevamo rigettare la politica femminista dominante che lottava per l’uguaglianza e per l’accesso a settori di lavoro tradizionalmente maschili. La nostra obiezione non era riferita al tema del secondo lavoro, che molte già svolgevano, ma riguardava l’idea di trasformare questa necessità in una strategia. Sostenevamo, infatti, che non avremmo potuto cambiare la nostra situazione se non avessimo prima affrontato il problema del lavoro domestico. Non farlo avrebbe voluto dire porre un’ipoteca su ogni spazio sociale in cui ci fossimo ritrovate. Oggi, dopo mesi di pandemia e confinamento, per molte di noi in casa o negli ospedali come lavoratrici essenziali, la crisi del doppio lavoro è più che evidente. Tuttavia, il Covid-19 ha fatto luce su una crisi già esistente che, per moltissime donne, significa una vita di continuo lavoro, senza tempo ed energie per potersi rigenerare, una situazione ben diversa dal «rifiuto del lavoro» di cui si parlava negli anni Settanta.
Negli Stati Uniti, in quegli anni, esisteva un forte movimento di donne che lottava a sostegno di un programma di welfare sorto dal New Deal, che assegnava un sussidio alle madri sole con figli minori. Il sussidio, poi abolito da Bill Clinton nel 1993, era un aiuto concreto che garantiva un margine di autonomia di scelta e non costringeva le donne ad accettare un lavoro miserevole che non sarebbe bastato per vivere. Il comitato Wages for Housework di New York ha costruito la campagna per il salario intorno a questi temi. Ho lavorato con il comitato per cinque anni, dal 1972 al 1977. Nel 1976, durante una conferenza sul welfare, si è formato il Black Women for Wages for Housework.
Sono stati anni molto intensi. Avevamo contatti continui con i vari gruppi che si formavano negli Stati Uniti e con le compagne in Inghilterra, Italia e Canada. Nel corso dei ripetuti viaggi tra l’Italia e gli Stati Uniti e dei frequenti soggiorni a Padova, ho cominciato a collaborare con Leopolda Fortunati al libro poi pubblicato da Franco Angeli nel 1984, col titolo Il Grande Calibano. Ci proponevamo di applicare l’analisi della riproduzione che andavamo sviluppando nella campagna per il salario a una lettura dei cambiamenti avvenuti nel processo di riproduzione sociale nell’ambito dello sviluppo del capitalismo.
Gli anni in cui ho lavorato più intensamente a Il Grande Calibano sono stati gli anni che seguirono lo scioglimento della nostra organizzazione a New York. Non voglio dilungarmi sulle ragioni di questa decisione. Uno dei fattori principali è stata la grossa sconfitta che abbiamo subito a partire dal 1975, quando la città ha annunciato di essere sull’orlo della bancarotta e sono state attuate una serie di riforme che rappresentano il primo esempio di gestione neoliberale della cosa pubblica e dei rapporti di classe. Nel nome della bancarotta si sono chiusi tempi e spazi di cui in passato potevamo usufruire e, con essi, la possibilità di costruire un movimento forte, capace di imporre la ridistribuzione della ricchezza che la campagna per il Salario al lavoro domestico rivendicava.
L’elezione di Reagan, alla fine degli anni Settanta e l’affermarsi della politica neoliberale hanno segnato per me l’inizio di un periodo che si prospettava di stagnazione politica.
L’Africa, la critica alla globalizzazione e la politica dei commons
Dopo lo scioglimento della nostra organizzazione, ho collaborato con i compagni di «Midnight Notes» a una nuova rivista sorta nel 1979 dopo il disastro nucleare di Tree Mile Island. Vedevo però i limiti della mobilitazione contro la politica nucleare di Reagan, incapace di rispondere all’attacco contro la classe operaia avviato con lo smantellamento di gran parte del comparto industriale, dall’auto all’acciaio, e di contrastare la violenta campagna razzista che accompagnava la ristrutturazione dell’economia. Da qui la decisione di lasciare il Paese, almeno per alcuni periodi. La scelta della Nigeria è stata in parte accidentale, ma ha prodotto un grosso cambiamento nella mia vita. In Africa ho compreso più direttamente il significato del colonialismo e, soprattutto, ho preso contatto con una società e una cultura fondate sulla gestione comunitaria della terra. Inoltre, la mia permanenza in Nigeria ha coinciso con l’esplosione della «crisi del debito», una crisi creata artificialmente attraverso l’aumento dei tassi di interesse sul dollaro introdotto nel 1979 dalla Federal Reserve, che avrebbe permesso al capitale internazionale, attraverso l’intervento della Banca mondiale (Bm) e del Fondo monetario internazionale (Fmi), di ricolonizzare gran parte del cosiddetto Terzo Mondo.
Insegnavo all’Università di Port Harcourt sul delta del Niger. Al mio arrivo, sono rimasta colpita dai toni drammatici dei titoli dei giornali che richiamavano la necessità di ottenere un prestito dal Fmi. La questione del debito, la politica del Fmi, il suo impatto sulla Nigeria e su gran parte dell’Africa, sarebbero diventate per me questioni centrali. Intuivo che attraverso la «crisi del debito» era in atto la ristrutturazione dell’economia globale: si ristabiliva il controllo dell’Europa e degli Stati Uniti sulle risorse minerarie, agricole e umane di gran parte del pianeta. E soprattutto, facevo esperienza diretta degli effetti della crisi che imponeva il taglio della spesa pubblica, proprio a partire dalle università. Al mio arrivo a Port Harcourt gli studenti erano in sciopero per protestare contro il taglio dei sussidi e la lotta di studenti e insegnanti contro il mandato del Fmi avrebbe caratterizzato gli anni della mia vita in Nigeria. Ritornata negli Stati Uniti, insieme ad alcuni accademici africani e con George Cafentzis che in quel periodo lavorava all’Università di Calabar, abbiamo fondato il Comitato per la libertà accademica in Africa (Committee for Academic Freedom in Africa), definendo la libertà accademica a partire dal diritto allo studio e dalla produzione di conoscenza. Dal 1990 al 2003, anno in cui il comitato ha terminato il suo lavoro, abbiamo pubblicato bollettini periodici che documentavano le lotte di studenti e insegnanti contro i programmi di aggiustamento strutturale e analizzavano la definizione di una nuova divisione sociale del lavoro su scala globale, che avrebbe condannato gli africani all’emigrazione e a lavori principalmente di manovalanza.
Il periodo trascorso in Africa è stato fondamentale anche per comprendere che la lotta per difendere terre e relazioni comunitarie dalla privatizzazione e dall’esproprio è ancora viva. In Nigeria, i principali agenti delle «nuove recinzioni» erano la Bm, che puntava a commercializzare la terra attraverso programmi di «sviluppo agricolo», e le compagnie petrolifere che, con false promesse, conducevano esplorazioni ed estrazioni in vaste aree del delta, producendo danni incalcolabili al patrimonio ecologico e alla vita delle persone. In Nigeria ho anche avuto modo di verificare lo stretto rapporto tra l’espansione dei rapporti capitalistici e l’intensificarsi della repressione. Ma soprattutto ho verificato l’esistenza di una stretta relazione tra l’espansione dei rapporti capitalistici e l’istituzione di forme severe di disciplinamento delle donne. Nel 1985, il programma di «guerra all’indisciplina» del capo del governo, generale Buhari, accusava le donne di essere all’origine della crisi economica per aver creato aspettative troppo alte tra i giovani. Inaspettatamente, i processi che avevo verificato studiando i cambiamenti nella vita delle donne (contadine, artigiane) in Europa, con lo sviluppo dei rapporti capitalistici nel XVI e XVII secolo, si replicavano davanti ai miei occhi, dimostrando, ancora una volta, che lo sviluppo del capitalismo si fonda sempre sulla divisione delle popolazioni a cui si rivolgono le nuove forme di sfruttamento. In quegli anni, ancora non sapevo che in parte dell’Africa e presto poi in India e in Papua Nuova Guinea sarebbero iniziate vere e proprie cacce alle streghe, reminiscenza delle persecuzioni nell’Europa della transizione al capitalismo, che sono oggi al centro dei miei studi e del mio lavoro politico.
Calibano e la strega è stato il prodotto della mia esperienza in Africa e della partecipazione al movimento contro la globalizzazione, al quale ho preso parte considerando sempre unitamente la crescente violenza contro le donne, la commercializzazione dell’istruzione pubblica e l’affermarsi di una società «carceraria».
Concludendo, voglio aggiungere che il mio interesse per i rapporti e i beni comunitari, ciò che definisco «la politica dei commons» è nata in Nigeria. Qui, ho compreso che esiste ancora un mondo di pratiche e valori che si oppone alla logica del capitalismo, che vive nonostante la continua recinzione della terra, del corpo (soprattutto delle donne) e delle conoscenze, e che rappresenta una forza difficile da sradicare, perché la completa commercializzazione della nostra vita corrisponde all’accettazione di una vita impoverita e sempre più intrisa di morte. È stato per me importante comprendere che i commons sono il principio che connette passato e presente, che ci ricorda quelli/quelle che hanno lottato prima di noi e ci hanno permesso di fare un passo avanti o aiutato a non demoralizzarci di fronte a certe sconfitte. Connette anche sociale ed ecologico, incluso il mondo degli animali che sono i nostri compagni in questo pianeta e, come noi, hanno diritto all’uso della terra, delle acque, delle foreste. In questo senso le esperienze fatte in Nigeria mi hanno anche portato ad allargare il concetto di riproduzione con cui avevo lavorato nella campagna Salario al lavoro domestico. Riproduzione ha sempre più significato non solo il lavoro riproduttivo dentro e fuori casa ma anche il lavoro agricolo di sussistenza, la cura dell’ambiente e della natura. In questo processo, ho imparato molto da Maria Mies, Ariel Salleh e Vandana Shiva, anche se non sempre sono d’accordo con le loro analisi. I molti viaggi che ho fatto a partire dagli anni Novanta in America latina hanno ulteriormente confermato che la costruzione di una prospettiva politico/culturale in cui tematiche femministe, anti-capitaliste e antirazziste si coniugano inseparabilmente a tematiche del movimento ecologico, ambientalista, animalista è il compito principale che oggi ci aspetta, se vogliamo uscire da un mondo votato all’estinzione di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta.
Note [1] A. Curcio (a cura di), «Il femminismo a tempo pieno di Silvia Federici. Un racconto autobiografico», in F. Castelli - R. Carocci, Femminismi. Idee, movimenti, conflitti, Nova Delphi, 2021. [2] M. Dalla Costa, «Donne e sovversione sociale», in Potere femminile e sovversione sociale, Marsilio, Venezia 1972 (ora, Donne e sovversione sociale. Un metodo per il futuro, ombre corte, Verona 2021).
Immagine: Chiara Susanna Crespi
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Anna Curcio, ricercatrice militante, studia le trasformazioni produttive e del lavoro con attenzione alla razza e al genere. Si occupa di riproduzione e riproduzione sociale. Ha tradotto dall'inglese Silvia Federici (ombre corte 2014 e 2018) e Nancy Fraser (ombre corte 2014). Fa parte del progetto commonware.org.
Silvia Federici ha insegnato all'Università di Port Harcourt in Nigeria ed è stata Professore di Filosofia politica e Studi Internazionali al New College dell'Hofstra University a New York. Tra le sue pubblicazioni in lingua italiana: Il punto zero della rivoluzione (2014) e Calibano e la strega (2015).
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