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Il comunismo non si costruisce e non si organizza



Camatte
Immagine: Stefano Serretta, engagement, Indian ink and acylic, 2021

In occasione dell'uscita di Lo scisma da un mondo che muore. Jacques Camatte e la rivoluzione di Michele Garau terza pubblicazione del nuovo marchio editoriale MachinaLibro, proponiamo un estratto del libro in cui l'autore ragiona sul rapporto tra comunismo e organizzazione nel pensiero del filosofo francese.


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La componente più importante e meno intuitiva dell’eredità di Bordiga che Camatte valorizza è quella del rapporto tra comunismo e organizzazione. Più di preciso si tratta del rifiuto, espresso da Bordiga, verso ogni feticismo delle forme e «mistica dell’organizzazione». Una fiducia assoluta nel partito come programma e comunità che supera le generazioni, ma una critica feroce verso il culto delle strutture burocratiche, qualificato come «fascista» da Camatte e da Bordiga stesso: «l’ideologia fascista per cui tutto è questione d’organizzazione, di messa in piedi di strutture!»[1]. C’è indubbiamente un primo significato, superficiale ma esatto, per cui il comunismo non si organizza in quanto sorge dal corso spontaneo ed automatico del movimento storico – è il frutto del suo determinismo – non da progetti, interventi o dall’esercizio della volontà umana. Non si può costruire il comunismo, innanzitutto, ma al massimo rimuovere gli ostacoli che ne intralciano lo sviluppo: «[…] con virulenza si insiste sull’assioma: il comunismo non si costruisce, si distruggono soltanto gli ostacoli al suo sviluppo»[2]. È un concetto che punteggia l’elaborazione di Bordiga e che viene spiegato, tra l’altro, nel già citato Dialogato con Stalin.

         C’è però anche dell’altro. Il primato dell’organizzazione ha storicamente a che fare con due processi. Ha a che vedere, in primo luogo, con il passaggio del capitalismo al suo dominio reale sulla società e non soltanto sul processo produttivo. Ciò comporta un processo storico che genera il pieno controllo, da parte della forma-capitale, del metabolismo sociale ed economico, della circolazione, del credito, ma allo stesso tempo l’assorbimento delle classi e la subordinazione della politica e dello Stato al potere capitalistico:

 

Così, il capitale è divenuto la comunità materiale dell’uomo; tra movimento della società e movimento economico non c’è più scarto, il secondo ha totalmente subordinato il primo. Si è visto come, nelle forme precedenti, le diverse comunità cercassero di limitare lo sviluppo del valore di scambio poiché esso scalzava le loro fondamenta. Nel capitalismo, al contrario, è proprio il movimento del valore che rende stabile il dominio della comunità. Ciò significa, allora, che esso si è impadronito dello Stato, comunità alienata degli uomini o, se si vuole, tentativo di conciliazione degli antagonismi, al punto che può apparire come la negazione del potere di una classe […][3].

 

Questo è il motivo per cui il fascismo viene definito da Camatte come «democrazia sociale»: perché è integrazione totale e conciliazione delle classi dentro la società. Conciliazione mistificata, ovviamente. Infatti il fascismo è un vettore fondamentale – insieme al keynesismo – del passaggio al dominio reale del capitale, attraverso un’egemonia apparente del «polo lavoro» dentro il rapporto di capitale, la formazione di una comunità del lavoro e dei lavoratori. Ciò porta Bordiga e Camatte, anche qui in accordo, a dire che il fascismo ha perso militarmente ma vinto nella sua sostanza programmatica:

 

L’antico dualismo viene ad essere assorbito nel dominio del capitale. Questo è il fascismo. Il capitale ha conquistato lo Stato in maniera definitiva. […] Con ciò, il capitale vuole mettere in rilievo un aspetto di cooperazione al fine di negare la lotta delle classi. In fondo, il fascismo può essere definito come una forma politica che gestisce una società la quale tende a negare il comunismo nel momento stesso in cui lo genera. È il potere politico del capitale. […] Non è – come si vorrebbe – la distruzione della democrazia, bensì il suo compimento nella forma di democrazia sociale[4].

 

La primazia dell’organizzazione ha però a che vedere anche con le origini della forma sociale borghese e con la Rivoluzione del 1789. Se il comunismo non si può organizzare artificialmente poiché è il frutto di un movimento spontaneo, infatti, la matrice della società e della politica borghese poggia storicamente sull’organizzazione: «È appunto questa classe che pone i problemi della vita sociale, dell’insieme del processo di produzione e di riproduzione della specie umana, sotto forma di problemi di organizzazione. Per il proletariato si tratta invece di un problema di essere: restaurare l’essere comunitario primitivo che ha fatto propri tutti gli apporti produttivi e tecnici della società di classe»[5].

Camatte sostiene a più riprese e in diversi periodi – a partire da Capital et Gemeinwesen, scritto negli anni ‘60 – che l’operato e la convinzione dei rivoluzionari del ‘79-‘93, riflessi nella loro teoria del potere, siano un tentativo di riempire in modo formale, con soluzioni istituzionali e costituzionali, il vuoto lascito dalla dissoluzione delle comunità preesistenti, in questo caso la struttura feudale e la frastagliata architettura dell’Ancien Régime. Si tratta di un momento transitorio dell’«autonomizzazione del valore» che comanda la società ancora solo formalmente, esteriormente, e deve perciò trovare una mediazione con altri interessi e modi di produzione residui, ma che in uno stadio successivo diventerà immanente al corpo sociale, realizzando quella che Camatte chiama la sua «comunità materiale». Si tratta, scrive in modo icastico, dell’«esercizio della volontà su una società che il capitale non domina ancora da dentro».

Nella costituzione politica borghese, dunque, le istituzioni fanno ciò che il denaro non può fare da solo e che il valore non è ancora in grado di fare, poiché ancora non coincide pienamente con il legame sociale: le istituzioni funzionano come «operatori di unificazione» della società. In Caratteri del movimento operaio francese[6] – comparso sulla prima serie di «Invariance», nel ‘71 – Camatte approfondisce questo punto e sostiene che le idee di uguaglianza e libertà siano in sé stesse, come dimostrato da Marx nell’Urtext[7], un riflesso del valore di scambio e della proprietà privata, della separazione dell’uomo dalle antiche comunità.

         La dipendenza del diritto dal movimento del valore è poi confermata dal fatto che nel mondo romano antico c’è una prima comparsa, isolata e chiusa, della personalità giuridica come soggetto libero del processo di scambio, proprio perché in esso la dissoluzione della comunità antica permetteva già di realizzare, nella cerchia ristretta degli uomini liberi, quindi con estensione particolaristica e limitata, i momenti essenziali della circolazione semplice. Il mondo romano (VIII° sec. a.c. – V° sec. d.c.) e il mondo borghese del XVIII° sec. vengono entrambi dalla distruzione della comunità – in un caso schiavista e nell’altro feudale – in quanto il feudalesimo è una battuta d’arresto nel movimento del valore, reinstaura un circuito chiuso di circolazione e produzione che mette il valore ed il commercio ai margini, nei pori della società.

         Una volta distrutta la comunità, le tematiche dell’«istituzione», della repubblica e del contratto sociale da porre a difesa della sicurezza, della base naturale del diritto – per come sono elaborate da Sieyès a Saint-Just – si affermano e si rendono necessarie. L’organizzazione istituzionale deve arginare il libero movimento di una società civile come spontaneo intreccio degli scambi, dell’insicurezza materiale e dei conflitti. Non a caso questo approccio di tipo costituzionale ed istituzionale viene affiancato a una definizione nuova del «tipo umano», da associare alla «Virtù». La «Nazione» quale comunità immaginaria – pura immagine – deve sostituire la comunità nel mediare il legame organizzativo tra società civile e Stato, mentre le «Istituzioni», le leggi rivoluzionarie, sono mezzi di una standardizzazione totale dell’uomo che deve regolare consumi e bisogni: da qui l’importanza della virtù e della morale repubblicana.

         Si tratta, in sintesi, di rimpiazzare con legami artificiali quelli che l’accumulazione originaria ha dissolto, ed è per questo che la classe borghese deve porsi i problemi sociali in quanto problemi di organizzazione di ciò che è stato separato, diviso, quindi come questioni istituzionali e tecniche, mentre il comunismo, passato e futuro, non può farlo. Nel comunismo si realizza infatti un nuovo essere comunitario, non una «società» né un ordine politico. Il comunismo non conosce diritto, istituzioni o governo. Nello spazio teorico aperto da queste riflessioni si colloca anche un riferimento interessante, più volte ripetuto, a quello che Camatte definisce il «gradualismo rivoluzionario» di Saint-Just, cioè l’idea stessa di una «soggettività rivoluzionaria» e della rivoluzione come processo indefinito che ha il proprio fine in sé stesso, una «teoria della rivoluzione indefinita». Scrive Camatte, riferendosi proprio a Saint-Just:

 

Egli esprime nello stesso tempo una visione gradualista della storia secondo cui si può progredire solo tappa a tappa, senza la possibilità di saltarne alcuna. Siamo di fronte a una teoria menscevica. Ma è anche la teoria della rivoluzione indefinita. Quando si potrà dire che la rivoluzione è compiuta, terminata? I rivoluzionari francesi dovevano essere prigionieri di questa visione, essi che volevano portare a termine la rivoluzione francese, mentre lavoravano per l’avvento di un mondo nuovo. […] Saint-Just aveva compreso l’ampiezza dell’ondata rivoluzionaria. Non voleva arrestarla e impedire l’entrata in scena dei sanculotti senza i quali la rivoluzione non poteva svilupparsi completamente[8].

 

Camatte sostiene che Saint-Just, tra i rivoluzionari francesi, si inventi l’idea di una rivoluzione come divenire che non sia arresta ad un’«altezza» data, che non trova compimento. Una rivoluzione permanente che è però formalmente isomorfa, in questa sua illimitatezza quantitativa, al movimento del capitale. Questo perché i rivoluzionari borghesi stanno collaborando al movimento del valore e alla gestazione della comunità capitalistica senza accorgersene. Sotto la coltre delle rappresentazioni morali e giuridiche, di una nuova elaborazione della sovranità, si prepara ed asseconda un legame sociale che diviene, più avanti, pienamente conforme ed immanente all’«autonomizzazione» del capitale, tutt’uno con esso:

 

Il denaro, il valore in sé stesso non riesce ad autonomizzarsi; ma a partire dal fenomeno del valore inglobato dal capitale, poiché il capitale parte da un rapporto sociale e non c’è capitale se non c’è lavoro salariato, c’è possibilità di autonomizzazione, che oggi si può verificare. Si può vedere tutto ciò riprendendo lo studio di Marx ma anche come fenomeno reale, come nel dibattito della rivoluzione, quando una comunità è stata distrutta e c’è il problema delle Istituzioni nella Rivoluzione Francese, a Parigi, è lampante in particolare in Saint-Just e Robespierre. Per questo ho studiato il movimento operaio francese: per mettere in evidenza questo fenomeno[9].

 

Il pensiero di Saint-Just è allora, in seno a tale quadro, l’altra faccia dell’utopia capitalista e la sua preconizzazione più visionaria, che individua nel mutamento indefinito la vera anima delle nuove forze che stanno nascendo, oltre qualsiasi steccato o schema costituzionale. In un saggio introduttivo all’Urtext di Marx, risalente al 78 ed intitolato Marx e la Gemeinwesen[10], Camatte accenna alla chiusura di quella «dialettica rivoluzione-controrivoluzione» che proprio la Rivoluzione francese avrebbe aperto, che sarebbe segnatamente legata alla dinamica di uno sviluppo incrementale e senza limiti delle forze produttive. La stessa idea delle «forze produttive» come liberazione della quantità e pura forma che si emancipa da ogni contenuto, che spezza qualsiasi vincolo e oltrepassa ogni altezza definita, come fa il capitale con le formazioni sociali di volta in volta abbandonate, nascerebbe in tale frangente. Come si vedrà meglio il nesso tra forma vuota e sviluppo del capitale, «autonomizzazione del movimento intermedio», è spiegato nel dettaglio nel saggio, del 74, in cui Camatte regola definitivamente i conti con il marxismo: Questo mondo che bisogna abbandonare[11].

         Dov’è che l’organizzazione domina, nella storia del socialismo e della «teoria del proletariato»? Nel «socialismo inferiore» e nel programma proletario classico, ereditato dal 1848, in cui l’obbiettivo è la creazione della comunità del lavoro e la generalizzazione della condizione proletaria. Dove si postula la problematica della transizione come livellamento delle classi ed egemonia del polo lavoro entro la dialettica del capitalismo, sopravvive il problema dell’organizzazione. Però è la stessa «transcrescenza» del capitale, il suo dominio reale, che realizza al proprio interno questo stadio, che porta all’ egemonia del lavoro e all’universalizzazione del proletariato, seppure mistificandolo a proprio vantaggio, perciò questa prospettiva è svuotata, obsoleta. Su questi punti si ritornerà per spiegarne le ragioni più nel dettaglio. Si legge, in Marx e la Gemeinwesen:

 

Ora, ed è un apporto essenziale dell’Urtext, Marx mostra fino a che punto il movimento del valore di scambio, che dissolve le antiche comunità e tende a porsi esso stesso in quanto comunità, falsi ogni comprensione agli esseri umani. Ciò che essi credono determinanti sono i rapporti tra di essi, o le istituzioni che si sono dati sulla base dei rapporti economici che non sono in grado di comprendere. Marx svela la falsa coscienza storica. Allo stesso modo i borghesi francesi pensavano di limitare, uguagliare la ricchezza e non si rendevano conto che con il loro intervento essi toglievano tutti gli ostacoli al suo libero sviluppo sotto forma di capitale[12].

 

Togliere gli ostacoli al libero sviluppo di un potere anonimo e impersonale. È questo che fanno i rivoluzionari dietro il paravento dell’invenzione istituzionale e delle costituzioni? Ma soprattutto, alla luce dell’esempio di Saint-Just, che non vuole frenare il precipitato della potenza rivoluzionaria una volta che questo ha iniziato a svolgersi, è questo che fanno in realtà le rivoluzioni, il loro tacito sottofondo? La rivoluzione permanente, indefinita, senza freni di sicurezza, ricopre tale funzione storica nascosta? I punti di riferimento necessari per tirare le fila di simili interrogativi, o meglio semplicemente per porli con chiarezza, non sono ancora stati messi sul piatto. La domanda sulla natura e l’attualità della rivoluzione è quella che, seguendo le tappe del pensiero di Camatte, si vorrebbe focalizzare come punto di arrivo della trattazione. Tuttavia può essere utile fare una breve digressione, prima di tornare a Camatte e Bordiga, su alcuni echi ed implicazioni di questo problema, in modo da riprenderlo in mano, più in là, tenendo conto dei sedimenti interpretativi già incontrati.

 

 

Note

[1] J. Camatte Prospettive, in Verso la comunità umana, cit., pp. 121-145: pp. 126-127. Originariamente comparso in francese con il titolo Perspectives, in «Invariance», anno II, serie I, gennaio-marzo 1969.

[2] Id., Comunità e comunismo in Russia, cit., p. 33.

[3] Id., Il capitale totale, cit., pp. 213-214.

[4] Ivi, p. 219.

[5] Id., Caratteri del movimento operaio francese (1971), in Verso la comunità umana, cit., pp. 181-238: pp. 193-194.

[6] Cfr. «Invariance», anno IV, serie I, n. 10, aprile 1971.

[7] K. Marx, Urtext, International, Savona 1977. 

[8] J. Camatte, Caratteri del movimento operaio francese, cit., p. 194.

[9] J. Camatte, Dialogando con la vita, cit., p. 18.

[10] Id., Marx e la Gemeinwesen, in K. MARX, Urtext (Grundrisse), cit., pp. 1-22; lo stesso saggio trova è compreso nella raccolta Il disvelamento, Milano, La Pietra, 1978, pp. 7-30. Le citazioni, da ora in poi, saranno tratte da questa seconda traduzione dello scritto.

[11] Id., Questo mondo che bisogna abbandonare, in Verso la comunità umana, cit., pp. 403-430.

[12] Id. Marx e la Gemeinwesen, cit., pp. 17-18.


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Michele Garau è assegnista di ricerca all'Università di Torino. Il suo lavoro di ricerca è concentrato in particolare sulle genealogie di una politica anticapitalista estranea alla tradizione del movimento operaio e socialista. Collabora con la rivista «Machina».

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