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Il coccodrillo cieco

Filosofia come amicizia per le facoltà



1. Leggende metropolitane

Negli anni Ottanta, una leggenda metropolitana conobbe ampia circolazione. Nei canali di scolo di Los Angeles si diceva vivesse una specie mutante di coccodrilli. Oramai adatti all’oscurità della fogna, alligatori albini e semi-ciechi si aggiravano indisturbati al di sotto della città, ben pasciuti grazie a una dieta a base di ratti. La ricca borghesia statunitense pareva avesse avuto una epidemica infatuazione per nuovi rettili da compagnia. Man mano che divenivano molesti, ci si era sbarazzati dei piccoli coccodrilli scaricandoli nel water padronale fino a produrre l’inaspettata conseguenza.

È facile ridere della credulità del senso comune. Molto meno riconoscere nei propri occhi quella miopia che suona tanto esotica nel rettile metropolitano. Più radicata, non meno sbilenca, è una leggenda etico-politica che in Occidente circola da qualche millennio. La «filosofia» avrebbe a che fare con l’«amore per la conoscenza» (Rocci, 1943, p. 1965). Il composto lessicale che compone il nome equivarrebbe alla somma di «philos» (amore) e «sophia» (conoscenza). L’attendibilità dell’etimologia è pari, però, alla probabilità dell’esistenza di coccodrilli ipovedenti nei sotterranei della California.

La chiave del trucco risiede nelle due parole che formano il composto. Il linguista Émile Benveniste (1969) avverte del carattere sfuggente di un termine, «philos», che nella lingua greca è sostantivo e aggettivo, parola autonoma ma anche prefisso in grado di generare una quantità disorientante di parole. La radice «phil-» si muoverebbe lungo due campi semantici intrecciati: amicizia e possesso. Perché allora parlare di «amore per la conoscenza»? La scelta traduttiva incarna un’opzione etico-politica radicata perché spesso inconsapevole. Si dice «amore» per scalzare la philia a favore di due compagni di viaggio: l’eros e quel che la tradizione greca chiama «agape». Fare della filosofia una questione erotica, non è difficile intuirlo, significa trasformarla in una tensione pulsionale altalenante o, ben che vada, ciclica. Come c’è una stagione degli amori, così nell’anno solare ci sarebbe una primavera per la filosofia. Durante le altre stagioni, questo l’implicito, sarebbe bene fare altro. Simile a un dopolavoro ferroviario o a un’avventura estiva, l’attività teorica sarebbe da confinare a un’ora della giornata e a qualche segmento del calendario. Farne agape non pare un’opzione migliore. Trasforma la filosofia in una benemerita attività di sopportazione giacché il termine «indica amore traboccante che nulla cerca in cambio» (ivi, p. 81). Spiega così Martin Luther King questa tipologia amorosa: «noi amiamo gli uomini non perché ci piacciono, […] noi amiamo ogni uomo perché Dio lo ama» (ibid.). Il filosofo sopporta il mondo: lo descrive, magari a volte lo discute, di fatto lo subisce. La filosofia amerebbe la conoscenza come il geografo adora il paesaggio: per dettagliarne le fattezze ne prende i saliscendi e si affanna lungo le sue scarpate per poi, finalmente, tornarsene a casa propria.

La lettura etimologica che propende per «l’amore verso la conoscenza» tradisce precise scelte di campo, ciascuna delle quali trova corrispettivo in paradigmi teorici che ancora oggi vanno per la maggiore. Contemplativo è il richiamo di molti autori contemporanei di punta. Poiché non posso cambiare il mondo lo descrivo o, nel peggior dei casi, posso osservarne un particolare per folgorare il tutto cui appartiene. Mi libero del mondo giacché mi perdo nello splendore di quel rosso, nell’aroma di un profumo sublime. La filosofia come agape, per l’appunto. D’altro canto, molta della filosofia post-moderna, incomprensibile per scelta e ammiccante per vocazione, incarna una idea erotica di filosofia: seduco il lettore per poi abbandonarlo ai problemi dell’esistenza, tanto sono i suoi mica i miei. Il libro o il post sui social si offrono a un incontro notturno. Tanto focoso tra le tenebre, quanto irrilevante alle prime luci dell’alba.


2. Un ordine esprimibile

È necessario, dunque, tornare alla radice dell’espressione «philosophia» per ripensare la pratica cui essa allude. «Phil-» è «amico di». Parlare di filosofia come «amicizia per la sophia» ci arma di uno scudo in grado di difenderci da cosa la filosofia non è. Non è erotica e altalenante attrazione; non è costante ma celeste sopportazione del dio verso l’umano o dell’umano nei confronti delle prove che il supremo impone. In termini costruttivi, potrebbe essere una buona idea riprendere il discorso dalla definizione aristotelica dell’amicizia: l’amico è un héteros autós (Eth. Nic., IX, 1169b 6-7) [1]. La philia è un movimento riflessivo che impone uno sdoppiamento critico. L’amico non è una fotocopia del sé, non è un follower della nostra esistenza. È l’inverso speculare di ciò che la società dello spettacolo chiama «fan»: consente di osservarsi all’interno del continuo spaesamento tra destra del mio corpo e sinistra dello specchio che rimanda la mia immagine. L’amico, in soldoni, non è solo chi mi sostiene, ma chi mi critica, mette alle corde, mi fa nero. Seguiamo, dunque, una strada alternativa: alla lettera, la philosophia non è l’amante ma l’héteros autós della sophia.

Sarebbe meschino ridurre quest’ultima parola («sophia») al generico e astratto atto conoscitivo. L’amore per la conoscenza ha un che di erotico e sublime: ricerca dei libri colti, gusto per le parole difficili, passione per le questioni inutili. Basta sfogliare un buon dizionario per svelare un secondo slittamento semantico, scivoloso quanto il primo. «Sophia» non significa solo «conoscenza» ma «abilità nell’artigianato e nella tecnica, come nella falegnameria»; in seconda battuta, indica «abilità nelle questioni della vita comune. Capacità di giudizio (sound judgement), intelligenza, saggezza pratica» (Liddell, Scott, Jones, 1843, p. 1621). Come dalla coppia philia-eros, anche da questo termine emerge la tensione verso il mistero (Vernant, 1962, p. 61):


«Ai riti d’iniziazione tradizionali che vietavano l’accesso a rivelazioni interdette, la sophia, la philosophia sostituisce altre prove: regole di vita, un cammino ascetico, una via di ricerca che, accanto alle tecniche di discussione, di argomentazione, o ai nuovi strumenti mentali come le matematiche, mantengono antiche pratiche divinatorie, esercizi spirituali di concentrazione, di estasi, di separazione dell’anima e del corpo».

L’espressione chiave è «regole di vita». La linea platonica insiste sull’idea di una comunità che condivida una struttura simbiotica. Un’altra, anti-platonica, insiste sulla nozione di regola intesa come unità di misura, modo con il quale focalizzare il mondo pubblico. Scrive il filologo: le occorrenze più antiche del termine (Omero, Esiodo) «sembrano indicare al contrario che sophie designa un lavoro sottomesso a misure e regole, il cui uso è riservato a quel demiurgo che è il carpentiere, il conduttore di carri o navi e in particolare a quel conduttore del canto che è il citarista» (Bollach, 1968, p. 16). Tra techne e sophia esiste una relazione antinomica. La relazione consiste in una comune attività di trasformazione del mondo. Mentre la techne condivide a lungo con la magia [2] il potere di una trasformazione esoterica legata ad «attività inquietanti e quasi clandestine» di condivisione delle arti, la sophia rinvia a «un ordine esprimibile del sapere» (ibidem).

La filosofia è amicizia per la sophia. Se accettiamo una delle più promettenti definizioni dell’amicizia, quella aristotelica, si tratta di una attività che costituisce l’altro sé della sophia. La sophia non è conoscenza astratta o magica quanto capacità manuale e intelligenza pratica. L’espressione greca pare riferirsi a una facoltà quanto mai generica. Gli esempi spaziano dal falegname al musicista, dal navigante a chi conduce cavalli sulla terra ferma. Potremmo intendere la sophia, dunque, non come riferimento a una facoltà specifica, ma come l’incarnazione esemplare di ciò in cui consiste una facoltà. La filosofia è amicizia per la facoltà esemplare. La filosofia è amicizia verso la moltitudine delle facoltà. È intelligenza pratica allo specchio: nasce dalla vertigine di chi non si raccapezza tra destra e sinistra.


3. Platone o il sofista?

Erodoto (Storie, I, 30, 2) impiega la prima delle occorrenze attestate del greco «philosopheo»:


«Ospite-straniero ateniese (xeine Athenaie), fino a noi è giunta la tua fama, che è grande sia per la tua sophia (sophies) che per i tuoi viaggi, dato che, come chi ama imparare (os philosophéon), hai visitato molti viaggi per il piacere di vederli (theories)».


Con buona pace di Salvini, l’attività della filosofia ha a che fare con stranieri capaci di navigare. Questa attività chiama in causa chi «ama imparare», recita la traduzione di A.D. Godley (1920). Il classicista inglese, purtroppo, si rifà ancora all’equazione tradizionale tra philia e amore. Emendata dalla concessione al canone, la traduzione ha il coraggio di mettere l’apprendimento al centro della faccenda. La philosophia è amica dell’apprendimento poiché ne costituisce l’altro sé, vale a dire l’inversione speculare. Quando apprendo per via pratica, ad esempio devo orientarmi in mare aperto, l’errore è lo scarto da evitare; nella filosofia l’errore è la pratica sulla quale intrattenersi. Non è questo il segreto di chi desidera apprendere? Il fatto di non morire dell’errore, di non sbarazzarsi sovrappensiero dell’incidente?

Quando l’esperto di Platone si lancia in proclami circa la philia, non è strano che rischi il testa coda. Scrive Havelock (1963, p. 281): «phil- indica un’urgenza psichica, un impulso, una sete, un desiderio che tutto consuma. Il “philosofo” è dunque un uomo di speciale istinto ed energia». È il contrario. Il rapporto indissolubile che lega filosofia e facoltà nasce dall’interesse verso il fallimento e la battuta a vuoto. Potremmo dire: se per l’istinto il passaggio a vuoto è sconfitta, l’atto mancato e la maladestrezza sono il centro di gravità permanente per le facoltà. L’istinto è il ciak istantaneo del «buona la prima»; la facoltà è un film di Woody Allen, Provaci ancora Sam.

La definizione desiderante dell’amico non vale per la filosofia ma solo per l’idea che ne hanno Platone e i suoi seguaci. La Repubblica sfodera un’ampia congerie di composti al fine di mostrare una precisa somiglianza. Per capire la definizione della «filosofia e […] potere nella città» (ivi, 474c 1-2), si succede l’analisi dei «philoinous» (l’amico del vino: ivi, 475a 5), dei «philotimous» (amici degli onori: ivi, 475a 9), dei «philotheámones» (amici degli spettacoli: 475d 2), dei «philékooi» (delle audizioni: ivi, 475d 3). A queste figure aberranti si contrappone un’altra schiera di composti. Il filosofo somiglia al «philósiton» (l’amico del cibo: ivi, 475c 4), al «philomathé» (amico dell’apprendere: ivi, 475c 2) e, soprattutto, ai «tes alétheias philotheámonas» (i desiderosi di contemplare la verità: ivi, 475e 4).

«Il filosofo […] è avido di sapienza» riassume Platone (ivi, 475b 9). La parola impiegata («epithumetés») indica che alla base della filosofia vi sarebbe un desiderio il cui fine contemplativo sarebbe soddisfatto dal congiungimento tra posizione dello spettatore e oggetto della verità. La filosofia prende a esempio il maschio umano preda dell’eros («andrí erotikó»: 474d 4), per poi trasferire il suo desiderio verso la verità. I filosofi sono pronti ad «accogliere con gioia» («aspázesthai»: 479e 10) la conoscenza, l’«amano sempre» («aei erosiv»: 485b 1): la philia parte e si conclude con l’amore. Ecco le origini della leggenda metropolitana che riduce l’amico della filosofia a suo amante.

A tal proposito, lo studioso che Foucault chiama al Collège de France, il cielo lo perdoni, afferma risoluto (Hadot, 1995, p. 17):


«In generale, da Omero in poi, le parole composte con il suffisso philo servivano a descrivere l’atteggiamento di chi faccia coincidere il proprio interesse, il proprio piacere, la propria ragione di vita con una determinata attività: philo-posia, ad esempio, sta ad indicare l’interesse o il piacere del bere, philo-timia, è la propensione ad acquisire onori; philo-sophia sarà, dunque, l’interesse che si sviluppa per la sophia».


Il ragionamento pare tendenzioso. Se il prefisso avesse questo significato, dovremmo concludere che l’«amico del concime» («philókopros»: Rocci, 1943, p. 1961) indicasse una vita tutta orientata allo sterco animale o che «l’amico dell’uva» («philóbotrus»: ivi, p. 1960) si riferisse a chi passava l’esistenza a mangiare il frutto della vite. Poco plausibile. La philiaè relata all’avere proprio perché indica, invece, la distanza sempre possibile tra elementi non consustanziali (Virno, 2020). Per questo i composti del termine possono riferirsi alle forme minacciose della dipendenza. «Philoinos», ricorda Havelock (1963, p. 307 n. 10), in Platone indica «colui che dipende (the addict)» dal vino. Solo le Idee sono in grado di smarcare il filosofo dall’alcoolismo e dai suoi dolori. Sul piano del piacere per gli spettacoli, solo loro sono in grado di garantire una partecipazione contemplativa. Per questo, coerentemente, sul piano politico legittimano l’idea che a comandare debba essere il filosofo.

Se si desidera distinguere la filosofia da tossicodipendenza e tirannide, occorre una diversa idea dell’amicizia e della sapienza. La figura del sofista [3] aiuta, quantomeno per contrasto. È il nemico di Platone, solo per questo non andrebbe trattato troppo male. Nel contempo, però, anch’egli non è un filosofo perché assorbito, come indica il nome, dalla sophia. Se il platonico divarica la filosofia dal suo oggetto per farne culla di una relazione erotico-contemplativa, il sofista annulla ogni distanza. In positivo, propone un’attività che si rifiuta di «ripiegarsi in una sapienza puramente privata» (Vernant, 1962, p. 61) per «integrarsi del tutto nella vita pubblica» (ibidem). In negativo, manca della discrasia incarnata dal paradosso della mano sinistra. Il sofista non inquieta perché prezzolato (si tratta di un’accusa frutto dell’amore per il lavoro gratuito tipico del capitalismo contemporaneo) ma perché è tanto vicino al proprio oggetto da confondersi con esso: il sofista è sophia senza più eros, ma ancora priva di philia.


5. Mano destra, mano sinistra

L’amicizia per la sophia non consiste solo in un rovesciamento che disorienta. In diversi autori del Novecento, il cosiddetto «paradosso della mano destra e della mano sinistra» ha costituito il sintomo della profondità inquietante dell’esistenza umana. Che si tratti del noumeno kantiano (Scaravelli, 1968) o dei gorghi propri dell’inconscio e della logica del transinfinito (Matte Blanco, 1975) per ora non importa. Dall’incommensurabilità tra la mano destra e la mano sinistra, dall’impossibilità di sovrapporre perfettamente i due arti in uno spazio a tre dimensioni, sorge la possibilità della prassi filosofica. Quando Wittgenstein la fa facile rispondendo che «mano destra e sinistra sono perfettamente congruenti» perché «si potrebbe calzare il guanto destro alla mano sinistra, se lo si potesse rivoltare in uno spazio a quattro dimensioni» (T, 6.36111). Aderisce ancora a una concezione della filosofia che dovrebbe limitarsi «al rischiaramento logico dei pensieri» (ivi, 4.112). Quando il Tractatus conclude che la filosofia «è non una dottrina, ma un’attività» (ibidem), la paura per il dogma si fonde con la diffidenza per il possibile. Se si sottolinea che qualcosa «può esser mostrato», lo si fa per aggiungere che però «non può esser detto» (ivi, 4.1212. Corsivo nel testo). Richiamare l’idea di uno spazio a quattro dimensioni equivale a risolvere la faccenda facendo calare sul palco un deus ex machina. Il carattere tipicamente umano della manualità incongruente, invece, risiede proprio in un’ambivalenza cronica. La filosofia è un’attività facoltativa, cioè un’attività che richiede sempre l’orizzonte del possibile. Per un verso, rende possibile attività manipolative, strumentali, espressive sconosciute al regno animale grazie a pollici non solo opponibili ma incommensurabili. Impossibile è la loro coincidenza sul medesimo piano, per questo sono in grado di produrre nuovi piani. Per un altro, le mani danno forma a una struttura organica in grado di disorientare. L’alienazione del lavoro salariato porta mano e cervello a una scissione che arriva «fino all’antagonismo e all’ostilità» [4] (Marx, 1867, I, 5, 14, p. 555) perché radicata in un fatto storico-naturale. Già al proprio interno, organizzazione manuale e neuronale esibiscono dissonanze, conflitti, rapporti speculari: antagonismo e ostilità. Scrive il neurofisiologo (Berthoz, 2003, p. 151): «A mio parere, l’allucinazione del doppio è talmente frequente da corrispondere a una funzione fondamentale del cervello». L’asimmetria tra una parte del corpo e l’altra è «esclusivamente e universalmente umana» (Corballis, Beale, 1983, p. 104) giacché l’asimmetria consente «il controllo delle azioni» (ivi, p. 173).

A tal proposito, l’espressione «amicizia per le facoltà» può generare un equivoco che è opportuno dissipare. Coincide con l’idea che il «discorso filosofico […] si riferisce alla natura stessa del linguaggio, alla sua debolezza» (Agamben, 2016, p. 129). Concorda con chi ribadisce che «il discorso filosofico non è un discorso mistico che, contro il linguaggio, prenda partito per l’ineffabile» (ibidem). Prende le distanze dalla conclusione secondo la quale pure la filosofia «non può, alla fine, che mostrare la sua insufficienza che coincide, del resto, con la sua natura preliminare e, quindi, per forza di cose inconcludente» (ivi, p. 130). Il carattere potenziale della facoltà è lontano mille miglia dall’inconcludenza. Proprio perché animale delle facoltà, l’umano è in grado di concludere fin troppo: conclude un affare, una relazione sentimentale, pone fine alla vita sul pianeta. Un conto è una filosofia amica delle facoltà, altro è la filosofia che trova realizzazione solo nel «momento poetico del pensiero» o nel «gesto di chi, in ultimo, depone la lira e contempla» (ivi, p. 131). La facoltà è la potenza che vive della relazione con atti pubblici. La facoltà pura è solo la facoltà che non riesce mai a fare la propria parte. Si badi: le pure facoltà esistono, si danno per davvero, ma è meglio non farsi illusioni. Per averne immagine vivida ma onesta, basta scorrere il documentario di Werner Herzog fino all’ultima scena e constatare, nel film Nel paese del silenzio e dell’oscurità (1971), quale sia la vita di un ragazzo sordocieco che mai è entrato nella sfera pubblica. Facoltà pura è il balbettio continuo di chi ha le spalle al muro, giacché le gambe non reggono. La facoltà pura chiama in causa il lavoratore del XXI secolo. Quando è sotto torchio, egli è tutto in atto senza residui. Per consegnare un paio di pizze deve esser in grado di orientarsi a occhi chiusi, pedalare a perdifiato, spiccicare almeno qualche parola di giapponese. Quando attende di esser spremuto incarna una potenzialità di dire, fare, stravolgere che non dice, non fa, non stravolge un bel niente. Se negli anni Novanta, opportunismo e cinismo emergono come passioni del nuovo che avanza [5], oggi l’impotenza si erge a monumento di un’epoca nella speranza che qualcuno le sopravviva [6].


6. Piccole schiave crescono

Tra i contemporanei, Deleuze e Guattari fanno parte dello sparuto gruppo di autori che prende sul serio il nesso tra filosofia e amicizia. «Il filosofo è l’amico del concetto, è in potenza di concetto» scrivono (Deleuze, Guattari, 1991, p. xi). Per questo la filosofia «non è contemplazione, né riflessione, né comunicazione» (ivi, p. xii). In che senso allora si dà relazione tra i due termini? Qui, purtroppo, arrivano i guai. «Se la filosofia […] ha un’origine greca, è perché la città, a differenza degli imperi e degli Stati, inventa l’agone come regola di una società di "amici", la comunità degli uomini liberi in quanto rivali (cittadini)» (ivi, p. xv). Meglio non bearsi troppo del fatto che finalmente nella città greca ci fosse spazio per rapporti di reciprocità, perché queste relazioni potevano darsi solo tra esseri umani proprietari di uno status sociale. Ancora una volta, la trappola s’annida tra i cespugli, vale a dire tra le nostre parole. Amico è solo colui che può stringere patti, la xenia con lo straniero ospite. Benveniste (1969, p. 263) insiste: anche la cosiddetta «philotes» (il patto che fa dei contraenti dei philoi) appare come «una amicizia di tipo ben definito, che impegna e comporta degli obblighi reciproci, con giuramenti e sacrifici». La piazza pubblica della quale si parla è la stessa che fa fuori quella che potremmo chiamare la piccola schiava barbarica, condensazione metonimica di infanzia, sfruttamento, differenza di genere, estraneità radicale circa l’appartenenza al gruppo. L’amicizia tra cittadini fa parte della polis nella misura in cui allude a una nozione meritocratica. Può esser amico solo chi ne è all’altezza. L’amicizia dei cittadini-rivali è inscindibile dall’idea aristocratica che l’amicizia si dia solo tra i migliori. Tra i buoni, dunque tra pochi.

Si profila una relazione a incastro. Alcuni insistono sulla somiglianza tra filosofia e le «cose contemplate […] come quando contempliamo l’amata mentre dorme» (Agamben, 2016, p. 56) previo appello però, all’inizio del testo, a una lettura «in spirito di amicizia» (ivi, p. 7). L’amore contemplativo emette un assegno postdatato: l’amico può entrare in scena per secondo, ma solo perché è lui a garantire sin da subito i mezzi di sussistenza che consentono di costruire il palco filosofico. Si mette da parte l’amicizia, per infilarla nella manica: pronta al ruolo dell’asso, torna come mezzo estremo di comprensione di ciò che si scrive. D’altro canto, la centralità per la filosofia di un’amicizia intesa come «rivalità degli uomini liberi» (Deleuze, Guattari, 1991, p. x) è costretta a far rientrare l’eros dalla finestra. Nel volgere di qualche pagina, il libro Che cos’è la filosofia? ricomincia a trattare «amici», «rivali» e «amanti» come sinonimi: «l’amico o l’amante in quanto pretendente non è senza rivali» (ivi, p. xv); è «un amico che non ha più relazioni con il suo amico se non attraverso una cosa amata fonte di rivalità» (ivi, p. 61).


7. L’amicizia che perturba

Un perturbante spaziale è in agguato: cambio mano e non riesco a tagliare la carne; scelgo l’altro piede e la palla va dove vuole lei quasi l’arto non facesse parte del mio corpo. I primi oggetti a esibire i tratti di quel che Freud chiama «unheimlich» (perturbante) sono le membra che m’appartengono. Sono familiari e improvvisamente estranee quando, senza preavviso, mi abbandonano nell’inciampo, nella goffaggine di un atto mancato. È noto che circa il perturbante Freud scopra un pozzo di petrolio per poi usarlo come ricarica dell’accendisigari. Se si lascia stare il ritorno del rimosso, movimento psichico quanto meno generico, una delle figure distintive del perturbante è il sosia (Freud, 1919, p. 96):


Il fatto che esista una istanza del genere, che può trattare l’Io come un oggetto, il fatto che l’uomo sia capace di autosservazione, consente di conferire un nuovo contenuto alla vecchia rappresentazione del sosia.


Freud si riferisce alla «coscienza morale» (ibid.), per poi aggiungere (ivi, p. 97):


il carattere perturbante del sosia può trarre origine soltanto dal fatto che il sosia stesso è una formazione appartenente a tempi psichici e oramai superati, nei quali tale formazione aveva comunque un significato più amichevole (einen freundlicheren Sinne).


Solo se presa alla lettera, la frase cessa di essere l’espressione di un antropologo vittoriano che anche a Vienna, come vuole la civiltà, esige il tè alle cinque. È vero, in tempi antichi il sosia aveva un volto più amichevole. Ma ciò non riguarda le credenze circa «dei» e «demoni», come vuol intendere Freud. Non pare, ad esempio, che il ritorno dei morti sulla Terra al centro dei riti più diversi abbia mai tranquillizzato nessuno. Si tratta, invece, di fare i conti con la nostra antichità e non con quella di esotici uomini delle caverne (come recita il proverbio, la caverna dell’altro è sempre più primitiva). L’antichità di cui parlare è l’Atene del V secolo. Lei sì che può vantare un rapporto più amichevole col sosia perché corrisponde al tempo in cui nasce la filosofia. Se l’amico è l’altro sé, come sostiene Aristotele, quale miglior sosia del proprio amico? Se sosia e philos sono figure legate a doppio filo, quale miglior sosia della filosofia? Epurata dal richiamo a ciò che Freud chiama «coscienza morale», l’autosservazione interrompe ogni rapporto con la bontà dei migliori che un giorno governeranno lo Stato. Si tratta, piuttosto, di una scissione interna all’Io luogo d’origine dell’amicizia verso le facoltà. Nell’impaccio, sosia è l’amico: l’altro sé che mi canzona quando cado goffamente nella buca o mi conforta nella disperazione del monologo di chi si dice «non potevo essere io quella persona che ha omesso l’acca dal verbo "avere" nello scrivere il tema». Fuori dall’impaccio, vale a dire nell’impaccio visto da fuori, quel sosia diventa filosofia, amicizia verso le facoltà che studia, critica, confligge. È lei a poterci dire che il buco dell’Ozono non è un evento immodificabile; che strano, ma vero, il lavoro salariato è una contingenza storica. Meglio ripeterlo giacché ne va della nostra vita: Freud sbaglia. C’è da augurarsi che mai sarà superato il tempo psichico del sosia. Perché quel giorno sì, la filosofia sarà morta davvero.


8. «La scuola sarà sempre meglio della merda» (Milani, 1967, p. 10)

A cavallo tra il V e il VI libro de La Repubblica (485c 6-8) compare una frase riassuntiva che precede l’equazione tra verità, sapienza e filosofia:


«Non solo, amico (o phile), è naturale, ma assolutamente necessario che chi per natura è portato ad amar (erotikòs) qualcuno abbia caro (agapàn) tutto ciò che è affine e familiare (oikeion) all’amato».


È un bel condensato. L’amico messo al vocativo compare prima come interlocutore poi come oggetto di discussione: è condizione di possibilità di un discorso che cerca di ridurre la philiaalle altre due forme d’amore, eros e agape. Si insiste che l’amore filosofico dovrebbe aver a che fare con ciò che è familiare. L’oikeion è l’opposto di xenos, quel che il dizionario citato da Freud (1919, p. 83) indica essere il corrispettivo in greco antico del tedesco «unheimlich». Platone coglie un punto decisivo, giacché in quelle pagine parla tanto di facoltà e apprendimento. Indica la strada, per poi però andare da un’altra parte, la sua.

Le facoltà vengono indicate come «un genere di realtà» che ha la caratteristica paradossale di consistere nella possibilità poiché con essi «siam capaci di ciò di cui siam capaci» (Platone, Rep., 477c 1-2). L’accenno alle facoltà nel bel mezzo della trattazione riserva loro la posizione del salame nel panino. Rischiano lo stritolamento. Non a caso, il testo insiste sulla loro presunta specializzazione dicotomica («d’una facoltà, invece, guardo solo al fatto di ciò a cui è intesa e dell’effetto che produce»: ivi, 477d 1). L’obiettivo è distinguere tra ignoranza, opinione e conoscenza per poi separare nettamente il filosofo, l’amico della sophia, dal «philodoxus», l’amico dell’opinione (ivi, 480a 6). La filosofia sarebbe, insomma, non amica delle facoltà, ma la facoltà della sophia. È questa la ragione per la quale una volta individuata la facoltà giusta, «il filosofo è avido di sophia» (ivi, 475b 9). Individuato l’opportuno campo di specializzazione, occorre prendere tutto da lì. È chiaro che Platone aveva una idea circa la filosofia discordante dalla nostra. È altrettanto chiaro da dove derivi, però, l’ideologia alla base dell’università contemporanea e della sua crisi.

La filosofia amica delle facoltà insiste, con Platone, sull’affinità con «l’amicizia verso l’apprendimento» («philomathé»: ivi, 475c 2, 485d 3). Completamente opposto, però, ne è il ritratto che occorre darne. Apprendere significa muoversi non verso quel che è familiare e casalingo, bensì verso ciò che non è per natura, non è familiare. Apprendere vuol dire muoversi verso quel che non è affine. Qui il Wittgenstein prossimo alla morte torna utile: l’apprendimento è vicino alla filosofia giacché quest’ultima intende «scendere nell’antico caos e ivi sentirsi a proprio agio» (PD, p. 124). Si tratta solo di specificare, a scanso di equivoci, che si tratta di un agio ben strano: è l’agio del non esserlo, corrisponde all’abitudine di non averne.

Le facoltà son tali proprio perché non specializzate. Qui, più che di Platone, c’è bisogno dell’autore «del testo più violento degli anni della contestazione» (la definizione non è mia, ma di Paolo Virno), vale a dire Lettere a una professoressa di Lorenzo Milani (1967, p. 17):


È comodo dire a un ragazzo: «Per questa materia non ci sei tagliato». Il ragazzo accetta perché è pigro come il maestro. Ma capisce che il maestro non lo stima Eguale. È diseducativo dire a un altro: «Per questa materia sei tagliato». Se ha passione per una materia bisogna proibirgli di studiarla. Dargli di limitato o squilibrato. C’è tanto tempo dopo per chiudersi nelle specializzazioni.


«Filosofia» significa «amicizia per le facoltà». La filosofia non coincide con l’amicizia per una facoltà specifica ma per facoltà generiche alle quali è affidato il compito di fare selezione. Proprio perché priva del vaglio preliminare tipico dell’istinto, l’amicizia per le facoltà richiede scelte. Scrive ancora Milani (1967, p. 26):


I filosofi studiati sui manuale diventan tutti odiosi. Sono troppi e hanno detto troppe cose. Il nostro professore non s’è mai schierato. Non s’è capito se gli vanno bene tutti o se non gliene importa di nessuno. Io tra un professore indifferente e un maniaco preferisco il maniaco. Uno che abbia o un pensiero suo o un filosofo che gli va bene. Parli solo di quello, dica male degli altri, ce lo legga sull’originale per tre anni di seguito. Sortiremo di scuola convinti che la filosofia può riempire una vita.


Solo se amica delle facoltà e delle loro sfide conflittuali [7], la filosofia può riempire la vita. Solo se parziale nei contenuti, la filosofia ha qualche chance di mantenere la sua promessa e liberarci dalla morsa del coccodrillo cieco.


Note

[1] Adriano Bertollini, L’altro sé. Filosofia dell’amicizia.

[2] Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva.

[3] Mauro Serra, Linguaggio e violenza: una storia retorica.

[4] A. Sohn-Retel, Lavoro intellettuale e lavoro manuale. Per la teoria della sintesi sociale.

[5] AAVV, Sentimenti dell’aldiqua. Opportunismo, paura, cinismo nell’epoca del disincanto. [6] AAVV, Risentimenti dell’aldiqua. Impotenza, stress e distrazione nell’epoca ipermoderna.

[7] Marco Mazzeo, Il pirata. Per un’antropologia del conflitto.


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