Maurizio Cannavacciuolo, Senza titolo - Palazzo Martinengo, 2002
Gherardo Bortolotti è nato nel 1972, a Brescia, dove vive e lavora. I suoi lavori esplorano aree di confine tra prosa e poesia, in un percorso che va da Francis Ponge a Italo Calvino. Influenzato dalla produzione on line e dalle forme dei mass media, mette alla prova le scritture brevi e brevissime e le applica ai temi dell’infraordinario, dell’entropia, dell’economia globalizzata, dell’usura del quotidiano. Libri: Tecniche di basso livello (Lavieri, 2009); Senza paragone(Transeuropa, 2013); Quando arrivarono gli alieni (Benway Series, 2016); Le storie del pavimento (Tic, 2018); Low. Una trilogia (Tic, 2020). Antologie: Prosa in prosa (Le Lettere, 2009); Poeti degli anni Zero (Ponte Sisto, 2011); La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014) (L’Orma, 2014); Saggi: Oltre il pubblico: la letteratura e il passaggio alla rete (Nuova prosa,
2014).
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60. Quello che il concetto di amore e soprattutto di primo amore compone è pur sempre una riserva circoscritta di aneddoti romantici parzialmente inventati, ricordi imprecisi, rievocazioni ambigue di frasi, sguardi e profumi che lo scorcio di un parcheggio o l’attacco di Be My Wife innescano. Ciò non toglie che i momenti del sentimento sono irreversibili e quando, seduti sulla panchina, Bauci mi prese la mano e me la baciò sul dorso chiaramente il mondo subì una frattura, spaccandosi come una vetrata irraggiata di sole e riflessi, mentre mi sentivo, per l’istante, trasfigurato nell’immagine di me stesso amante, voluto e ricambiato. Evidentemente dovrei ricordare anche i frangenti in cui la delusi, la mia vergogna, il timore di toglierle la verginità o l’incapacità di guardarla negli occhi la volta che mi disse «È finita». Ma non ha senso misurare le vicende per quello che valgono perché, come so, non valgono niente. Meglio attraversarle, come i musicanti di Brema, come un gruppo scompagnato in vista di una meta assurda perché, comunque, qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto.
61. Comunque ricevo un messaggio da Eufemia e i soliti congegni del delirio mi compromettono in fantasie di baci successivi a riunioni autunnali, mentre nella sera l’accompagno discutendo gli elementi secondari dei punti all’ordine del giorno. Molto composta, precisa e sorridente rimarrebbe incerta nel momento in cui la prendessi per il braccio e la fissassi negli occhi, capendo lentamente le mie intenzioni in merito all’amore e alla nostra occorrente vicinanza. E me la immagino che prima si emoziona abbassando gli occhi per poi rialzare uno sguardo più cupo, dove maturano intenzioni analoghe ma non per questo davvero comprensibili. Il messaggio però è squisitamente professionale e rispondo «Ok, grazie mille» mentre considero che, capitasse davvero un episodio simile, e l’attirassi una buona volta per baciarla e scoprire la morbidezza del suo abbraccio, non sarebbe tanto il piacere del tocco tra le lingue a darmi i brividi ma proprio l’identità con la vicenda immaginata e l’assurdo controllo in cui, per questo motivo, mi sentirei in quel frangente.
62. E insomma anche l’immagine dei miei che ballano in vacanza una qualche versione da balera del lindy hop, con l’orchestrina che suona in piazza Tutti Frutti e mio padre spaccone che si mette in mostra come Little Richard, facendo piroettare mia madre tutta seria con la mano alzata, è difficile ridurla all’occasione, al singolo episodio, ai fantasmi di una vita più o meno passata. Se in mezzo ai turisti che saltellano improvvisati e il via vai tra i tavoli del bar registro, da bambino, le coreografie dei miei genitori è perché mi dicono qualcosa sull’amore e sull’essere in vita, condizioni spesso coincidenti anche se in parte inconciliabili. Mi ricordano la solitudine dei sentimenti e l’incerto cammino che mi aspetta nelle intenzioni altrui, nelle architetture sghembe dei desideri che si intrecciano tra chi mi è vicino e, in alcuni casi, interessano la mia persona e le leggende di cui è protagonista nel cuore degli altri. Mi lasciano lo schema di una forma definitiva e scorretta a cui tentare, per il resto dei miei anni, di riportare la vita.
63. Come quando mi rendo conto di essermi inoltrato troppo nell’inganno che è l’amore, in questo pomeriggio anonimo del tardo dopo Cristo, ingombro di anni vissuti, piatti sporchi e desideri mal formulati, e penso ad Armilla, alla sua risata, alla vita che conduce lontana da me e dalla mia esistenza. Nonostante i mesi passati dall’ultimo incontro, mi ostino a immaginare come sarebbe sovrastarla mentre la scopo fissandola negli occhi, ansimando, sentendo la smania in bocca e proliferando in me una fantasmagoria incongrua di mezze frasi, immagini di cosce, toni di voce, voglia di baciarle il palmo di una mano, di afferrarle i capelli da dietro, tenerla per il collo, rimetterle la lingua in bocca. Ma il vero abisso che mi aspetta è immaginare quello che dovrebbe pensare lei, se condividesse la brama che mi padroneggia, nel vedermi da sotto, curvo come un lupo, mentre espone alla mia vista i segreti dei suoi seni e dell’inguine e si sente splendida e desiderata in modo inappagabile come la terribile regina che vorrei davvero che fosse.
64. Non credo che tocchi a me esprimere un giudizio su quello che mi capita, sul male che commetto e sugli eventuali dolori che mi sono causati. Tanto più quando si tratta di Irene e dei suoi occhi così dolci e desolatamente tristi, come la curva delle spalle e la paura che a volte le attraversa il volto, dono di un senso di fallimento assiduo e inappellabile. Nonostante il rancore, meglio dare atto agli episodi, alle frasi, alle piccole coincidenze di intenzioni e sentimenti che sono riuscite a fare felici due persone quando sono state felici insieme. Per motivi diversi, probabilmente equivoci, ma pur sempre in quell’istante indelebile dal disordinato sprecarsi di momenti e occasioni che compone il destino colpevole di chi è in vita. Mi domando allora che cosa sia davvero quello che chiamano l’amore umano, agli occhi di Dio o degli esseri superiori della Nebulosa di Orione, e mi immagino un segmento d’ordine corto ma inalterabile, disegnato attraverso il pulviscolo disperato del curioso esperimento che è la realtà. E non sorrido.
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