La personalizzazione patologica del potere e l'ascesa dell’estrema destra

Continua la rassegna di Alberto Toscano sulle ragioni dell'ascesa dell'estrema destra e sulla natura dei governi che si stanno ormai diffusamente imponendo.
Nell'articolo odierno, l'autore interpreta il ritorno del «cesarismo» — termine utilizzato da Gramsci e da Spengler per descrivere l’emergere dell’autoritarismo nelle democrazie di massa avanzate dal punto di vista tecnologico — come sintomo di una conclamata crisi degli Stati moderni, a cui si risponde accentrando nelle mani dell'esecutivo quanto più potere possibile. Questa logica è stata assorbita e amplificata dall’estrema destra contemporanea, che agisce cercando di smantellare lo Stato amministrativo e «liberare l’individuo». Allo stesso tempo, si fa spazio un altro modello di potere individuale smisurato: quello di Elon Musk e dei super miliardari.
Stiamo dunque vivendo una nuova epoca dei mostri?
Qui gli altri articoli di Alberto Toscano: Trump, o della bancarotta globale del progressismo neoliberale e Profitti dalla paura.
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Il giorno di Capodanno, a poche ore da un tragico attentato a New Orleans in cui un uomo ha investito una folla su Bourbon Street, uccidendo 15 persone e ferendone molte altre, un’altra immagine ha iniziato a circolare, suscitando sconcerto: un Tesla Cybertruck in fiamme, parcheggiato davanti all’ingresso dell’hotel Trump di Las Vegas.
Inizialmente, l’esplosione è stata interpretata come un attacco al movimento MAGA: un veicolo prodotto dal miliardario di destra Elon Musk fatto saltare in aria davanti all’hotel che porta il nome del Presidente eletto. Tuttavia, più che un attentato contro Trump e il suo principale finanziatore, l’atto — realizzato dall’ex Berretto Verde Matthew Livelsberger con l’aiuto di ChatGPT — si è rivelato un omaggio, un’offerta votiva del XXI secolo, all’idea dell’uomo sovrano.
Nel suo delirante «manifesto», inviato via e-mail a un ex ufficiale dell’intelligence militare, Livelsberger ha scritto: «Considerate questo come l’ultimo tramonto del ‘24 e le mie azioni come la fine della nostra malattia e l’inizio di un nuovo capitolo di salute per il nostro popolo. Radunatevi attorno a Trump, Musk, Kennedy e cavalcate quest’onda verso l’egemonia più alta per tutti gli americani! Non siamo secondi a nessuno».
Livelsberger interpretava il suo stesso gesto come punto di partenza di una purga contro i democratici «anti-americani» e la rinascita della virilità statunitense: un’illusione di uomini forti che purificano lo Stato e, nel farlo, liberano uomini come lui. Questa visione, per quanto estrema, non è più così insolita. Nella cultura della destra radicale assistiamo a una rabbiosa riaffermazione della mascolinità, un elemento che collega sfera domestica e dimensione nazionale.
Ma non si tratta solo di nostalgia reazionaria. Queste fantasie patriarcali riflettono trasformazioni politiche ed economiche concrete, che ogni opposizione progressista all’autoritarismo deve affrontare. La prima è la progressiva erosione del controllo pubblico sul capitale e sui mercati. La seconda è l’espansione incontrollata dello Stato di sicurezza nazionale, in cui il potere esecutivo governa per decreto, aggira il parlamento e sospende ripetutamente le libertà civili.
In questo contesto, il dominio della finanza e quello della forza assumono quasi sempre le sembianze di una mascolinità aggressiva e narcisistica: uomini potenti che rivendicano una capacità unica di risollevare la nazione da una crisi — quella dell’American Carnage evocata da Trump— che viene presentata come una minaccia simultanea alla cultura, all’economia, allo Stato e persino al genere.
Abbiamo il linguaggio per nominare e analizzare questa forma di potere, che non riconosce più confini tra economia e politica? Rischiamo di farci distrarre dalle provocazioni e dalla ricchezza ostentata, perdendo di vista le realtà sociali che hanno permesso l’ascesa di questi autocrati del capitalismo? Al di là dell’indignazione e della derisione, quale risposta è possibile a questi nuovi sovrani del XXI secolo? E come possiamo misurare gli effetti sociali e geopolitici di un potere che non si origina più nei meccanismi impersonali del mercato o nella burocrazia statale, ma nelle decisioni arbitrarie di pochissimi uomini?
Il ritorno del Re
Alla vigilia dell'insediamento di Trump, e a più di quindici mesi dall’inizio del genocidio israeliano a Gaza, sostenuto dagli Stati Uniti, è stata annunciata una tregua. Pensata chiaramente come un’operazione di marketing per rafforzare l’immagine di Trump come «grande negoziatore», l’accordo sarebbe stato orchestrato dal nuovo inviato per il Medio Oriente del 47º presidente, il magnate immobiliare Steven Witkoff, il quale avrebbe imposto la sua volontà con metodi che sembrano tratti da I Soprano: ignorando le obiezioni dell’ufficio di Netanyahu, che non tiene incontri di sabato, e minacciando il primo ministro israeliano con un «Non mandare tutto a puttane».
Sebbene i dettagli della tregua restino incerti— l’annuncio è stato accompagnato da nuovi attacchi ai civili palestinesi e molti temono che sia solo il preludio all’annessione di parte della Cisgiordania— Trump ha comunque ottenuto un successo propagandistico, rafforzando, ancora prima di tornare ufficialmente in carica, la sua immagine di leader capace di agire.
Appena insediato, Trump si è affrettato a consolidare questa narrazione con una serie di ordini esecutivi: la dichiarazione di una fittizia «emergenza energetica», l’abolizione del riconoscimento governativo delle persone trans, il ritiro dagli accordi con l’Organizzazione Mondiale della Sanità e la concessione della grazia a oltre 1.500 persone coinvolte nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio.
Se nel suo primo mandato Trump aveva incontrato ostacoli nella piena realizzazione del suo programma— dovuti alla caotica gestione della Casa Bianca, ai conflitti interni e alla mancata conquista definitiva del Partito Repubblicano — questa volta la destra si è organizzata per non ripetere gli stessi errori. La Heritage Foundation, il più influente think tank conservatore, ha stilato una dettagliata agenda per il secondo mandato, il cosiddetto «Project 2025», in cui vengono delineate le trasformazioni istituzionali necessarie per accentrare il potere nelle mani del presidente e indebolire la macchina burocratica.
In particolare, Russell Vought — ideologo dell’estrema destra e nazionalista cristiano, nuovamente scelto per guidare l’Office of Management and Budget (OMB) — ha invocato l’uso aggressivo dell’autorità esecutiva per «restituire il potere al popolo americano», dichiarando la necessità di piegare o addirittura spezzare la burocrazia per conformarla alla volontà presidenziale. Una concezione che Trump stesso ha espresso in modo più sintetico e brutale, quando nel 2019 ha dichiarato a «Turning Point USA»: «Ho un Articolo II che mi permette di fare quello che voglio».
A suggellare il suo ritorno, Elon Musk ha celebrato l’insediamento di Trump con un laconico messaggio: «Il ritorno del Re».
Grandi uomini che disfano la storia
All’inizio del XX secolo, il termine «cesarismo» si impose sia a sinistra che a destra per descrivere l’emergere dell’autoritarismo nelle democrazie di massa avanzate dal punto di vista tecnologico.
Per il pensatore comunista italiano Antonio Gramsci — che, dalle carceri di Mussolini, analizzava la sconfitta del movimento operaio e l’ascesa del fascismo — i moderni Cesari si presentavano come arbitri provvidenziali al di sopra dei conflitti, tribuni del lavoratore dimenticato ma, al tempo stesso, alleati dei capitalisti insofferenti alle regolamentazioni. Potevano assumere molteplici forme — da presidenti e primi ministri a leader dell’industria — e imporsi in regimi che andavano dalle democrazie parlamentari alle dittature aperte. Il cuore del loro fascino stava nella capacità di farsi agenti di una sorta di immobilismo rivoluzionario, stravolgendo le forme politiche senza intaccare il dominio di classe.
Il conservatore tedesco Oswald Spengler vedeva nel cesarismo una tendenza inevitabile (e auspicabile), scritta nei cicli della storia. Spengler profetizzava che, con l’affievolirsi del dinamismo della civiltà occidentale e con la destabilizzazione dell’autorità politica a opera dei media di massa e della finanza, sarebbero emersi uomini capaci di dominare la società con un potere personale senza precedenti, svincolato da ogni ideologia.
Oggi, osservando la scena politica globale, non solo assistiamo all’ascesa di politiche reazionarie e autoritarie, ma anche a una proliferazione di uomini della provvidenza, un vero e proprio bestiario di Cesari del XXI secolo. Gli ultimi mesi hanno offerto molteplici esempi delle patologie del potere personalizzato, con la sovranità incarnata in individui fallibili, malvagi e, talvolta, persino grotteschi.
In Corea del Sud, il presidente Yoon Suk Yeol è stato sospeso, messo sotto impeachment e infine arrestato dopo aver tentato un breve colpo di Stato, giustificato sostenendo l’esistenza di una «quinta colonna» comunista al servizio della Corea del Nord.
In Israele, Benjamin Netanyahu ha rinviato il confronto con la sua profonda impopolarità — dovuta alle sue manovre antidemocratiche, ai casi di corruzione e, soprattutto, al fallimento della sicurezza il 7 ottobre — guidando una campagna di genocidio e destabilizzazione regionale.
Altrove, i leader autoritari resistono. Con il loro mix di ultracapitalismo, demagogia e repressione, il presidente argentino Javier Milei e il salvadoregno Nayib Bukele sono gli idoli della destra trumpiana. In India, Narendra Modi continua a implementare un autoritarismo neoliberale di stampo etnico, con tratti fascisti, nella «più grande democrazia del mondo», In Russia, Vladimir Putin mantiene il suo regime autocratico attraverso il massacro della guerra in Ucraina, mentre il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha consolidato il suo potere vantandosi del ruolo avuto nella caduta della dittatura siriana, dopo due decenni al vertice della politica turca.
Dal canto suo, nei giorni precedenti all’insediamento, Donald Trump ha evocato la possibilità di annessioni ostili della Groenlandia, del Canale di Panama e persino del Canada — lasciando intendere che non fosse chiaro se si trattasse di acquisti, fusioni o conquiste militari. Da quando ha assunto la presidenza, non ha smesso di perseguire questo espansionismo, come dimostra la sua telefonata di fine gennaio con la premier danese, nella quale ha insistito affinché la Danimarca permettesse agli Stati Uniti di appropriarsi dell’isola artica autonoma.
Come scrisse lo storico radicale Mike Davis nel suo ultimo saggio, riflettendo su quella che definì «l’edizione da incubo della teoria dei Grandi Uomini che fanno la storia»: «Mai così tanto potere economico, mediatico e militare è stato concentrato in così poche mani».
Crisi e autorità
Tutti i leader sopra citati condividono l’ostentazione di una virilità aggressiva, la costruzione di capri espiatori e la pretesa di essere figure provvidenziali destinate a salvare la nazione dalla crisi. Ma se il pianeta è infestato da questa piaga di «uomini forti» (spesso più deboli di quanto vogliano apparire), essi sono anche il prodotto di contesti molto diversi tra loro.
Come dimostrato dal sociologo Cihan Tuğal, sebbene Modi, Erdoğan e l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte condividano un’ideologia nazionalista e reazionaria, le loro alleanze di classe, i loro movimenti politici e le loro visioni economiche riflettono diverse forme di autoritarismo capitalista. Superficialmente simili, i tre leader incarnano però progetti autoritari distinti: «autocrazia egemonica» in Turchia, «autocrazia etnica» in India e «autocrazia oligarchica» nelle Filippine.
La lezione è che, contrariamente alla narrativa di molti liberali, non ci troviamo di fronte a un’autorità generica, né a una semplice riproposizione di leader fascisti da manuale. Piuttosto, ciascuno di questi personaggi costruisce un potere personale modellato sulla propria biografia, sfruttando le crisi per presentarsi come l’unico in grado di risolverle.
Un elemento comune, però, è che la loro ascesa è stata facilitata dall’ampliamento dei poteri esecutivi e dagli abusi del potere presidenziale.
Quando nel 2019 Trump dichiarò che «l’Articolo II gli permetteva di fare ciò che voleva» la sua interpretazione rozza della Costituzione fu di fatto legittimata dalla Corte Suprema con la sentenza Trump v. United States, che sancì l’immunità presidenziale per tutti gli atti ufficiali, incluso il tentativo di sovvertire un’elezione. Ma il concetto di impunità presidenziale ha radici ben più profonde.
Nel suo libro Stato di Eccezione, il filosofo italiano Giorgio Agamben ha sottolineato come il governo statunitense abbia governato per decreti d’emergenza fin dai tempi di Lincoln e Roosevelt. Tuttavia, con George W. Bush si oltrepassò una soglia critica, quando il presidente invocò il suo ruolo di Commander in Chief per spedire i «combattenti illegali» di Guantanamo in un limbo giuridico senza precedenti.
Ma non è stato solo Bush. Barack Obama ha consolidato il potere esecutivo attraverso un vasto programma di assassini mirati con i droni, mentre Joe Biden ha aggirato il Congresso per accelerare l’invio di armi a Israele, giustificando tutto con l’ennesima emergenza.
Tutto questo dimostra che il ripetersi del cesarismo non è il frutto di una pulsione arcaica che ci spinge verso gli «uomini della provvidenza». Come registravano sia Spengler che Gramsci, ha piuttosto a che fare con la relazione tra potere individuale e crisi — non solo politica, economica e militare, ma anche la crisi strutturale delle moderne democrazie capitaliste.
L’espansione del potere esecutivo attraverso uno stato di emergenza permanente è la premessa necessaria per l’ascesa dei nuovi Cesari. Non si tratta di un ritorno al feudalesimo o all’Antica Roma, ma del risultato dell’evoluzione degli Stati moderni, che hanno utilizzato emergenze economiche, sanitarie e belliche per concentrare potere nelle mani dell’esecutivo.
Ora, però, questa logica è stata assorbita e amplificata dall’estrema destra contemporanea, che invoca il potere esecutivo assoluto come strumento per smantellare lo Stato amministrativo e «liberare l’individuo»
Peccato che, in questo scenario, gli unici individui che contano siano più ricchi di intere nazioni messe insieme.
I CEO che vogliono diventare re
Mentre Donald Trump abbraccia l’idea di una presidenza imperiale, il suo primato viene messo in discussione dall’ascesa di un altro modello di potere individuale smisurato: quello di Elon Musk. A metà dicembre, Musk ha costretto il Congresso ad abbandonare un accordo bipartisan sul bilancio, piegandolo ai suoi interessi in Cina attraverso una campagna frenetica di post su X, in cui minacciava ritorsioni contro i repubblicani che non si allineavano alle sue richieste. Alla fine del mese, ha sfruttato la sua influenza per orientare il dibattito interno alla destra americana sulla portata delle espulsioni di immigrati — doveva riguardare solo i braccianti agricoli e gli autisti delle consegne o anche gli ingegneri della Silicon Valley? — marginalizzando così la linea nazional-populista di Steve Bannon e portando persino alcuni critici a ironizzare su un possibile «presidente Musk».
Ma il potere di Musk non si limita alla politica interna statunitense. Dopo aver stretto amicizia con la premier italiana Giorgia Meloni, si è lanciato nella diffusione di allarmi razzisti sulla violenza sessuale nel Regno Unito e ha investito il suo capitale politico e mediatico nel sostegno all’estrema destra tedesca di Alternative für Deutschland (AfD). Recentemente, ha dichiarato a un pubblico dell’AfD che i tedeschi dovrebbero smettere di sentirsi in colpa e riscoprire l’orgoglio nazionale, invece di lasciarsi diluire da un «multiculturalismo che annulla tutto». Questo, insieme al suo discusso «saluto romano» durante un evento pro-Trump, segna un passaggio dal trolling all’abbraccio esplicito di una politica nazionalista bianca.
L’ascesa di Musk—se non ancora a re, almeno a kingmaker — non è un’eccezione, ma si inserisce nelle profezie e nei desideri degli intellettuali dell’estrema destra.
Quando all’inizio del XX secolo, Oswald Spengler teorizzò il cesarismo, suggerì che alcuni nuovi Cesari sarebbero emersi non dalla politica, ma dal mondo del capitale. Il suo esempio principale era l’imperialista e magnate minerario Cecil Rhodes, che consolidò il dominio razzista del capitale estrattivo in Africa meridionale, guadagnandosi al contempo fama globale come filantropo. Non è un caso che Musk, il megadonatore della destra Peter Thiel e il venture capitalist David Sacks abbiano profonde radici in quel mondo plasmato da Rhodes.
Più recentemente, il blogger reazionario Curtis Yarvin ha proposto la sua visione del capitalista come sovrano. In un’intervista del 2021 con Michael Anton, ora direttore della pianificazione politica dell’amministrazione Trump, Yarvin ha parlato della necessità di un «Cesare americano», suggerendo che — nonostante l’inammissibilità costituzionale — Musk potrebbe incarnare perfettamente quel ruolo.
Yarvin, noto per le sue proposte di «licenziare tutti i dipendenti pubblici» e sostituire la democrazia con un’autocrazia, ha recentemente dichiarato al «New York Times» che l’autorità governativa dovrebbe essere affidata a una monarchia neoliberista moderna, gestita da un CEO. Una «monarchia personale», ha aggiunto, che sarebbe già inscritta nel DNA istituzionale degli Stati Uniti sin dai tempi del New Deal, quando FDR affrontò la Grande Depressione gestendo il governo «come una startup».
Un’affermazione audace per un Paese il cui documento fondativo definisce i prìncipi come tiranni, senza contare che rappresenta una completa distorsione dell’uso trasformativo degli ordini esecutivi usati da Roosevelt per regolamentare il rapporto tra capitale e lavoro. La visione di Yarvin non sarebbe altro che una dittatura incontrastata del capitale.
Eppure, questa idea non è più marginale. Il venture capitalist e consigliere di Trump Marc Andreessen ha ripreso il tema della presidenza monarchica, mentre il vicepresidente JD Vance ha citato Yarvin come un’influenza ideologica.
Per ora, mentre gli uomini più ricchi del pianeta stanno prendendo confidenza con il loro ruolo di attori globali, restano ancora dipendenti dal potere esecutivo. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni commentatori, figure come Jeff Bezos, CEO di Amazon (che a ottobre ha bloccato l’endorsement del Washington Post a Kamala Harris), o Mark Zuckerberg, fondatore di Meta (che ha recentemente rimosso le politiche di fact-checking di Facebook e Instagram, allineandosi a una visione di libertà di espressione cara alla destra), non stanno semplicemente «piegando il ginocchio» davanti a MAGA.
Questi signori della tecnologia non sono solo modellatori dell’opinione pubblica e della governance globale, ma anche fornitori dello Stato, con un potere senza precedenti sulle comunicazioni e le infrastrutture digitali essenziali per il commercio, la sicurezza e la guerra. La loro agenda è chiara: in un mondo multipolare in frantumi, tra guerre commerciali e instabilità, il loro monopolio dipende dallo Stato come deregolatore e appaltatore. E la loro avversione per i lavoratori — contrastando la sindacalizzazione e trattando i dipendenti «a bassa produttività» come scarti — è meglio servita da un’agenda politica che sfrutta il malcontento economico per rafforzare le disuguaglianze.
Un’epoca di mostri
Se per Spengler il cesarismo era una tendenza inevitabile nella storia politica, Antonio Gramsci lo diagnosticò come un fenomeno transitorio: il segno di un equilibrio instabile in cui né le forze progressiste né quelle reazionarie riuscivano a prevalere. Era, scriveva, il sintomo di un’interregno precario tra la vecchia borghesia e un possibile futuro socialista — quando «il vecchio mondo muore e il nuovo fatica a nascere» — e che lui definì «il tempo dei mostri».
Ironia della sorte, Vance, paragonando Apple e Google alla coloniale Compagnia delle Indie Orientali nel suo saggio introduttivo al libro del presidente della Heritage Foundation Kevin Roberts— originariamente intitolato Bruciare Washington per salvare l’America —ha individuato esattamente la minaccia che ci troviamo ad affrontare: «un mostruoso ibrido di potere pubblico e privato». Basta dare un’occhiata agli ospiti d’onore all’inaugurazione di Trump — Musk, Zuckerberg, Bezos e i CEO di Apple, Google e TikTok — per sfatare l’idea che la destra sia l’antidoto a questo « potere ibrido». Piuttosto, la destra di oggi sembra costruirne l’apoteosi: un vero e proprio tempo di mostri.
Ma Gramsci sosteneva anche che, sebbene il dominio di questi moderni Cesari potesse durare decenni, il loro miscuglio verboso di conservatorismo e pseudo-rivoluzione — una rivoluzione dello status quo, che cambia tutto affinché nulla cambi davvero — non avrebbe mai potuto risolvere le crisi sociali profonde. Per Gramsci, l’unica soluzione possibile passava attraverso l’emergere di un movimento politico di massa, capace di risolvere le crisi con una trasformazione sociale radicale.
Oggi questa prospettiva rivoluzionaria sembra molto lontana. Ma non per questo dobbiamo accettare i nostri «monarchi personali».
Le tradizioni della sinistra ci insegnano che i despoti e i monarchi vanno rovesciati, ma anche che la monarchia in sé va abolita — specialmente nelle sue forme contemporanee, in cui il governo per decreto è sempre giustificato da crisi reali o immaginarie. Ma sfidare il potere esecutivo è inutile se non si combatte anche il potere dittatoriale e personalizzato del capitale.
Mentre l’estrema destra normalizza entrambe le forme di potere monarchico, la sinistra deve ricordare una verità antica: nessuna giustizia sociale è possibile senza abbattere l’accumulo colossale di ricchezza e potere che rende una farsa l’idea stessa di democrazia.
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Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere.
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