Profitti dalla paura
- Alberto Toscano
- 29 gen
- Tempo di lettura: 8 min
La genealogia del racket razzista trumpiano

I piani di deportazione di massa annunciati da Trump sono un racket razzista che hanno radici profonde nella storia e nel diritto statunitense. È questa la tesi di Alberto Toscano espressa nell'articolo che pubblichiamo oggi. Se l'apparato legale e repressivo che Trump e accoliti brandiscono, è un'eredità bipartisan, la lotta contro la violenza della detenzione e della deportazione non è semplicemente una lotta riformista ma politica, fondata «sull’uguaglianza e sulla dignità incondizionata delle persone prive di documenti».
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«Non hanno ancora visto un cazzo. Aspettano fino al 2025». Queste sono state le parole del recentemente nominato «zar delle frontiere», Tom Homan, alla conferenza del National Conservatism all’inizio del 2024, mentre annunciava che, con Trump di nuovo alla Casa Bianca, avrebbe gestito «la più grande deportazione che questo paese abbia mai visto». Stephen Miller, il principale agitatore anti-migranti di Trump, nonché consigliere per la sicurezza interna e vice-capo di gabinetto, ha esposto la sua visione oscura per «il più spettacolare giro di vite sull'immigrazione» – una campagna di deportazione di massa che utilizzerebbe l’intera gamma di poteri e agenzie federali per sopraffare gli avvocati per i diritti degli immigrati e spezzare la schiena a qualsiasi tentativo di proteggere i lavoratori senza documenti dalla sorveglianza, dall’incarcerazione, dalla punizione e dall’espulsione. Da qui le minacce esplicite a qualsiasi funzionario comunale o statale disposto a concedere «asilo», come Homan ha recentemente chiarito minacciando di perseguire il sindaco di Chicago Brandon Johnson per aver ospitato e nascosto i richiedenti asilo.
La retorica che ha accompagnato la costruzione della politica centrale del movimento MAGA è come una compilation di greatest hits di un secolo e mezzo di leggi anti-migranti di stampo nativista. Gli sproloqui sinofobici contro il fentanyl cinese che varca il confine ci ricordano che la manodopera cinese è stata il primo bersaglio delle leggi sull’immigrazione repressive e razziste, a partire dal Page Act del 1875 (che, di fatto, vietava l’ingresso alle donne cinesi bollate come potenziali prostitute), dal Chinese Exclusion Act del 1882 e dall’Asian Exclusion Act del 1924 – oltre che dal National Origins Act, parte del Johnson-Reed Act che avrebbe plasmato la politica di immigrazione degli Stati Uniti per quasi mezzo secolo. Dopo aver alimentato la sua prima campagna per la presidenza con insulti razzisti contro i messicani e con l’affermazione «birther» secondo cui Obama sarebbe effettivamente un «immigrato illegale», Trump ha invocato come precedente l’infame operazione di deportazione di Eisenhower del 1954, denominata «Operation Wetback». Le menzogne diffuse da lui e da JD Vance sugli haitiani di Springfield, in Ohio, ricordano quanto il razzismo anti-nero e anti-latino sia stato cruciale, fin dal ponte di Mariel nei primi anni Ottanta, per considerare l’immigrazione come una crisi di sicurezza nazionale da affrontare attraverso una detenzione punitiva. La piattaforma del Partito Repubblicano per il 2024, il cui secondo impegno, dopo aver sigillato i confini, è stato quello di «effettuare la più grande deportazione della storia americana», includeva la promessa di «deportare i radicali pro-Hamas e rendere i nostri campus universitari di nuovo sicuri e patriottici». Questo ci ricorda che le politiche anti-migranti sono state a lungo legate al panico politico rivolto ai sovversivi stranieri. Potremmo citare l’intento anticomunista della legge McCarran-Walter del 1952, ma Trump e i suoi compari stanno guardando ancora più indietro, accarezzando l’idea che gli ostacoli legali al rastrellamento e all’espulsione di milioni di lavoratori e di famiglie privi di documenti possano essere evitati invocando l’Alien Enemies Act del 1798, usato, l’ultima volta, per giustificare l'internamento di massa dei giapponesi americani durante la Seconda guerra mondiale.
Se l'ideologia xenofoba del MAGA non ha praticamente innovato i suoi predecessori, distinguendosi solo per la sua assoluta crudezza, i suoi sforzi per trasformare il razzismo nativista in politica manifestano un diverso tipo di continuità fatta di legislazione, di istituzioni e di personale. Gli studiosi della deportazione negli Stati Uniti identificano l’amministrazione Clinton e, in particolare, la criminalizzazione dell’immigrazione incorporata nelle «proposte di legge sulla criminalità dura» del 1996 – l’Illegal Immigration Reform, l’Immigrant Responsibility Act e l’Antiterrorism and Effective Death Penalty Act – come uno spartiacque nella svolta punitiva intrapresa da ciò che lo storico Adam Goodman ha analizzato come la «macchina della deportazione» degli Stati Uniti. Come ha sostenuto Silky Shah, direttore esecutivo di Detention Watch Network e attivista abolizionista, questa svolta punitiva significa che il complesso industriale carcerario e la macchina istituzionale che perseguita e punisce l’immigrazione senza documenti appartengono allo stesso «paesaggio carcerario integrato». Sebbene il presidente Obama, noto prima della presidenza Trump come «deportatore capo», si sia opposto all'idea della separazione familiare, nel 2015 ha anche concesso ad Homan un Presidential Rank Award per il suo lavoro all’ICE. Come osserva Shah, la sua amministrazione «ha ampliato e messo in piedi un potente meccanismo che Trump ha sfruttato, collegando il sistema di detenzione e deportazione in modo più diretto all’applicazione della legge penale in tutto il paese». Sotto la copertura di «riforme» benevole, l’amministrazione Obama ha supervisionato un aumento dell’uso di prigioni private, di procedimenti federali per il reingresso illegale e l’appalto a società di «alternativa alla detenzione», comprese varie forme di sorveglianza e «carcerazione elettronica».
Da parte sua, l’amministrazione Biden ha esteso i contratti lucrativi con le società che gestiscono le strutture private e ospitano (detengono) la maggior parte dei migranti senza documenti. Questo, nonostante i numerosi casi che Jesse Franzblau, analista politico senior del National Immigrant Justice Center, ha descritto al The Guardian come «condizioni disumane e abusi dei diritti che includono negligenza medica, morti evitabili, uso punitivo dell’isolamento, mancanza di un giusto processo e trattamento discriminatorio e razzista». Persino i centri di detenzione la cui chiusura è stata richiesta dall’«ufficio dell'ispettore generale del dipartimento della sicurezza nazionale», come il Torrance County Detention Facility di Estancia, nel Nuovo Messico (gestito da CoreCivic), rimangono aperti. In un contesto in cui, come ha precisato l’ACLU, «a partire dal luglio 2023, il 90,8% delle persone detenute ogni giorno sotto la custodia dell’ICE sono detenute in strutture di proprietà o gestite da società carcerarie private». I gruppi per i diritti umani hanno protestato contro le brutalità che sono risultate dall’affidamento dell’amministrazione Biden all’industria multimiliardaria della detenzione, guidata da aziende come GEO Group (ex Wackenhut) e CoreCivic (ex Corrections Corporation of America) – tra cui morti per negligenza medica, violenze sproporzionate contro i migranti neri e uso di routine della detenzione in isolamento che soddisfa la definizione di tortura delle Nazioni Unite. Nel frattempo, come riportato da The Lever, le società di private equity detengono i contratti della maggior parte delle strutture federali di detenzione per immigrati, «il che significa che gli interessi di Wall Street, non trasparenti, non responsabili e con profitti elevati, sono destinati a guadagnare centinaia di milioni di dollari detenendo e sorvegliando gli immigrati del paese». L’industria carceraria privata, che ha già visto le sue azioni aumentare in seguito alla notizia della vittoria elettorale di Trump, sta cercando di ottenere profitti a cascata con l’amministrazione entrante. Il fondatore e presidente esecutivo del GEO Group ha dichiarato, in una conferenza stampa: «ci aspettiamo che l’amministrazione Trump entrante adotti un approccio molto più aggressivo per quanto riguarda la sicurezza delle frontiere e l’applicazione delle leggi all’interno e che chieda ulteriori finanziamenti al Congresso per raggiungere questi obiettivi». La punizione razziale degli immigrati privi di documenti paga bene. Non si tratta solo di detenzione e deportazione, ma anche di monitoraggio e sorveglianza elettronica dei migranti. L’Intensive Supervision Appearance Program dell’ICE comprende cavigliere, «orologi» di sorveglianza e applicazioni per smartphone con riconoscimento facciale. Questo approccio è redditizio per le aziende e promette di risolvere gli impedimenti materiali ed economici che impediscono di affidarsi esclusivamente alla detenzione e alla deportazione. Come ha osservato Evan Benz, avvocato dell’Amica Center for Immigrant Rights, «non c’è un modo pratico ed efficace, dal punto di vista dei costi per l’ICE, di detenere e rimuovere legalmente tutti gli oltre tre milioni di immigrati che si trovano nel registro delle persone non detenute, nonostante ciò che Trump e i suoi tirapiedi fascisti possano sognare per il prossimo anno».
Osservare la macchina delle deportazioni che Trump e il suo gabinetto di bigotti danarosi stanno mettendo in moto a gran voce significa osservare un’intera economia politica della paura e della punizione, con agenzie governative e appaltatori aziendali – sotto l’egida di una legislazione anti-immigrazione estremamente repressiva – che colludono in un sistema che mescola profitto privato e propaganda demagogica. I governatori repubblicani hanno salutato i piani di deportazione di massa con lo slogan «Make America Safe Again». In un paese che registra decine di sparatorie nelle scuole all’anno, dove migliaia di persone muoiono prematuramente a causa di un sistema sanitario predatorio e dove milioni di persone sono sempre più esposte a catastrofi legate al riscaldamento globale, questa è un’immagine cupa e ottusa della sicurezza. Alla fine, il contenuto della sicurezza promessa agli americani è lo stesso terrore sperimentato dai migranti.
Per i lavoratori migranti, la paura è sempre stata un fattore economico. Il razzismo è, tra l’altro, uno strumento per disciplinare il lavoro e ridurre i salari. Come spiega lo studioso critico Nicholas De Genova, la funzione principale dell’espulsione nelle economie capitalistiche che dipendono dal lavoro degli immigrati e delle persone senza documenti non è stata l’espulsione dei lavoratori, ma la loro subordinazione. Ciò è dimostrato dai molteplici modi in cui il loro lavoro è reso a buon mercato, «usa e getta» e sorvegliato dall’esperienza vissuta della deportazione. Lo stesso Homan ha pubblicizzato i suoi sforzi per estendere i visti temporanei per i lavoratori stagionali ai lavoratori annuali dell’industria casearia, che, come l’industria del confezionamento della carne, dipende in modo massiccio dai lavoratori privi di documenti, tanto che la mancanza di accesso alla forza lavoro di origine straniera raddoppierebbe il prezzo al dettaglio del latte negli Stati Uniti. Il coordinatore agricolo della contea di Jefferson, New York, che ha accolto con favore gli sforzi di Homan per proteggere l’industria dalle potenziali devastazioni della deportazione, ha dichiarato ai giornalisti: «le aziende casearie vogliono persone, specialmente per mungere le mucche. Vogliono persone presenti in modo costante, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, perché le mucche sono molto sensibili ai cambiamenti». Quando non vengono additati come minacce alla sicurezza nazionale, i lavoratori senza documenti vengono ridotti a fattori di produzione, la cui sensibilità, come in questo caso, è meno importante di quella degli animali di cui potrebbero occuparsi.
Ma cosa succederebbe se rompessimo l’equazione reazionaria della classe lavoratrice con la bianchezza e la cittadinanza nazionale? Sin dalla fine del XIX secolo, da quando le leggi sull’immigrazione sono state promosse da un movimento operaio bianco e restrittivo, questa equazione ha dato origine a visioni nefaste della classe operaia americana, della sua composizione e delle sue prospettive. Ciò che è chiaro è che l’obiettivo principale dei piani di deportazione di massa di Trump non è la «criminalità migrante», ma quella vasta parte della classe lavoratrice americana che è composta da lavoratori privi di documenti e da tutti coloro che ricadono sotto la temibile ombra di poter essere deportati – come i due gemelli neonati recentemente deportati dall’ICE con la loro famiglia in Messico, nonostante la loro cittadinanza di nascita. Il diritto di nascita è un altro dei bersagli della guerra di Trump contro i migranti.
Combattere l’attacco globale alle vite dei migranti dovrebbe essere la priorità di qualsiasi movimento per la giustizia sociale. Ma questo deve avvenire nella piena consapevolezza che l’apparato legale e repressivo che Trump, Homan e Miller sono pronti a brandire contro i senza documenti e i loro parenti – pagando il salario psicologico del nativismo e riempiendo al contempo le casse delle aziende private – è un’eredità interamente bipartisan. Ancora più importante, la lotta contro la violenza della detenzione e della deportazione non può essere inquadrata come una questione riformista o umanitaria. Deve essere vista come una lotta politica e sindacale fondata sull’uguaglianza e sulla dignità incondizionata delle persone prive di documenti.
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Alberto Toscano insegna alla Simon Fraser University. È autore di vari articoli e libri sull’operaismo, sulla filosofia francese e sulla critica al capitalismo razziale, di cui è uno dei punti di riferimento nel dibattito internazionale. Per DeriveApprodi ha pubblicato: Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (2024).
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