
Con questo testo inauguriamo una nuova sezione curata dalla redazione di Commonware, che aderisce al progetto di Machina, perché se è vero che le riviste non riescono più a svolgere la loro funzione organizzativa, come è accaduto nella storia della lotta di classe, è altrettanto vero che di una rivista abbiamo molto bisogno per scoprire quali possono essere le nostre «forze nuove».
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Nell’adunanza del 26 novembre, a cui abbiamo partecipato, alcuni interventi ponevano il problema della crisi della forma-rivista. Si diceva che già da qualche tempo le riviste, che nella storia della lotta di classe hanno spesso ricoperto un ruolo fondamentale, fatichino a svolgere la propria funzione organizzativa a fronte di una scarsa rilevanza dal punto di vista teorico-politico. Sarebbe sbagliato ricondurre questa situazione problematica ai limiti individuali di chi lavora alle riviste, si tratta invece dell’effetto di una serie di condizioni oggettive che andrebbero tematizzate e affrontate.
Il primo problema è quello dei processi disgregativi che hanno frantumato e moltiplicato i luoghi della discussione politica. Ci troviamo nella paradossale situazione in cui alla ricchezza della molteplicità, all'esorbitante produzione di contenuti, non corrisponde un'altrettanto forte sedimentazione politica. Questa disgregazione da un lato è figlia dell’assenza di una soggettività politica forte (per essere chiari: non di un’organizzazione ma di un soggetto politico di massa) in grado di lottare, di aprire processi di ricomposizione, di assumere una centralità politica in virtù della forza antagonista che riesce a esprimere. Dall’altro deriva dalla logica di funzionamento e dalla pervasività della rete e dei social network che interconnettono proprio nella misura in cui prima producono e riproducono l’individuo e poi lo isolano, inibendo tendenzialmente qualsiasi processo aggregativo. In questo contesto si è moltiplicata la competizione tra piccole nicchie identitarie, tutte accomunate dall’inadeguatezza rispetto ai compiti che la fase richiederebbe, che concorrono per la conquista di quell’individuo. In misura e forme diverse la volatilità dei discorsi politici riguarda tutti i soggetti politici organizzati, compresi i partiti istituzionali che, come abbiamo avuto modo di vedere negli ultimi anni, sono esposti alla ciclicità delle bolle di consenso che esplodono con la stessa facilità con cui si formano, proprio come succede sui mercati finanziari. Di tutta l’enorme produzione di discorso teorico e politico, che supera di gran lunga la capacità umana di assorbirla, niente ha la forza di lasciare una traccia storica. Tutto dura il tempo di un post mentre la storia sembra viaggiare davanti ai nostri occhi alla velocità con cui scrolliamo le timeline dei nostri social network, senza che si riesca ad afferrarla per cambiarne il corso. Non è solo responsabilità delle tecnologie di rete, che hanno certamente contribuito mangiando attenzione, capacità analitica e prospettica. La ragione più profonda della volatilità del discorso politico risiede, ancora una volta, nella mancanza di un soggetto di massa in grado di offrire un’interpretazione materialisticamente fondata dei conflitti che attraversano il mondo. Senza di esso infatti non c'è punto di vista che possa sopravvivere al succedersi delle contingenze. In questo contesto la scorciatoia più semplice è stata quella di inseguire l’eterno presente dell’opinione pubblica, che per sua natura è costituito di emergenze sempre nuove, rinunciando all’analisi, alla costruzione di una prospettiva, all’individuazione delle linee lunghe di tendenza che precipitano nella contingenza, all’organizzazione di una forza. Il successo relativo delle teorie complottiste si può spiegare allora con la loro capacità di riuscire a soddisfare il bisogno materiale di uno strumento di interpretazione dei conflitti che innervano la società. È per fronteggiare questa situazione che abbiamo deciso di aderire al progetto di Machina e di inaugurare con questo testo la sezione che cureremo. Nonostante la crisi della forma-rivista pensiamo infatti che di una rivista ci sia bisogno. La necessità non è quella di avere uno strumento di elaborazione di una linea politica, né di costruire attorno a una rivista un’organizzazione perché senza lotte e in mancanza di un soggetto di massa, la prima si trasforma in una delle tante opinioni che si bruciano nel mercato dell’opinione pubblica, mentre la seconda non avrebbe le gambe per camminare chiudendosi nell’autoreferenzialità. L’esigenza che abbiamo davanti è quella di «ripartire dall’alto», come ha sapientemente suggerito Mario Tronti. Di ricostruire non tanto o non solo un’avanguardia militante, quanto le condizioni per poter formulare delle ipotesi sui luoghi del conflitto, sui soggetti che possono praticarlo aprendo uno spazio di ricomposizione. Sono problemi vecchi, che tuttavia nessuno è riuscito a risolvere e che meritano una riflessione in prospettiva storica e genealogica sganciata dalla contingenza. È per questa ragione che il salto programmatico di Machina dalla rivista-assemblea alla rivista-progetto è importantissimo (vedi qui). Se è evidente infatti che qualcosa non ha funzionato allora dobbiamo passare al vaglio della critica gli ultimi decenni di produzione teorica, politica e pratica con l’obiettivo di recuperare qualche strumento che possa servirci per leggere e interpretare, ancorché a uno stadio pre-politico, le istanze che si muovono nella composizione di classe. Il nostro compito, in un contesto radicalmente mutato, è simile a quello che dovettero affrontare i compagni che diedero vita all’esperienza operaista che ispira ancora oggi il nostro metodo politico. Alla fine degli anni Cinquanta, in contrasto con tutte le istituzioni del Movimento operaio che ritenevano la classe operaia definitivamente integrata nella macchina capitalistica, essi scoprirono la forza antagonista di un nuovo soggetto, quella dell’operaio-massa. Oggi in maniera non molto differente abbiamo la necessità di ricostruire le condizioni teoriche e pratiche che ci consentano di individuare quali sono nel nostro contesto le «forze nuove» antagoniste, per usare l’espressione con cui Alquati indicò all’epoca le soggettività operaie su cui scommise l’operaismo. Infatti, in un contesto in cui sono saltate tutte le bussole che orientavano il nostro agire politico, il rischio di non riconoscerle è molto alto. Ripartire dall’alto, costruire una rivista, fare il salto verso la rivista-progetto significa per noi ricostruire la capacità politica di riconoscere e organizzare le nostre «forze nuove».
Sulla scorta di questo ragionamento, la programmazione di questa sezione, in sinergia con altre di Machina, sarà costruita attorno ad alcuni importanti nodi tematici. Elenchiamo qui i principali, anche se non esauriranno il nostro lavoro redazionale. Continueremo ad affrontare la questione del ceto medio, non solo perché all’origine del «momento populista» che ha segnato gli ultimi 15 anni, è possibile rintracciare i processi del suo declassamento (sebbene relativo); ma anche perché non c’è ipotesi politica rivoluzionaria che possa funzionare se non contempla la scomposizione e la polarizzazione di questo blocco sociale che ha la funzione di mediare l’antagonismo di classe. All’uscita della pandemia, con una guerra in corso alle porte dell’Europa che ridisegnerà l’architettura della globalizzazione, all’inizio di una nuova ristrutturazione capitalistica (il Pnrr, la transizione ecologica) quale direzione prenderà il ceto medio? Assisteremo ad un rilancio del populismo in altre forme oppure a un suo esaurimento? Proprio per rispondere alla destabilizzazione portata avanti dai cosiddetti populismi, l'élite di governo riuscirà a offrire un nuovo patto sociale in un contesto di crescente caos? E ancora, per dare il nostro contributo alla riflessione genealogica sugli anni Ottanta, quali sono stati gli errori di interpretazione e le ragioni del fallimento delle ipotesi organizzative nel passaggio dall’operaio massa alle varie forme di lavoro autonomo e intermittente (preferiamo questi termini a quello di operaio sociale perché quest’ultimo pur indicando una stessa composizione tecnica segnala il potenziale antagonismo di questi soggetti che però, a distanza di tempo, non si è dispiegato)? Queste sono solo alcune delle domande che guideranno la nostra ricerca sul tema del ceto medio. Un altro nodo tematico è quello della formazione della «capacità-attiva-umana» sempre più industrializzata. Siamo convinti infatti che sia una posta in palio fondamentale dell’antagonismo di classe. Non solo perché i luoghi della formazione sono gangli centrali dell’accumulazione capitalistica in quanto fabbriche di sapere e di soggettività, ma anche perché lì dentro si incontrano e si scontrano le forme di resistenza all’impoverimento della «capacità-attiva-umana» con le aspirazioni di ampie fette di composizione giovanile a conquistare migliori posizioni nella gerarchia del mercato del lavoro o, per dirla diversamente, a farsi ceto medio. Queste aspirazioni e quelle forme di resistenza possono essere piegate in senso antagonista? Possono essere la base per aprire percorsi di contro-soggettivazione?
Se si affronta il nodo della formazione non si può evitare il problema della composizione giovanile. Partendo dall’assunto che la categoria di «giovani» non può indicare un soggetto politico già pronto (al massimo indica una categoria di consumatori) pensiamo sia urgente scandagliare l’articolazione della composizione giovanile che non ha alcuna omogeneità al suo interno. Abbiamo l’esigenza cioè di capire quali sono i comportamenti, le forme della socialità, le aspirazioni, le istanze, in altre parole le forme della politicità intrinseca che possono essere trasformate in conflitti espliciti. Per farlo però occorrerà evitare una doppia attitudine, l’una speculare all’altra. Da un lato bisogna evitare un approccio giovanilista per cui tutto ciò che fanno i giovani è buono di per sé, dall’altro occorre tenere lontano un approccio paternalista per cui tutto ciò che fanno i giovani è privo di potenziale politico.
Un altro tema che arricchirà questa sezione è quello delle trasformazioni degli assetti della globalizzazione. Infatti, per leggere le trasformazioni produttive, sociali e politiche che si sviluppano su una scala più bassa e quindi quelle della composizione di classe è necessario osservare le tendenze che si muovono su una scala più alta e che la guerra farà (o ha già fatto) detonare manomettendo gli assetti della globalizzazione ereditati dalla caduta del muro del Berlino.
Infine a corredo di questi temi riproporremo contenuti già pubblicati sul nostro sito, che verrà chiuso, con l’obiettivo di verificare vecchie ipotesi, di certificarne la validità oppure di rivederle del tutto a distanza di tempo. Per chiudere segnaliamo che cercheremo di incrementare l’uso dello strumento podcast e di altri strumenti digitali, ormai diventati i principali canali di formazione e di condivisione della conoscenza.
Questo, in estrema sintesi, sarà il programma che guiderà la cura di questa sezione, ci auguriamo di essere all’altezza dei compiti che ci aspettano.
Immagine: Giuliano Galletta, Ritratto dell'artista da pugile, 1945/1995, foto analogica su tela.
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