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Il mondo dei fatti non fornisce più le rassicurazioni di una volta. Oggi, sembra che i fatti abbiano molti significati e siano anche fugaci ed evanescenti. Rincorriamo le vecchie certezze? O dovremmo, invece, trovare storie e narrazioni che ci aiutino a dare un senso alla nostra posizione insicura e instabile? Navigando sulla mongolfiera delle narrazioni, fatti e dati si elevano a una realtà superiore. Propongo allora di passare alle storie: non perché ci rassicurino o ci cullino nell’autocompiacimento; piuttosto, le storie sono il tessuto connettivo necessario per creare connessioni tra persone di scienza e persone di lettere, tra i fatti esposti dagli scienziati e la rappresentazione narrativa di quei fatti in parole e immagini. I designer e i narratori sono i partner della natura: ricorrono alla narrativa per aiutarci a dare un senso alla natura stessa.


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La difficoltà del tempo in cui viviamo mette alla prova la creatività umana per lasciarsi afferrare dalla meraviglia che il sociologo tedesco Max Weber (1864-1920) chiamava «capacità di stupirsi». Esserne dotati porta a trovare problemi scoprendo nuove domande, anziché ad agire da risolutore di problemi rispondendo alle domande, cosa che i computer possono fare anche meglio di noi. Disordine e incertezza sono un invito e una sfida alle nostre menti. Dobbiamo sbarazzarci dalle domande esistenti e scoprirne di nuove per rivenire soluzioni radicali alle minacce che abbiamo di fronte. Per trovare dei problemi per poi risolverli, vanno cercati altri sentieri, quelli del giudizio discendente da narrazioni e conversazioni consapevoli, in aggiunta od oltre ai percorsi contrassegnati dall’indagine statistica e dai modelli econometrici e di probabilità.

In realtà, anche se gli economisti e gli scienziati più testardi potrebbero rabbrividire ad ammetterlo, non è una novità che la letteratura sia da sempre musa ispiratrice dell’economia. I libri, che siano fiabe, favole, racconti, romanzi o saggi letterari, infondono emozioni e idee nell’agire economico degli individui. Specie diverse di idee vengono a contatto. La loro impollinazione ne produrrà altre del tutto nuove, sempre che il libro si riesca a sbucciarlo. Bisogna entrare dentro il libro, in quella parte molto preziosa sotto la «buccia» (librum, la parte interna della corteccia dell’albero). Preziosa perché bianca e, quindi, utilizzabile per scriverci sopra. Non basta saper leggere e scrivere, dobbiamo imparare, disimparare e applicare ciò che apprendiamo. Un esercizio che richiede l’immaginazione che nasce dalla lettura del testo arricchita dall’interlocuzione con l’autore, l’editore e gli altri lettori. La conversazione avviene sia oralmente, sia mediante la circolazione delle nostre annotazioni nel libro. Annotare, commentare a margine, riprodurre con segni cose reali o immaginate: sono questi i marginalia che i lettori nel corso dei secoli hanno prodotto per scopi talvolta personali, talaltra per allargare dal privato al sociale la lettura di un libro. Il libro, dunque, supera i confini tracciati dall’autore per inoltrarsi nei vasti territori dell’immaginazione dei lettori dove possono manifestarsi opere straordinarie del pensiero.

Non c’è dunque da meravigliarsi se la letteratura è veicolo di riforme. Tra queste, la riforma del comportamento umano, quella del cuore anzitutto, per contrastare «la mente e il cuore terribilmente corrotti», come si augurava Madame de La Fayette (1634-1693) nel Seicento che coltivava l’ideale della socievolezza. La letteratura ci incoraggia a riconoscere e ad accettare le altre persone; ci permette di comprendere le loro menti e le loro motivazioni. Leggendo le storie, sviluppiamo una mente aperta, una comprensione degli altri. A sua volta, questo ispira spontanee connessioni sociali e simpatie, senza l’intervento pesante della legge. Inoltre, lo studio della letteratura e di altre forme d’arte ha anche benefici immediati e pratici per l’attività economica: può promuovere la capacità di comunicazione, il pensiero analitico e la precisione dell’espressione; permette di abbracciare l’incertezza e l’imperfezione, libera l’immaginazione; dà vita a nuovi modi di vedere e pensare.

Nella conversazione libera, non lineare, il dare e il ricevere, che a prima vista appaiano senza senso, hanno forgiato ambienti creativi. Ne sono vivida testimonianza i simposi di Atene, le botteghe artistiche della Firenze medicea, i salotti delle grandi dame francesi del Seicento e Settecento, lo Junto club di Benjamin Franklin a Filadelfia, i club inglesi focolai della prima rivoluzione industriale, e gli Adda luoghi per discussioni lunghe, informali, non rigorose che hanno plasmato il Rinascimento del Bengala. Nel Simposio di Platone, per esempio, Socrate e i suoi amici rimangono alzati fino a notte fonda a discutere di amore e desiderio. L’aria è festosa: alcuni sono rimasti svegli per giorni, facendo baldoria, assistendo a tragedie, discutendo incessantemente i contorni di una buona vita. E la conversazione stessa è democratica. Piuttosto che avere Socrate che fa la predica agli amici sull’amore e sul desiderio, tutti si esprimono. Platone sottolinea un aspetto sottile e importante nel modo in cui presenta il suo simposio. È meglio fornire una serie di percorsi, narrazioni e storie diverse, piuttosto che insistere su un punto di vista. Nei suoi percorsi ramificati e nelle sue possibilità, il Simposio incoraggia i suoi lettori a pensare con forza e apertura mentale: a trovare il proprio percorso tra i cespugli del desiderio. I moderni esperimenti quantitativi hanno sostenuto l’intuizione di Platone. Il professore del MIT Alex Pentland ha dimostrato che le conversazioni tra colleghi non sono una perdita di tempo, anche se potrebbero sembrare così ai manager ansiosi: «A un team è stata concessa una pausa caffè in comune, mentre l’altro, in modo efficiente, ha scaglionato il proprio lavoro in modo da evitare interruzioni. La soddisfazione lavorativa del team sociale è aumentata ed è stata di 10 milioni di dollari più redditizia. Cosa succede in questo tempo sprecato? Le persone condividevano informazioni, risolvevano problemi, si motivavano e si aiutavano a vicenda» (Heffernan, 2020). La conversazione inefficiente, democratica, difficile da quantificare è la chiave per risolvere i problemi del mondo degli affari e dell’economia. Senza questa libertà di scambio, le persone cadono nelle solite abitudini, le vecchie idee provate e stanche. E le aziende che le impiegano ne soffrono.

Anche nelle scienze sociali i ricercatori stanno rivolgendo la loro attenzione alla narrativa, sostenendo che le storie possono avere un impatto sostanziale sui comportamenti delle persone. Esse non sono sempre attori razionali. La loro risposta a una crisi può non essere guidata da un’analisi chiara dei fatti. Può invece provenire dal panico o dall’ignoranza; prima o in mancanza di fatti, può essere frutto di storie che circolano nei media come pure delle opere di finzioni. Così scrive Robert Shiller (2017), insignito del Premio Nobel per l’economia nel 2017:



Dobbiamo considerare la possibilità che a volte la ragione dominante della gravità di una recessione sia legata alla prevalenza e alla vivacità di certe storie, non al feedback puramente economico o ai moltiplicatori che gli economisti amano modellare.



Gli aristocratici dei dati sognano di imbarcarsi per l’isola dei fatti incontrovertibili e, una volta lì, organizzerebbero una festa galante in onore di quei fatti. Jean-Antoine Watteau (1684-1721) ci dà un’immagine vivida di come potrebbe essere una tale festa in L’imbarco per Cythera (1717): la meschina e compiaciuta soddisfazione di un fine settimana di crociera di piacere, con i putti grassi che fanno le ruote nel cielo. È una visione seducente, ma falsa: dobbiamo sempre ricordare che l’isola di Cythera l’isola di Afrodite, sede di un piacere inimmaginabile è la meta del nostro viaggio terreno. Ma non è raggiungibile dai semplici mortali. Anche l’isola dei fatti incontrovertibili è il nostro obiettivo, ma solo gli stolti immaginano di arrivarci. I solidi argomenti empirici non sono mai definitivi e irrevocabili. Ulteriori indagini possono indirizzarci in una direzione completamente nuova.

Il metodo scientifico baconiano richiede di raggiungere la sacra riva della realtà stando sulla barca stabile dei fatti. Ma, andando alla ricerca dei fatti, la barca è costantemente costretta a rallentare e a cambiare direzione. Amare i fatti è amare poligamicamente: essere affezionati a molte cose e idee soggette a venti contraddittori e mutevoli dei fatti che possono essere nudi e crudi, supposti, apparenti, accettati, sperati, riferiti. Il viaggio continua. Il suo svolgersi è una storia di disavventure e di eventi, di incontri casuali e di incidenti felici. Coinvolge i protagonisti gli scienziati e gli economisti che cercano con tanto vigore la verità e coloro che incontrano lungo il cammino, gli osservatori della loro ricerca. Il loro comportamento è influenzato da ciò che vedono, da ciò che imparano conversando con questi appassionati cercatori della verità. La riva della realtà ha, quindi, una forma narrativa: è la storia che raccontiamo a noi stessi della nostra ricerca della verità.

Ammettendo che le storie sono fondamentali per il progresso scientifico ed economico, avremo una visione più chiara degli eventi dirompenti che si sono impadroniti della nostra società? Uno scienziato potrebbe insistere sul fatto che il modo migliore per rispondere è quello di accumulare più dati possibile. Ma senza una narrazione che dia un senso ai dati, questa ricerca ossessiva e febbrile non si concluderà con una massa di numeri e cifre schiaccianti e non digeribili? Nel suo racconto On Exactitude in Science, lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1889-1986; 1961) immagina una società che si è abbandonata, in misura pericolosa, a un tale amore per la raccolta dei dati in sé:



In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell’impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell’Impero che aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva perfettamente con esso.



Ricercare la perfezione è ciò di cui diffidava il Premio Nobel Richard P. Feynman (1918-1988). Ne L’incertezza della scienza, una delle sue conferenze tenute nel 1963 ( John Danz Lecture Series), il padre delle nanotecnologie rimarcò che «non è sempre una buona idea essere troppo precisi». Altrimenti si arriva a una mappa grande come la cosa che si vuole mappare: perfettamente precisa e perfettamente inutile. Solo una narrazione, una storia, può aiutare a trovare il necessario equilibrio tra precisione e imprecisione. Senza tale equilibrio, la scienza stessa fallisce.

Andare alla ricerca di dati, disporne per poi contarli e descriverli, è un esercizio sterile se non è sostenuto da una teoria che è una visione indispensabile per interpretarli. Essa trae alimento da idee che sono parto della pura fantasia come pure dalla capacità umana di intuire e anticipare la realtà. È la narrazione delle operazioni del pensiero, dalla raccolta di dati alla loro interpretazione, che dà completezza al sapere. Il suo fine non è, però, presentare la visione, ma l’impatto che avrà sulla società. La storia deve essere diffusa per essere conosciuta e confrontata con altre. Dalle narrazioni che s’incrociano maturano nuove e più avanzate visioni. Per sconfiggere i virus, per spezzare la catena di trasmissione delle infezioni diffusive e contagiose, c’è da trarre lezioni da vicende come quella di Ignaz Semmelweis (1818-1865) che nel 1847 scoprì quanto la febbre da parto dipendesse dal mancato lavaggio delle mani nei reparti di maternità. Allora, quell’idea fu ritenuta sovversiva. Il contrasto che essa incontrò dipese anche dall’assenza di una narrazione da comunicare efficacemente. Rifacendosi alle traversie attraversate da quel medico ungherese così come raccontate da Sherwin Nuland (2003) nel The Doctor’s Plague, Greg Satel (2019) così commenta: «Semmelweis non vedeva l’utilità di comunicare il suo lavoro in modo efficace, di formattare le sue pubblicazioni in modo chiaro o addirittura di raccogliere dati in modo da ottenere una maggiore accettazione delle sue idee». In un mondo di fatti con molti e inafferrabili significati, la narrazione è il tessuto connettivo di cui abbiamo bisogno. Non solo facilita l’incontro tra scienziati e artisti. Crea anche una connessione tra diversi tipi di fatti i fatti del laboratorio e le verità del romanzo, la realtà dello studio empirico e l’esperienza della persona che deve vivere nella realtà che lo studio cerca di descrivere. Infine, le storie danno la flessibilità e la libertà d’animo di cui abbiamo bisogno per non essere sopraffatti dal fasto e dalla finzione della scienza. Quando vediamo la Città dei Fatti sospesa nella nebbia, non siamo accecati dal suo splendore: le storie che raccontiamo si comportano come occhiali da sole che proteggono i nostri occhi. In effetti, le nostre narrazioni ci permettono di vedere più chiaramente, più in dettaglio. La Città dei Fatti non è la Città di Smeraldo dove regna il Grande e Terribile Mago di Oz, e nella quale bisogna entrare con occhiali di colore verde per proteggersi dalla travolgente luminosità. Se fossimo tutti costretti a usare le stesse storie, a indossare gli stessi occhiali da sole, la realtà stessa si ridurrebbe a una scialba conformità, il suo piacere e le sue possibilità sarebbero prosciugati.

Di fronte a una crisi globale senza precedenti scatenata dal Covid-19, dobbiamo essere disposti a riconoscere che i vecchi modi di pensare ci hanno deluso e che sono necessarie nuove storie per rendere conto della nostra nuova realtà. Quale momento migliore se non guardare di nuovo i fatti, vederli con occhi nuovi e inventare nuovi modi di fare i conti con loro? Quale momento migliore per interrogarsi sulle ipotesi che scienziati ed economisti fanno intorno ai loro studi e creare inediti legami tra discipline che di solito vengono tenute separate?



Tratto da P. Formica, La voce della natura, Cultura della salute e Cultura umanistica, BioGraph, Chicago 2021.


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Piero Formica. Fondatore dell’International Entrepreneurship Academy, è Professore di Economia della conoscenza e Senior Research Fellow dell’International Value Institute presso la Maynooth University in Irlanda. Presso il Contamination Lab dell’Università di Padova e la Business School Esam di Parigi svolge attività di laboratorio per la sperimentazione dei processi di ideazione imprenditoriale. Il professor Formica ha ricevuto nel 2017 l’Innovation Luminary Award conferitogli dall’European Union Open Innovation and Strategy Policy Group. Piero Formica è membro dei comitati di redazione di Industry and Higher Education; International Journal of the Knowledge Economy; International Journal of Social Ecology and Sustainable Development; Journal of Global Entrepreneurship Research; South Asian Journal of Management; and Frontiers in Education. Scrive per l’edizione digitale di Harvard Business Review ed è editorialista delle edizioni del Nordest del Corriere della Sera.




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