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Gli Stati Uniti e il «capitalismo fascista»

Aggiornamento: 1 giorno fa

 

Apostolos Georgiou, 0100, 2005
Apostolos Georgiou, 0100, 2005

Siamo dentro a una nuova accumulazione primitiva, a un nuovo ciclo strategico innescato da Trump. È questo il fulcro, il significato politico del nuovo governo USA, le cui decisioni politiche, arbitrarie e unilaterali, mirano a espropriare la ricchezza di alleati e nemici. Trump sta imponendo i rapporti di potere con la forza; una volta stabilita la divisione tra chi comanda e chi obbedisce, si possono ricostruire le norme economiche e giuridiche, gli automatismi dell’economia, le istituzioni nazionali e internazionali, espressione di un nuovo «ordine». In un certo senso, Trump politicizza ciò che il neoliberalismo aveva cercato di depoliticizzare: non è più l'«oggettività» del sistema di mercato, delle leggi finanziarie a comandare, ma l'azione di un «signore» che decide in modo arbitrario le quantità di ricchezza che ha diritto di prelevare dalla produzione dei suoi «servi».

Così, oggi, il capitalismo non ha più bisogno, come un tempo, di affidare il potere ai fascismi storici, perché la democrazia è utilizzata a propri fini, fino a produrre e riprodurre guerra, guerra civile, genocidio. I nuovi fascismi sono marginali rispetto ai fascismi storici e, quando accedono al potere, si schierano immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria e repressiva e agendo sull’aspetto simbolico-culturale.

Un articolo importante, da discutere approfonditamente.


***


«L’accumulazione originaria, lo stato di natura del capitale,

è il prototipo della crisi capitalista»

Hans Junger Krahl


Il capitalismo non si riduce a un ciclo di accumulazione poiché è sempre preceduto, accompagnato e seguito da un ciclo strategico definito dal conflitto, dalla guerra, dalla guerra civile e, eventualmente, dalla rivoluzione. Il ciclo strategico comprende sì l'accumulazione originaria per come è spiegata da Marx, ma solo come sua prima fase; essa è seguita dall’esercizio della violenza incorporata nella «produzione» e dal suo dispiegarsi sotto forma di guerra e guerra civile quando il ciclo economico si esaurisce. Per avere una descrizione esaustiva del ciclo strategico, bisogna attendere il XX secolo, con la sua trasformazione nel ciclo della rivoluzione sovietica e cinese, che corregge e completa Marx da diversi punti di vista. I due cicli funzionano insieme, concatenano le loro dinamiche, ma possono anche separarsi: dal 2008, il ciclo del conflitto, della guerra e della guerra civile (e dell’eventuale, improbabile, rivoluzione) si è progressivamente separato dal ciclo dell'accumulazione in senso stretto. Il blocco, le impasse dell'accumulazione del capitale richiedono l'intervento del ciclo strategico, che funziona a partire dai rapporti di forza e dalla relazione non economica amico-nemico.


Da quando si è affermato l’imperialismo, l'importanza del ciclo strategico non ha fatto che aumentare. I cicli della guerra, della grande violenza, dell’uso arbitrario della forza si susseguono rapidamente. Gli Stati Uniti hanno imposto per tre volte (1945 - 1971 - 1991) le regole economiche e giuridiche del mercato mondiale e del Nomos della terra (ordine mondiale). Per tre volte le hanno poi cancellate perché non più funzionali, sostituendole con nuove norme: il fordismo del 1945 è stato smantellato negli anni ’70; il cosiddetto «neoliberismo», scelto al suo posto ed esteso a tutto il mondo nel 1991 dopo la fine dell’URSS, è crollato nel 2008. L’attuale accumulazione primitiva cambia ancora una volta le regole del gioco, per un più che improbabile «Make America Great Again».

L’analisi del ciclo strategico nel capitalismo contemporaneo deve partire dagli USA, perché qui si trovano concentrati i dispositivi di potere, le istituzioni militari, finanziarie e monetarie di cui gli stessi USA detengono il monopolio, vietandone l’accesso agli «alleati» europei o dell’Asia orientale, cioè ai paesi sottomessi o dalla guerra (Germania, Giappone, Italia), o dalla potenza economica e finanziaria (Francia, Inghilterra), e soprattutto negato al Sud del mondo.

A partire dalla crisi del 2008, il ciclo strategico è salito alla ribalta fino a scalzare il «mercato», le regole economiche, il diritto internazionale, i rapporti diplomatici tra Stati ecc., pur avendo come obiettivo quello di rilanciare l’economia americana in grave difficoltà e impedirne l’implosione.

La nuova accumulazione primitiva e il ciclo strategico si dispiegano sotto i nostri occhi. Lo «stato d’eccezione» è stato innescato da Trump e si sviluppa in maniera molto differente rispetto alla definizione canonica data da Carl Schmitt o ripresa da Giorgio Agamben: invece di riguardare il diritto pubblico e la costituzione formale dello Stato-nazione, colpisce in primo luogo le regole della costituzione materiale del mercato mondiale e le norme del diritto internazionale proprie dell’Ordine mondiale. Con lo stato d’eccezione globale, lo spazio in cui si disegna il Nomos della terra, con le sue linee di amicizia e ostilità, è quello della guerra civile mondiale. Invece di concentrarsi sul diritto, lo stato d’eccezione globale integra profondamente economia, politica, militare, giuridico.


La guerra civile mondiale si riflette nella guerra civile interna agli Usa, intensificando razzismo e sessismo, la militarizzazione del territorio, la deportazione dei migranti, attaccando università, musei, demonizzando parole, concetti, ecc.: la popolazione degli USA è profondamente divisa: e non (solo) tra l’1% e il 99% come si dice dal movimento Occupy Wall Street in avanti, ma tra il 20% che garantisce la gran parte dei consumi dell’enorme mercato interno (che valgono il 3/4 del PIL americano) e l’80% la cui capacità di consumo stagna o arretra. Le politiche fiscali sono attuate per garantire la proprietà e l’iperconsumo della parte più ricca.

Trump politicizza ciò che il cosiddetto neoliberismo cercava ostinatamente di depoliticizzare, senza riuscirci. Una volta sospese tutte le regole, l’uso della forza extra-economica diventa la condizione preliminare alla produzione economica, alla costituzione del diritto, alla creazione di qualsiasi istituzione. Prima si impongono rapporti di potere con la forza. Poi, una volta stabilita la divisione tra chi comanda e chi obbedisce (e la situazione si è stabilizzata perché accettata dai vinti), si possono ricostruire le norme economiche e giuridiche, gli automatismi dell’economia, le istituzioni nazionali e internazionali, espressione di un nuovo «ordine».

Il funzionamento del ciclo strategico durante lo «stato d’eccezione globale» è assicurato da decisioni politiche dell’amministrazione americana, arbitrarie e unilaterali, che mirano a imporre una serie di «prese» (appropriazioni, espropriazioni, saccheggi) della ricchezza altrui, estorte direttamente, senza la mediazione né dello sfruttamento industriale, né della predazione operata dal debito o dalla finanziarizzazione.

Qual è il significato di questo lungo (e qui parziale[1]) elenco di decisioni politiche prese a partire dal potere coercitivo dello Stato imperiale? Il cambiamento dei rapporti «economici» non è immanente alla produzione, non è il risultato delle «leggi» della finanza, dell’industria, del commercio stabilite dalla teoria economica. Gli «automatismi» dell’economia, imposti politicamente tra gli anni ’70 e ’80 dagli USA, non possono che riprodurre le finalità per cui sono stati politicamente istituiti (finanziarizzazione, dollaro come unica moneta di scambio e di riserva, economia del debito, delocalizzazione industriale, ecc.) e quindi riprodurre la crisi. Questi dispositivi non hanno la capacità di innovare, di distribuire diversamente il potere, di produrre nuovi rapporti tra Stati e tra classi, condizioni per una «nuova» produzione. La configurazione dei poteri ricercata richiede una rottura. Non è deducibile dalla situazione che ha condotto alla crisi, necessita di un salto fuori dalla situazione.


Per comprendere il «politico» che da sempre gestisce queste fasi di accumulazione primitiva, non bisogna creare una contrapposizione con l’«economico» né ridurlo all’insieme della classe e delle istituzioni politiche. Si coglie meglio pensandolo come il coordinamento di diversi centri di potere (amministrativo, finanziario, militare, monetario, industriale, mediatico) che si dotano di una strategia. Gli interessi eterogenei che li caratterizzano trovano una mediazione nella necessità di sconfiggere un «nemico comune»: il resto del mondo, ma prima di tutto i BRICS, in particolare Russia e Cina. L’amministrazione Trump assume la funzione di capitalista collettivo, di capo capace di negoziare una strategia con gli altri poteri (finanziari, militari, monetari, ecc.) che continuano ad agire secondo i propri interessi, ma che devono trovare una convergenza perché in gioco non c’è solo la salute dell’economia USA, ma la possibilità del crollo dell’intera macchina economico-politica del capitalismo finanziario e del debito, ormai esaurita.

Intimidazioni e ricatti economici, intimidazioni e ricatti a carattere militare, guerre e genocidio, vengono mobilitati contemporaneamente. Gli Stati Uniti prestano particolare attenzione al loro «cortile di casa» (l'America Latina): minacciano di intervenire militarmente, con il pretesto del narcotraffico, in Colombia, Messico, Haiti ed El Salvador, mentre schierano cannoniere contro il Venezuela. Hanno convocato i ministri della Difesa della regione a Buenos Aires (19-21 agosto) per chiedere un allineamento totale contro la Cina e imporre un rafforzamento della presenza dell'esercito americano negli «stretti» (Magellano, Panama, ecc.), colli di bottiglia del commercio mondiale, «che potrebbero essere utilizzati dal Partito Comunista Cinese per proiettare il suo potere, interrompere il commercio e sfidare la sovranità delle nostre nazioni e la neutralità dell'Antartide».


In queste condizioni, è persino difficile parlare di capitalismo, di «modo di produzione», perché ci si confronta con l’azione di un «signore» che decide in modo arbitrario le quantità di ricchezza che ha diritto di prelevare dalla produzione dei suoi «servi». Il segretario americano al Tesoro, Scott Bessent, ha dichiarato senza il minimo imbarazzo che l’America tratterà la ricchezza dei suoi «alleati» come fosse la sua:  Giappone, Corea, Emirati e soprattutto l’Europa si sono impegnati a investire «secondo i desideri del Presidente». Si tratta di un «fondo sovrano, gestito a discrezione del Presidente, per finanziare una nuova industrializzazione». Il presentatore di Fox News, sbalordito, lo definisce un «fondo di appropriazione offshore». Bessent: «Oh, è un fondo sovrano americano, ma con i soldi degli altri».

Le relazioni impersonali del mercato tornano a essere personali, opponendo «il padrone ai suoi schiavi», il colonizzatore ai colonizzati; non è né il feticismo delle merci, né gli automatismi della moneta, del mercato, del debito ecc., a comandare e decidere, ma la forza, espressione di una volontà politica. Gli USA non definiscono più un «concorrente», ma dichiarano un «nemico», identificato con il resto del mondo, compresi gli alleati (prima di tutto gli alleati, perché fanno parte della stessa classe dominante e sono terrorizzati dall’idea del crollo del centro del sistema, che comporterebbe anche la loro caduta; per salvare il capitalismo, sono disposti a spogliare le proprie popolazioni, in particolare l'Europa che, come il Giappone negli anni ’80, dovrà farsi carico di pagare la crisi americana, sacrificando la propria economia e le classi popolari, esponendosi al rischio di guerra civile).

La legge del valore o dell’utilità marginale, cioè l’insieme delle categorie dell’economia classica o neoclassica, sono completamente inutili: non spiegano nulla di ciò che sta accadendo. Invece di modelli econometrici molto complicati, basta un’operazione matematica imparata alle elementari per calcolare i dazi da applicare al resto del mondo. La cosiddetta complessità delle società contemporanee cede facilmente al dualismo politico amico/nemico. La «distruzione creatrice» non è prerogativa dell’imprenditore, ma opera dei decisori politico-economico-militari.


Per spiegare ciò che accade, neanche Il Capitale di Marx (a meno che non si inizi dall’accumulazione primitiva, e non dall’analisi della merce) è molto utile. Pierre Clastres, a partire da una lettura di Nietzsche molto diversa da quella di Foucault e concentrata sul concetto di volontà di potenza, può fornirci spunti di riflessione: i rapporti economici sono rapporti di potere che non possiamo mai separare dalla guerra. La sua descrizione del funzionamento del «potere» quando si afferma a spese delle antiche «società contro lo Stato», è ancora oggi il commento più adeguato al funzionamento attuale della macchina Stato/Capitale dell’amministrazione USA.


L’ordine economico, cioè la divisione della società tra ricchi e poveri, sfruttatori e sfruttati, è il risultato di una divisione più fondamentale della società: la divisione tra chi comanda e chi obbedisce, tra chi detiene il potere e chi lo subisce. È dunque essenziale comprendere quando e come nasce, in una società, la relazione di potere, di comando e obbedienza. In che modo coloro che detengono il potere diventano sfruttatori, e come quelli che lo subiscono o lo riconoscono – poco importa – diventano sfruttati? Il punto di partenza, semplicemente, è il tributo. È fondamentale. Non dimentichiamo mai che il potere esiste solo nel suo esercizio: un potere che non viene esercitato non è potere. Il segno del potere, il segno che esiste realmente, è, per coloro che lo riconoscono, l’obbligo di pagare un tributo. L’essenza del rapporto di potere è la relazione di debito. Quando la società è divisa tra chi comanda e chi obbedisce, il primo atto di chi comanda è dire agli altri: «Noi comandiamo, e ve lo proviamo obbligandovi a pagare un tributo».

Possiamo facilmente interpretare il rapporto tra comando/obbedienza come determinato dalla violenza dell’accumulazione primitiva che non smette di ripetersi; e il rapporto sfruttatore/sfruttato come esercizio del potere di comandare integrato nella produzione una volta che l’«ordine» è stato stabilito e la situazione «normalizzata». I due rapporti sono azioni complementari, esercitati dalla stessa macchina Stato-Capitale. La critica di Clastres all’«economico», capace di determinare in ultima istanza il «politico», ci sembra pertinente, a patto di considerare la volontà di potenza e la volontà di accumulazione come due facce della stessa medaglia.

Il tributo da pagare all’amministrazione USA dovrebbe essere il segno di una nuova redistribuzione del potere, capace di disegnare un nuovo Nomos della terra, ovvero una relazione di subordinazione coloniale degli alleati e dei BRICS – anche se questa è un’operazione più difficile – agli USA. All’interno di ogni Stato, il tributo deve essere il segno della sottomissione delle classi dominate, le uniche che pagheranno la crisi dell’impero. L’arroganza di Trump nasconde la sua debolezza: vuole imporre un nuovo Ordine mondiale, mentre è l’esecutore della sconfitta strategica della NATO in Ucraina, di una crisi economica colossale che si scontra con il Sud globale che non si sottomette come gli europei.

Il nuovo ordine non può essere stabilito se non tramite l’imperialismo, caratterizzato, sin dalla sua nascita, dalla complementarità di economia e politica, di guerra e produzione. L’imperialismo collettivo, definito da Samir Amin negli anni ’70, in cui il ruolo centrale era riservato agli USA, si è trasformato in vera e propria subordinazione coloniale degli alleati: Europa, Corea, Giappone, Canada, ecc. L’Europa è oggi in una condizione di subordinazione coloniale simile a quella  che l’Inghilterra imponeva all’India nel XIX secolo.  Come l’India d’allora, deve pagare un tributo al paese «occupante», costruire e finanziare eserciti europei con materiale acquistato dagli USA, per condurre guerre contro nemici definiti dalla potenza imperiale (la guerra in Ucraina è il laboratorio e la prova generale di questo tipo di guerra).

 


Neoliberalismo o la reversibilità di fascismo e capitalismo

La nuova fase del ciclo strategico, iniziata nel 2008 e che conduce alla guerra aperta, porta con sé una grande novità. La macchina Stato-Capitale non delega più ai fascisti l’uso della grande violenza: la organizza in proprio, forse scottata dall’autonomia che il nazismo si era preso nella prima metà del XX secolo. Il genocidio getta una luce inquietante sulla natura del capitalismo e della democrazia, costringendoci a vederli come forse non lo avevamo mai visti prima.

Il capitalismo e le democrazie organizzano insieme un genocidio come se fosse la cosa più normale e naturale del mondo. Un gran numero di imprese (logistica, armamenti, comunicazione, controllo, ecc.) ha partecipato all’economia di occupazione della Palestina e ora organizzano, senza alcuno scrupolo, l’economia del genocidio. Come le imprese tedesche negli anni ’30 e ’40, garantiscono profitti enormi tramite la pulizia etnica dei palestinesi. L’indice principale della Borsa di Tel Aviv è aumentato del 200% durante il genocidio, assicurando un flusso continuo di capitali, soprattutto americani ed europei, verso Israele.

Con il genocidio, le democrazie liberali riallacciano i fili con la loro genealogia, che, rimossa, ritorna con forza: quella americana ha le sue fondamenta nel genocidio degli indigeni, nell’instaurazione della schiavitù e del razzismo, mentre le democrazie europee facevano lo stesso, ma nelle colonie lontane. La questione coloniale, razziale e la schiavitù sono al cuore di entrambe le rivoluzioni liberali della fine del XVIII secolo.

Il razzismo strutturale che caratterizza il capitalismo – oggi concentrato contro i musulmani – è stato sdoganato in modo indecente dagli israeliani e da tutti i media e le classi politiche occidentali. Anche qui, non c'è realmente bisogno dei nuovi fascisti, perché sono gli Stati, soprattutto quelli europei, ad averlo alimentato fin dagli anni ’80 (mentre negli USA è endemico, cardine dell’esercizio del potere). Il razzismo è profondamente radicato nella democrazia e nel capitalismo fin dalla conquista delle Americhe, poiché in questo sistema regna l’ineguaglianza, e una delle principali modalità per legittimarla è proprio il razzismo.

Il dibattito sui fascismi contemporanei è in ritardo rispetto alla realtà (vedi anche il libro di Alberto Toscano sul tema), poiché nessuno di questi «nuovi fascismi» è in grado di esercitare una tale violenza o praticare una distruzione su questa scala. Non sono come i loro predecessori, alla guida di una contro-rivoluzione di massa contro il socialismo, per diversi motivi. Il principale: non esiste oggi alcun vero nemico che somigli, neppure lontanamente, ai bolscevichi. I movimenti politici contemporanei non rappresentano alcun pericolo reale, sono assolutamente inoffensivi.

I nuovi fascismi sono marginali rispetto ai fascismi storici e, quando accedono al potere, si schierano immediatamente dalla parte del capitale e dello Stato, limitandosi a intensificare la legislazione autoritaria e repressiva e agendo sull’aspetto simbolico-culturale. Trump (o Milei) rappresenta l’immagine adeguata del «capitalista fascista» perché incarna una parte della classe capitalista e agisce di conseguenza. L’azione di Trump non ha nulla, se non marginalmente, del folclore fascista storico quando agisce a livello geo-politico, mirando a salvare il capitalismo statunitense dall’implosione, mentre invece impone un divenire fascista a ogni aspetto della società americana. Trump coniuga perfettamente capitalismo e fascismo.

Il capitalismo non ha più bisogno, come un tempo, di affidare il potere ai fascismi storici, perché la democrazia è stata svuotata dall’interno a partire dagli anni ’70 (almeno dai tempi della Commissione Trilaterale). È un guscio vuoto che può essere utilizzato in tutti i modi. Produce, dall’interno delle proprie istituzioni – così come il capitalismo dall’interno della finanza e lo Stato dall’interno della propria amministrazione e del proprio esercito – la guerra, la guerra civile, il genocidio.

I «nuovi fascismi» o il «post-fascismo» sono attori di contorno. Non possono in alcun modo intervenire sulle decisioni prese dai centri di potere finanziario, militare, monetario, statale, ecc.; devono solo accettarle. Primo fra tutti il «fascismo italiano».


Come comprendere questa situazione inedita? Essa affonda le sue radici nella fase precedente di accumulazione primitiva che ha organizzato il passaggio dal fordismo al cosiddetto «neoliberismo». Il ciclo strategico organizzato dall’amministrazione Nixon – per far pagare, come oggi, la crisi accumulata negli anni ’60 al resto del mondo – è stato persino più violento dell’azione di Trump: decisione unilaterale di inconvertibilità del dollaro in oro, dazi del 10% a tutti, capitali nipponici messi a disposizione degli USA, l’«accordo» del Plaza che ha saccheggiato il Giappone, la Cina dell’epoca, sacrificando la sua economia per salvare il capitalismo statunitense; la decisione politica di costruire un «super-imperialismo» del dollaro; il ristabilimento politico dei rapporti con la Cina, che sarà decisivo per la globalizzazione contro-rivoluzionaria, ecc..

Uno degli episodi più drammatici di questo ciclo strategico sono state le guerre civili scatenate in tutta l’America Latina che, al tempo stesso, hanno decretato la fine della rivoluzione mondiale e avviato le prime sperimentazioni cosiddette neoliberali. A questo proposito, è interessante riprendere l’analisi del premio Nobel per l’economia Paul Samuelson sul neoliberismo nascente, sempre estromessa.

Si è fatto dell’analisi di Nascita della biopolitica di Foucault una formidabile anticipazione del neoliberismo, mentre, nello stesso periodo, l’interpretazione di Paul Samuelson taglia corto con l’ambigua ammirazione per il mercato, le libertà, la tolleranza verso le minoranze, la critica dei monopoli e della sovranità, la governamentalità, ecc., descrivendo invece l’economia neoliberale come un  «fascismo capitalista», nel senso che con il mercato dei neoliberali i due termini diventano reversibili. Questa categoria, rimossa, potrebbe forse aiutarci a comprendere la genealogia del genocidio democratico-capitalista.


Mi riferisco naturalmente alla soluzione fascista. Se le leggi del mercato comportano un’instabilità politica, allora i simpatizzanti del fascismo ne trarranno la conclusione: «Liberatevi della democrazia e imponete alla società civile un regime di mercato! Poco importa se ciò richiede di spezzare i sindacati o di imprigionare intellettuali scomodi, o ancora di costringerli all’esilio»[2]

Il «mercato», a partire dagli anni Settanta,  ha progressivamente distrutto la democrazia del secondo dopoguerra, l’unica che somigliasse vagamente al proprio concetto, perché nata dalle guerre civili mondiali contro il nazismo. Una volta esaurita questa energia politica, il capitalismo fascista ha iniziato a insediarsi. La logica del «mercato», invece di rappresentare un’alternativa alla guerra e alla grande violenza, le contiene, le alimenta e infine le pratica in prima persona, fino al genocidio.

Nell’era dei monopoli, il mercato – mediazione che si supponeva automatica – rappresenta, in realtà, la fine di ogni mediazione, poiché fa emergere la forza come attore decisivo: la forza dei monopoli, la forza della finanza, la forza dello Stato, la forza degli eserciti ecc. Non solo è stata necessaria la guerra civile per imporre il «neoliberalismo» , ma è all’integrazione della violenza che si affida il suo funzionamento. Il mercato è già, in questo senso, un’economia fascista.

Samuelson sovverte le credenze più radicate: l’economia dei Chicago Boys, di Hayek, di Friedman, ecc., è una forma di fascismo e costituisce un paradigma per l’economia in generale. L’esperienza neoliberale è quella di un’ «economia imposta», esattamente ciò che l’amministrazione Trump tenta di realizzare: un «capitalismo imposto» (altra felice definizione di Samuelson) attraverso la forza.


L’undicesima edizione del 1980 dell’ «Economia» comporta un capitolo consacrato a questo problema detestabile de fascismo capitalista. Per così dire, se il Cile e i «Chicago Boys» non fossero esistiti, sarebbe stato necessario inventarli per erigerli a paradigma. È interessante ricordare ciò che dicevo a proposito – tanto più che i conservatori, che mal sopportano l’evoluzione delle democrazie, sono tuttavia incapaci di andare fino in fondo al proprio ragionamento. Fuggono di fronte alla conclusione che sarebbe la loro, ossia il fascismo, e si accontentano di proporre un limite costituzionale all’imposizione. Questa è la loro versione del capitalismo imposto.

Abbiamo accettato la narrazione liberale, invece di chiederci perché la sua governance sfocia, come nella prima metà del XX secolo, nella guerra, nel fascismo e nel genocidio. Non siamo stati capaci di trarne le dovute conseguenze, eppure siamo passati dalle «libertà» del cosiddetto neoliberismo al genocidio democratico-capitalista, senza colpi di Stato, senza «marce su Roma», senza contro-rivoluzioni di massa, come se si trattasse di un’evoluzione naturale. Nessuno, nell’establishment, e soprattutto non le classi politiche o i media, si è sentito a disagio. Al contrario: questi ultimi si sono allineati con impressionante rapidità a un racconto che contraddice da cima a fondo l’ideologia professata per decenni sui diritti umani, il diritto internazionale, la democrazia contro le dittature, ecc.

Perché tutto ciò si sia svolto senza il minimo problema, è necessario che gli orrori fisici e mediatici del genocidio fossero già iscritti nelle strutture del sistema, il quale, una volta emersi, non li ha considerati un’aberrazione, bensì la sua normalità. Tutto è avvenuto come se fosse scontato. Il capitalismo «liberale» si è, naturalmente e completamente espresso e realizzato nel genocidio, senza la mediazione dei fascisti, senza che questi si costituissero in forza politica «autonoma», come negli anni '20 del XX secolo.

Non vediamo ciò che abbiamo davanti agli occhi, perché abbiamo interiorizzato troppi filtri «democratici», un’idea pacificata del capitalismo che ci impedisce di leggere correttamente ciò che è accaduto con la costruzione del neoliberismo a partire dall’America Latina. Rileggiamo Samuelson tenendo a mente tutti i commenti dei pensatori «critici» che continuano, anche dopo il 2008, a parlare di neoliberismo. Le dittature sudamericane con le migliaia di assassinati, torturati, esiliati, sono solo una variante del fascismo di mercato che prospera nella democrazia.


Vi lascio scoprire la mia descrizione del fascismo capitalista: I generali e gli ammiragli prendono il potere. Eliminano i loro predecessori di sinistra, esiliano gli oppositori, incarcerano i dissidenti intellettuali, limitano i sindacati, controllano la stampa e ogni attività politica. Tuttavia, in questa variante del fascismo di mercato, i leader militari non intervengono nell’economia (...) Gli oppositori del regime cileno hanno chiamato questo gruppo, con una certa ingiustizia, i Chicago Boys, per sottolineare il fatto che molti di loro avevano ricevuto la propria formazione economica all’Università di Chicago o ne avevano subito l’influenza. Questi economisti sono favorevoli ai mercati liberi. Poi l’orologio della storia gira all’indietro. Il mercato è libero, l’offerta di moneta è strettamente controllata. Senza trasferimenti di assistenza, gli operai sono costretti a lavorare o morire di fame. I disoccupati ora mantengono basso il tasso di crescita salariale. L’inflazione può essere drasticamente ridotta, se non completamente eliminata.

In realtà, il mercato «fascista» non ha mai avuto una funzione economica, ma prima di tutto repressiva, poi disciplinare, di individualizzazione del proletariato e di rottura di ogni azione collettiva e solidale. Il mercato è stato una gigantesca costruzione ideologica sotto la quale si svolgeva tranquillamente la predazione operata dal monopolio del «dollaro» e della «finanza», l’esercizio della violenza da parte degli eserciti USA, i veri attori economico-politici del «neoliberismo« che non sono mai stati regolati né governati dal mercato.

Dove possiamo verificare la pertinenza del concetto di Samuelson che implica l’apparente ossimoro di «democrazia fascista»? Facciamo fatica a cogliere la realtà, perché la grande violenza che unisce democrazia e capitalismo cancella, con una facilità sconcertante, i valori dell’Occidente, custoditi nelle sue costituzioni. Il giovane Marx ci ricorda che l’anima delle costituzioni liberali non è la libertà, né l’uguaglianza, né la fraternità, ma la proprietà privata borghese. Verità ineludibile, tanto più in quanto è il «diritto dell’uomo più sacro», come affermato dalla rivoluzione francese. In realtà l’unico vero valore dell’Occidente capitalista.

La proprietà è certamente il mezzo più pertinente per definire la situazione degli oppressi. L’accumulazione originaria messa in atto negli anni ’70 da Nixon ha imposto politicamente un’appropriazione e una distribuzione primarie, stabilendo una divisione della proprietà inedita rispetto a Marx: la sua distribuzione non avviene, innanzitutto, tra capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e operai, privi di ogni proprietà, ma tra i proprietari di azioni e obbligazioni, cioè tra i detentori di titoli finanziari e coloro che non ne possiedono. Questa «economia» funziona come i dazi doganali di Trump: un prelievo di ricchezza sulla società dei «servi», con l’unica differenza che la predazione passa attraverso l’«automatismo», continuamente e politicamente mantenuto, della finanza e del debito.

La società è divisa più che mai: in alto si concentrano i proprietari di titoli, in basso la grande maggioranza della popolazione, che in realtà non è più composta da soggetti politici, ma da «esclusi». Come per i servi dell’ancien régime, la «funzione» economica non implica un riconoscimento politico. L’integrazione del movimento operaio, riconosciuto come attore politico dell’economia e della democrazia, negli anni del dopoguerra, si è trasformata in esclusione delle classi popolari da ogni istanza di decisione politica. La finanziarizzazione ha permesso alle élite di praticare la secessione, che riduce i rapporti con i «servi» esclusivamente a sfruttamento e dominio.  Non solo sono stati espropriati economicamente, ma anche privati di ogni identità politica, tanto da adottare la cultura/identità del nemico: individualismo, consumo, ethos della televisione e della pubblicità. Oggi vorrebbero imporre un’identità fascista e guerrafondaia.

I nuovi servi sono frammentati, dispersi, individualizzati, divisi in mille modi (per genere, razza, reddito, patrimonio, ecc.), ma tutti partecipano in diversi gradi alla società della segregazione instaurata dalla macchina Stato-Capitale, che non ha più nemmeno bisogno di legittimazione, tanto le relazioni di forza le sono favorevoli. Si decide del genocidio, del riarmo, della guerra, delle politiche economiche senza dover rendere conto ai subordinati. Il consenso non è più necessario perché i proletari sono troppo deboli per pretendere di contare qualcosa. È chiaro che in questa situazione la democrazia non ha alcun senso. La condizione degli oppressi assomiglia a quella dei colonizzati (colonizzazione generalizzata) più che a quella dei «cittadini».

Walter Benjamin ci aveva avvertito: «Stupirsi del fatto che le cose che viviamo siano “ancora” possibili nel XX secolo non ha nulla di filosofico. Non è l’inizio di alcuna conoscenza, se non quella che l’idea di storia che l’ha generata non è sostenibile».

Ciò che non è sostenibile è anche una certa idea di capitalismo, coltivata dall’economicismo del marxismo occidentale. Lenin definiva il capitalismo imperialista come reazionario, a differenza del capitalismo concorrenziale nel quale Marx vedeva ancora aspetti «progressisti». La finanziarizzazione e l’economia del debito hanno costruito un mostro che coniuga capitalismo/democrazia/fascismo, il che non pone alcun problema alle classi dominanti. Noi dovremmo interrogarci sulla natura del ciclo strategico del nemico e imporci un solo obiettivo: trasformarlo in ciclo strategico della rivoluzione.

 

 

 

Note

[1] - Dazi doganali che variano tra il 15% e il 50%. La loro riduzione sarà condizionata nel breve periodo all’acquisto di titoli statunitensi che faticano a trovare acquirenti sui mercati.

- I dazi doganali hanno una duplice finalità: economica (gli Stati Uniti hanno bisogno di denaro fresco per coprire i propri deficit) e/o politica (l'India commercia liberamente con la Russia ecc., e il Brasile «prende di mira» Bolsonaro).

 - Obbligo di acquisto di energia statunitense quattro volte più costosa del prezzo pagato ai russi: l'Europa ha promesso di acquistare 750 miliardi di dollari di energia dagli Stati Uniti, che non possiedono questa quantità.

- Obbligo di investire miliardi di dollari nella reindustrializzazione americana (Giappone, Europa, Corea del Sud ed Emirati Arabi Uniti hanno promesso cifre astronomiche; l'Europa, 600 miliardi di dollari, considerati un «regalo» da Trump). Investimenti che saranno a discrezione degli Stati Uniti.

- Obbligo di acquistare armi dal sistema militare-industriale-accademico statunitense, sotto la minaccia di un aumento dei dazi doganali.

 - Il Genius Act autorizza le banche a detenere stablecoin come valuta di riserva per far fronte alle difficoltà di investimento dell'enorme debito pubblico. La condizione politica di queste stablecoin è che siano indicizzate al dollaro e utilizzate per l'acquisto di debito statunitense.

- Il dazio doganale del 39% imposto alla Svizzera colpisce l'oro, di cui è un importante esportatore verso gli Stati Uniti, perché le banche (soprattutto nel Sud) preferiscono acquistare e detenere oro piuttosto che dollari.

 - Obbligo per i produttori di chip di rendere tracciabili le loro esportazioni e, se necessario, di poterle distruggere a distanza (legge in fase di approvazione).

- Esportazioni di tecnologia basate su criteri politici.

- Obbligo di aprire i mercati ai prodotti statunitensi esenti da ogni tassazione, in modo particolare i profitti delle aziende tecnologiche statunitensi non devono essere tassati.

- Libertà di esportare qualsiasi bene statunitense, anche se la legislazione europea lo vieta

[2] Samuelson Paul A. L'économie mondiale à la fin du siècle. In: «Revue française d'économie», volume 1, n°1, 1986. pp. 21-49



***


Maurizio Lazzarato vive e lavora a Parigi. Tra le sue pubblicazioni con DeriveApprodi: La fabbrica dell’uomo indebitato(2012), Il governo dell’uomo indebitato(2013), Il capitalismo odia tutti(2019), Guerra o rivoluzione (2022), Guerra e moneta (2023). Il suo ultimo lavoro è: Guerra civile mondiale? (2024).

3 commenti


hplovely2025
hplovely2025
2 minuti fa
Appreciate your post! If you’re looking for Strands hints, this page is updated daily and makes solving much easier: strands answers today
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musselsjab
9 ore fa

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