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Giorgio Agamben


Giorgio Agamben
Immagine di Roberto Rup Paolini

Fin dalle sue primissime battute, la filosofia di Giorgio Agamben si è impegnata in una profonda critica del pensiero occidentale, studiando la natura nichilistica della sua metafisica, e le sue implicazioni politiche. Strutturandosi attorno a una innovativa ontologia politica, l’oggetto di maggiore interesse è del pensiero agambeniano è l’umano occidentale, la sua azione, la conoscenza, il linguaggio. La combinazione di ontologia politica e critica dell’antropologia occidentale è giunta a produrre, con la serie Homo sacer, una filosofia politica fortemente coinvolta nel rapporto fra la politica e la vita: una biopolitica, in cui è in gioco la stessa definizione della natura umana.


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Giorgio Agamben nasce a Roma nel 1942. Si laurea in giurisprudenza nel 1965 discutendo una tesi sul concetto di persona nella filosofia di Simone Weil. Il suo vero primo incontro con la filosofia, tuttavia, avviene nel 1966 e nel 1968, quando è invitato a partecipare a due seminari tenuti a Le Thor da Martin Heidegger, su Eraclito e Hegel. Sono altrettanto fondamentali lo studio di Walter Benjamin e il metodo di Aby Warburg, con cui il trentaduenne Agamben entra in contatto a Londra presso la biblioteca del Warburg Institute, dove lavora al suo secondo libro, Stanze. Se Heidegger influenza Agamben nello studio critico della metafisica occidentale, e Benjamin è descritto da Agamben come l’antidoto per la filosofia di Heidegger, rappresentando un’ispirazione per la riflessione sul tempo e sulla salvezza, l’ammirazione agambeniana per il metodo di Warburg segna il suo intero lavoro filosofico imprimendogli un carattere fortemente multidisciplinare.

Negli anni londinesi e parigini, l’influenza del metodo di Warburg porta Agamben a preconizzare una «scienza generale dell’umano»: una scienza che, mettendo in dialogo le più diverse discipline, producesse una diagnosi dell’umano occidentale. Agamben scrive di questa scienza dell’umano in un progetto per una nuova rivista culturale – il cui manifesto è posto in appendice a Infanzia e storia –, che avrebbe voluto fondare assieme a Italo Calvino e Claudio Rugafiori, ma che non vedrà mai la luce. In questo progetto, Agamben condensa gli esiti dei suoi primi due libri, L’uomo senza contenuto e Stanze: la rivista avrebbe dovuto collocarsi nello iato aperto fra il «patrimonio culturale», la verità, e la sua «trasmissione», nello spazio nel quale è possibile cogliere, in modo archeologico, i segnali provenienti da una cultura ridotta a «relitto», a monumento abbandonato. L’intento sarebbe stato quello di portare a coscienza la distruzione della trasmissibilità, portando alla luce la trama originaria che struttura intimamente il patrimonio culturale occidentale: un lavoro filologico, in cui la filologia ha la funzione critica di intrecciare le parole provenienti dalle molte discipline e produrre una scienza generale dell’umano. Una scienza che rimane senza nome, ma che è chiaramente quella fondata da Aby Warburg a partire da un superamento dei limiti formalisti ed estetizzanti della storia dell’arte in direzione di una comprensione della «carica energetica» e dell’«esperienza emotiva» agglomerati e tramandati attraverso i simboli. Una comprensione da integrare in una nuova e completa conoscenza dell’umano: egli sosteneva l’urgenza di un approccio congiunto di tutte le scienze umane allo studio dei problemi dell’umano, per produrre, in termini «storici ed etici», una «diagnosi dell’uomo occidentale». Un approccio capace di combinare gli esiti di tutte le scienze umane, per indagare come l’umano occidentale affronti le proprie contraddizioni e edifichi la «propria dimora vitale»: l’obbiettivo è «permettere all’uomo occidentale, uscito dai limiti del proprio etnocentrismo, di rivolgere su di sé la conoscenza liberatrice di una “diagnosi dell’umano” che potrebbe guarirlo dalla sua tragica schizofrenia», cioè riunire la parola poetica, che dice la verità senza conoscerla, e la parola filosofica, che conosce la verità ma non sa dirla.

Tale diagnosi dell’uomo deve essere in grado di combinare una prospettiva diacronica a una sincronica. Alla fine degli anni Settanta, con il libro Infanzia e storia (1978), Agamben inizia a meditare su una nuova esperienza della storia, attraverso una nuova concezione del tempo e una nuova concezione del linguaggio.

L’influenza di Benjamin è particolarmente presente nella riflessione di Agamben sull’umano, all’incrocio fra storia e linguaggio. Benjamin critica la teoria kantiana dell’esperienza e il modello meccanicistico della matematica newtoniana su cui si basa: esse sono la causa della distruzione dell’esperienza nell’umano moderno. Anche per Agamben «l’espropriazione dell’esperienza era implicita nel progetto fondamentale della scienza moderna», che ha ridotto tutta l’esperienza possibile all’esperimento scientifico e ha affidato sia l’esperienza che la conoscenza scientifica a un soggetto unico e astratto, il soggetto trascendentale cartesiano. «La grande rivoluzione della scienza moderna non consistette tanto in un’allegazione dell’esperienza contro l’autorità, quanto nel riferire conoscenza e esperienza a un soggetto unico, che non è altro che la loro coincidenza in un punto archimedico astratto: l’ego cogito cartesiano, la coscienza». La filosofia moderna è alla ricerca delle più solide condizioni dell’esperienza e della conoscenza umane. Agamben ricostruisce il percorso che da Kant e dal suo soggetto trascendentale, dalla fondazione cioè dell’esperienza attraverso la posizione dell’inesperibile, attraversa tutta la filosofia post-kantiana, fino ad arrivare, nel Novecento, all’interrogazione delle condizioni mediante cui «cogliere la “vita” in un’ “esperienza pura”». La domanda costante è relativa al punto di aggancio tra il soggetto e ciò di cui esso può avere esperienza, dove il soggetto possa accedere all’oggetto e alla conoscenza di se stesso. Il Novecento arriva a riconoscere i punti deboli del pensiero moderno: si depone la riduzione tipicamente scientifica dell’esperienza a fatti quantificabili, per ricercare un punto di sintesi, di origine vera e salda dell’esperienza, nel flusso di elementi qualitativi, nella corrente spirituale, mistica e non richiudibile in un discorso scientifico, quantificatore e matematico. La possibilità di risalire più a monte rispetto alla soggettività, verso un’esperienza ancor più originaria di quella riferita al soggetto, è però sempre e solo sfiorata. Anche Husserl, il quale aveva saputo tematizzare la necessità di reperire qualche cosa come un’esperienza in quanto tale, depurata dai limiti della soggettività trascendentale moderna, finisce per riferire tale compito a un ego cogito di natura cartesiana: sebbene egli sia alla ricerca di una esperienza che egli definisce «muta», poi finisce per «identificarla con la sua “espressione” nell’ego cogito».

Agamben, invece, getta il proprio sguardo alle spalle del soggetto, nella convinzione, raggiunta grazie al confronto con la linguistica novecentesca, in particolare con gli studi di Benveniste, che lo spazio davvero originario di esperienza, non sia il soggetto, bensì lo scarto fra l’umano e il linguaggio in cui il soggetto avviene come elemento secondario. «È nel linguaggio che il soggetto ha la sua origine e il suo luogo proprio, e solo nel linguaggio e attraverso il linguaggio è possibile configurare l’appercezione trascendentale come un “io penso”». Dire «io» significa non tanto riferirsi a un’entità determinata o a una determinata classe di enti, come avverrebbe dicendo «albero»: il pronome, come ogni deittico, si riferisce all’atto discorsivo individuale in cui esso è pronunciato e che istituisce il proprio locutore. Se il soggetto è un altro modo per indicare ciò che nel discorso si costituisce come locutore, «un’esperienza originaria, lungi dall’essere qualcosa di soggettivo, non potrebbe essere allora che ciò che, nell’uomo, è prima del soggetto, cioè prima del linguaggio: un’esperienza “muta” nel senso letterale del termine, una in-fanzia dell’uomo, di cui il linguaggio dovrebbe, appunto, segnare il limite».

Davvero originaria non è una qualche apprensione da parte di un soggetto di un mondo oggettivo, bensì l’esperienza dell’infanzia, ciò che avviene prima del soggetto e del suo appropriarsi del linguaggio per dire «io»: il trovarsi abbandonato, privo di una propria voce geneticamente codificata, in un ambiente ricco di segni; un abbandono che non è uno stato soggettivo e psicologico cronologicamente precedente il linguaggio e che cessa quando l’infante apprende il linguaggio, quanto invece l’orizzonte in cui ogni evento di linguaggio avviene, «origine trascendentale» che accompagna come suo orizzonte coestensivo ogni presa di parola. Non tanto un elemento storico ma, anzi l’origine storicizzante, ossia ciò che «fonda la possibilità che vi sia qualcosa come una “storia”».

Il rapporto strumentale dell’umano con il linguaggio, come sua facoltà da utilizzare nell’emissione di messaggi, ne risulta invertito: è solo nel linguaggio e attraverso esso che l’umano si costituisce come soggetto determinato, concreto e storico. Se gli animali sono dotati di una propria voce, di una «lingua» e sono sempre già «in essa», l’umano ha una infanzia, non è già sempre parlante ma si trova in un sistema di segni e simboli che è chiamato a mettere all’opera nel discorso, rendendosi solo così parlante e locutore del determinato discorso. Come aveva scritto l’anno prima, nel 1977, nel suo Stanze, nella coppia linguistica semiotico/semantico, l’umano si trova a dimorare nello spazio della barra che separa e articola i due elementi: l’umano, lungi dall’essere descrivibile, per la sua essenza linguistica, come zoon logon econ, riceve il proprio linguaggio da fuori e solo mettendolo in atto, traducendo il semiotico nel semantico, la langue in parole, operando insomma il passaggio dal sistema di segni in cui si trova abbandonato all’uso, si dà una storia. «È su questa differenza, su questa discontinuità che trova il suo fondamento la storicità dell’essere umano. Solo perché c’è un’infanzia dell’uomo, solo perché il linguaggio non s’identifica con l’umano e c’è una differenza fra lingua e discorso, fra semiotico e semantico, solo per questo c’è storia, solo per questo l’uomo è un essere storico».

Il rapporto fra l’umano e il linguaggio è messo a fuoco quattro anni più tardi, alla riscoperta della struttura più intima della metafisica occidentale: la negatività. Il linguaggio e la morte (1982) è il libro in cui la presenza di Heidegger si avverte maggiormente. Com’era nello stile di Heidegger, Agamben e un gruppo di cinque giovani napoletani laureati in filosofia, fra il 1979 e il 1980, si radunano a Roma, a Siena, a Capri, per otto incontri seminariali. Le riflessioni partono dalla definizione di umano come l’animale, al contempo, mortale e parlante, dotato cioè della facoltà del linguaggio e quella della morte. La compresenza di queste due dimensioni istituisce sulla terra la dimora dell’umano, fondandola in senso negativo: di qui, il carattere irriducibilmente nichilistico della metafisica.

Agamben analizza la particella Da, nell’hedeggeriano Dasein: essa indica in modo puramente negativo la possibilità più autentica per l’umano, l’essere-per-la-morte. In seguito, analizza il diese di Hegel: esso caratterizza in modo puramente negativo the sense-certainty, la quale riduce ciò che vuol dire all’astrazione universale del pronome dimostrativo. La funzione che questi due elementi condividono è quella della deixis, che Benveniste definisce «indicatori dell’enunciazione» e Jakobson chiama shifters, «segni vuoti» che si riempiono di significato quando il parlante li usa in un evento discorsivo. La deixis, dice Agamben, non indica un oggetto della realtà, ma il luogo stesso del linguaggio: «l’indicazione è la categoria attraverso cui il linguaggio fa riferimento al proprio aver-luogo». Assumendo significato solo in un discorso concreto, gli shifters indicano prima di tutto che il linguaggio «ha luogo»: essi indicano l’evento di linguaggio, «all’interno del quale soltanto qualcosa può essere significato».

L’evento di linguaggio ha luogo in una «voce» che proferisce l’enunciazione e l’istanza discorsiva. Essa, come luogo dell’evento di linguaggio, non è riducibile al mero suono, pur non essendo ancora un significato: essa è, piuttosto, la pura intenzione di significate, ovvero la pura indicazione che il linguaggio ha luogo. È lo sfondo su cui il linguaggio significante si staglia: per essere tale, il significato deve cioè respingere sullo sfondo questa pura intenzione di significare, con un movimento negativo, proprio come, nell’ontologia heideggeriana, l’Essere è lo sfondo negativo su cui si stagliano gli enti. L’umano, originariamente infante, si rende umano e soggetto solo nel momento in cui proferisce Io: questo evento, per significare alcunché, deve lasciare sullo sfondo l’intenzione di significare che, come una domanda inesorabilmente aperta, caratterizza lo stare al mondo dell’umano. Questo movimento negativo, che respinge sullo sfondo la «Voce», l’aver-luogo del linguaggio come tale, è la fondazione del linguaggio: la Voce «è fondamento, ma nel senso che essa è ciò che va a fondo e scompare, perché l’essere e il linguaggio abbiano luogo». La Voce è il fondamento muto, l’indicibile intenzione di significare che viene negata perché il linguaggio possa avvenire nel mondo.

L’umano non è, per Agamben, l’essere dotato di linguaggio, ma l’animale che si ritrova gettato in un sistema di segni con una domanda aperta alla quale intende rispondere: il linguaggio, che l’umano riceve dall’esterno, è l’orizzonte trascendentale in cui l’infante umano trova corrispondenza alla propria intenzione muta di significato, in primo luogo per farsi umano, per dichiararsi soggetto e per darsi una forma di vita e, così, una storia. La fondazione è sempre un atto negativo, e questo significa, in termini etici e politici, una dimensione negativa di ogni atto ontologico. A meno di non risalire all’orizzonte senza volontà e senza voce, all’infanzia, dove ogni fondazione negativa è sospesa, e l’umano conserva intera la propria totipotenza, impedendo la sua caduta in una qualche forma di vita in atto.

L’umano non è, per Agamben, un essere naturale, bensì qualche cosa che storicamente viene prodotto. L’umano viene fondato e deciso. Nell’introduzione a Il linguaggio e la morte, in una nota a piè di pagina Agamben scrive: «Il termine metafisica indica, nel corso del seminario, la tradizione di pensiero che pensa l’autofondazione dell’essere come fondamento negativo. Resta, pertanto impregiudicato il problema della possibilità di una metafisica integralmente e immediatamente positiva». Come dimostrerà l’analisi della Voce, la metafisica occidentale può fondare le proprie positività in atto solo in modo negativo, respingendo nell’oblio l’orizzonte potenziale e tagliandolo violentemente con la decisione di ciò che potrà passare all’atto. Nell’excursus che conclude il libro, Agamben descrive questa dinamica ontologica con parole che anticipano il lessico della serie Homo sacer, inaugurata nel 1995.

L’umano non è un essere dotato di un destino naturale, non ha alcun fondamento stabile e universale. L’umano è assolutamente infondato e può dare un significato alla propria essenza e alla propria azione solo mediante un’azione così violenta da tracciare un confine ontologico e normativo fra ciò che è umano e ciò che non lo è, fra ciò che è dentro il dominio del lecito e ciò che non lo è. Questa azione decisiva è il sacrificio, dal latino sacrum facere. «Al centro del sacrificio sta, infatti, semplicemente un fare determinato che, come tale, viene separato e colpito da esclusione, diventa sacer ed è, perciò stesso, investito da una serie di divieti e di prescrizioni rituali. Il fare interdetto, colpito da sacertà, non è, però, semplicemente escluso: piuttosto esso è, d’ora in poi, accessibile soltanto per certe persone e secondo regole determinate». È da questa posizione paradossale che l’azione sacrificale dà inizio a ogni prescrizione ontologica e normativa. Il paradosso, che in Homo sacer prenderà il nome schmittiano di «eccezione», risiede nel fatto che il sacrificio è, al contempo, escluso dalla sfera di comune accessibilità e presupposto come orizzonte di significato da ogni azione possibile. Nei termini di Homo sacer, il sacrificio è in un margine fra il dentro e il fuori, incluso solo in quanto oggetto di esclusione. «L’infondatezza di ogni prassi umana si cela qui nell’essere abbandonato a se stesso di un fare (di un sacrum facere), su cui si fonda, però, ogni lecito fare: esso è ciò che, restando indicibile e intramandabile in ogni fare e in ogni parola umana, destina l’uomo alla comunità e al tramandamento», ovvero alla frammentazione in comunità dotate di un destino storico. Qui risiede la violenza nichilistica dell’ontologia occidentale: nella presupposizione, nella decisione attraverso l’abbandono in una zona di indecidibilità, nell’esclusione.

In questa regione marginale, ogni cosa può essere decisa – è dove risiede il sovrano – e ogni cosa può accadere – è dove la vita è abbandonata perché il suo destino sia deciso: è una regione di massima potenzialità e la decisione la attraversa per stabilire ciò che passerà all’atto e ciò che verrà escluso. In Linguaggio e morte per la prima volta Agamben usa il concetto di sacertas e il concetto benjaminiano di nuda vita, anche se qui si parla di «nuda vita naturale» mentre in Homo sacer la nuda vita è il prodotto dell’eccezione sovrana.

Sebbene Agamben rifletta sui risvolti politici dell’ontologia occidentale già nel 1990 nella raccolta di brevi testi La comunità che viene, la vera svolta politica avviene con la pubblicazione del primo volume della serie Homo sacer, nel 1995. Quel libro inaugura una serie di nove libri, che si conclude solo nel 2015, che sarà tradotta in tutto il mondo e farà di Agamben un punto di riferimento per la filosofia politica. L’obiettivo dichiarato è quello di correggere o almeno completare il lavoro di Michel Foucault sulla biopolitica attraverso una critica dell’ontologia occidentale e delle istituzioni sovrane a cui essa dà forma. Come si è anticipato, per far questo Agamben fa proprio il vocabolario politico-giuridico di Carl Schmitt, descrivendo la struttura ontologica occidentale sul calco della sovranità descritta dal giurista tedesco.

La tesi fondamentale sottesa al progetto ontologico-politico agambeniano è questa. I Greci non avevano un unico termine per esprimere il concetto di vita, ma distinguevano, da un lato, la zoé, il semplice fatto di vivere che accomuna tutti gli esseri viventi, e, dall’altro lato, la bíos, ossia «la forma o maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo», «una vita qualificata, un particolare modo di vita». Se quest’ultima circolava nella polis, la zoé ne era esclusa, rimanendo rinchiusa entro le mura casalinghe. Michel Foucault, nel suo La volontà di sapere (1976), affermava che questa distinzione si sarebbe persa con l’età moderna, quando la vita naturale sarebbe stata inclusa «nei meccanismi e nei calcoli del potere statuale»: la specie umana e l’individuo come corpo vivente avrebbero iniziato a rappresentare la posta in gioco precipua della politica, con una sorta di animalizzazione dell’uomo da parte del nascente capitalismo. Rintracciando la radice ontologica di questa dinamica, Agamben estende la tesi di Foucault a tutta la storia politica occidentale: questa è da sempre biopolitica, sebbene il coinvolgimento della vita da parte del potere sia diretto ed esplicito solo in epoca moderna. Quella che, a un primo sguardo sulla politica antica, sembra un’opposizione fra zoé e bios è, a ben vedere, un’implicazione. La nuda vita, presente nello spazio di frontiera fra queste due, rende possibile questa distinzione-implicazione: essa non è né vita naturale né vita qualificata, quanto piuttosto la forma della vita naturale politicizzata dalla mossa che la implica nella sfera politica in quanto da essa esclusa. La vita politicamente qualificata si definisce proprio come esclusione della nuda vita, ossia della vita naturale che, essendo prodotto di una dinamica politica, non può più essere definita come vita naturale tout court. Una vita naturale la cui politicizzazione si fa, invece, esplicita e diretta in epoca moderna.

La correzione della tesi foucaultiana consiste, perciò, nell’osservazione che la politica occidentale è sempre stata una biopolitica, produzione di nuda vita, di figure in cui vita naturale e vita politica perdono i loro confini distintivi; una produzione di nuda vita, di vita politicizzata, finalizzata a circoscrivere l’ambito d’azione proprio della politica. E quanto è avvenuto in epoca moderna non è stato altro che un accentramento della nuda vita all’interno delle operazioni di governo degli uomini. In epoca antica essa è situata al margine dello spazio politico, nell’eccezione, laddove la modernità la fa coincidere con il compito precipuo della politica: la nuda vita «si libera nella città e diventa insieme il soggetto e l’oggetto dell’ordinamento politico e dei suoi conflitti». Mediatamente o immediatamente politicizzata, la nuda vita è una vita che non è meramente naturale, essendo già politica senza tuttavia esserlo a pieno titolo: essa è politica nella misura in cui è pienamente disponibile alla potenza politica, che su di essa fa transitare il limite fra la vita della città e una «incondizionata uccidibilità».

Per Agamben, la politica come la conosciamo ha origine nello iato in cui si articola il conflitto fra ciò a cui egli si riferisce variamente come «l’animalità e l’umanità dell’uomo», «la nuda vita e l’esistenza politica», la «voce animale» e il «linguaggio umano», «l’essere vivente e l’essere parlante». La metafisica occidentale costruisce l’umano attraverso il superamento della sua natura animale, sul meta che oltrepassa la physis naturale: come si legge ne L’aperto, libro del 2002, l’antropogenesi non è un processo storico compiuto una volta per tutte, ma la costante decisione fra umanità e inumanità dell’uomo. Questo conflitto, infatti, dà vita a un equilibrio molto fragile fra categorie ontologiche, in cui l’essere umano come essere razionale e politico dotato di linguaggio rischia costantemente di collassare nella categoria contro cui è definito.

Per il pensiero occidentale, fin da Aristotele, la vita è «ciò che non può essere definito, ma che, proprio per questo, deve essere incessantemente articolato e diviso». Articolazioni e divisioni attraversano l’umano stesso, in cui la vita organica è separata dalla vita animale in relazione con il mondo esterno. Una cesura fondamentale attraversa l’umano, distinguendo e articolando corpo e anima, vivente e logos, la dimensione naturale e quella sociale: due poli che coabitano senza mai coincidere. L’umano è ciò che risulta da questa irriducibile sconnessione, ciò che si genera da questa frizione all’altezza della frontiera mobile fra queste due dimensioni. Agamben chiama il meccanismo di riconoscimento dell’umano, di decisione di cosa sia umano e cosa no, «macchina antropogenica o antropologica»: essa è il meccanismo mediante cui l’umano, essere senza un’essenza definitiva, si riconosce e si ridefinisce costantemente. «La macchina antropologica dell’umanesimo è un dispositivo ironico, che verifica l’assenza per Homo di una natura propria, tenendolo sospeso fra una natura celeste e una terrena, fra l’animale e l’umano – e, quindi, il suo essere sempre meno e più che se stesso».

Questa macchina produce un’opposizione tra umano e non umano, includendo il non umano come ciò che deve essere escluso per far emergere l’umano. Si produce quindi una zona di indeterminazione, un’eccezione in cui dentro e fuori possono definirsi reciprocamente: mentre in età antica, la macchina antropologica produceva l’uomo umanizzando l’animale, in età moderna essa genera l’umano animalizzando l’umano, espellendo come non umano ciò che è umano. E per operare in questo modo, la macchina antropologica produce sempre «nuda vita», vita abbandonata attraverso la quale far passare la decisione sull’umano.

Agamben fa riferimento alle analisi sviluppate da Heidegger nel corso Concetti fondamentali della metafisica (1929-1930). Heidegger, ispirandosi all’etologia di Uexküll, affermava che gli esseri inanimati come le pietre sono «privi di mondo», gli animali sono «poveri di mondo», mentre l’umano è «formatore di mondo»: l’animale è povero di mondo perché è chiuso nel proprio ambiente, dotato di un numero limitato di possibilità. L’umano è formatore di mondo perché può evadere da questa chiusura, disattivando tutte le possibilità determinate e limitanti: l’umano può vivere l’esperienza della pura potenza, dell’apertura massima delle possibilità in cui ogni potenza si presenta come impotenza. L’aperto è la sospensione da parte dell’uomo della propria animalità, per accedere a «una zona “libera e vuota” in cui la vita è catturata e ab-bandonata in una zona di eccezione». Sebbene Heidegger si sia avvicinato alla disattivazione della macchina antropologica, «è stato forse l’ultimo filosofo a credere in buona fede che il luogo della polis – il polos dove regna il conflitto fra latenza e illatenza, fra l’animalitas e l’humanitas dell’uomo – fosse ancora praticabile, che – tenendosi in quel luogo rischioso – fosse ancora possibile per degli uomini – per un popolo – trovare il proprio destino storico». Agamben invece si dirige verso una redenzione messianica dell’umanità, con Benjamin.

La critica ontologico-politica di Agamben apre alla possibilità di una trasformazione dei meccanismi ontologici e normativi, che porta a un cambiamento nel nostro rapporto con la vita. Agamben ne parla come di una disattivazione, che renda inoperativa la macchina antropogenetica: si tratta in primo luogo di abbandonare l’idea di una qualche realizzazione dell’essenza umana nel lavoro, nella filosofia, nella politica rivoluzionaria, nella biologia, in tutte quelle pratiche storiche che concorrono a definire l’uomo attraverso il gioco di scissioni tipico della metafisica.


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Carlo Crosato è dottore di ricerca in Filosofia, attualmente è cultore della materia presso l’Università degli Studi di Bergamo. Collabora con «L’Espresso», «il manifesto», «il Foglio», Radio Radicale. Il suo libro più recente è Critica della sovranità (Orthotes 2019)

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