Pubblichiamo un dialogo tra Paolo Virno, Marco Mazzeo e Adriano Bertollini sul rapporto tra generi letterari e filosofia della storia.
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Cambiare punto di vista
Il tema al centro del seminario, il rapporto tra generi letterari e filosofia della storia, non costituisce uno svago erudito o il diletto con cose belle in attesa che l'universo muoia. L'obiettivo è affrontare in modo indiretto, e per questo efficace, lo stato di crisi del mondo contemporaneo, vale a dire il pregiudizio che la storia sia finita. Una delle difficoltà del pensiero critico odierno è d'incagliarsi presso sintagmi chiave («crisi», «servitù volontaria», «fine dello Stato nazionale») che suonano ovvi (descrittori veritieri di stati di cose) eppure inefficaci. Alla diagnosi del malanno segue con difficoltà l'invenzione di una cura. L'obiettivo è affrontare in modo radicale alcuni problemi di fondo della vita nell'epoca del tardo capitalismo. Lavorare sul rapporto tra generi espressivi e modi della storia sarà un modo per prendere alle spalle e cogliere di sorpresa alcune delle questioni filosofiche più urgenti; allestirà un banco di prova per un'analisi delle attuali forme di vita che sia critica, certo, ma non reattiva.
Un bel matrimonio
Qual è lo scenario che occorre assaltare per via indiretta? Per amor di sintesi, potremmo dire che oggi abbiamo la fortuna di assistere a un matrimonio in grande stile. Il riduzionista, tutto scienza e neurofisiologia, prende la mano dello studioso postmoderno, l'esaltatore delle mille differenze che animerebbero la struttura inscalfibile del mondo mercantile. I nemici di un tempo (lo saranno mai stati davvero?) non solo depongono le armi, ma uniscono i loro occhi in un unico sguardo.
La fede che suggella le nozze è rappresentata da un punto teorico riassumibile in una riga: storie, dunque non più storia. Tra la narrazione verbale e la trasformazione istituzionale-produttiva tipiche dei sapiens gli sposini predicano un rapporto di sostituzione. Il postmoderno ricorda che, in fondo, quel che diciamo sono tutte storie perché la dimensione storica umana è giunta a compimento nell’epoca del capitalismo maturo. «C’è dunque un racconto da fare» esortava Rovatti[1] nei primi anni Ottanta. Nel guardarsi indietro, possiamo ritrovare d'altro canto le categorie antropologiche odierne legate a un'economia intuitiva che coinciderebbe, guarda caso, con quella neoliberale. Scrive il docente di Storia ad Harvard innamorato della neurofisiologia più riduzionista: «ciò che queste costruzioni rivelano è una società paleolitica con un'economia basata in larga misura su una singola merce [sic!], la caloria».[2] Il mondo non può cambiare perché in fondo non sarebbe mai cambiato.
A forza di parlare di storie, a finire nel cassetto è la storia. Visti i tempi difficili nei quali ci troviamo a vivere, meglio chiarire il senso della parola. Per «storia» non deve intendersi il moto astrale dei pianeti, il tempo geologico della deriva dei continenti o quello che segna la nascita della vita sulla Terra. Con «storia» ci si riferisce al tempo delle rivolte e delle restaurazioni, della guerra e della pace, dei cambiamenti delle modalità produttive e delle forme istituzionali. Con questo termine si allude alla specificità ineludibile del tempo dei sapiens: «l'uomo è nella storia anche quando pretende di uscirne con il comportamento mitico-rituale».[3]
Attenzione, però. Riscoprire la categoria antropologica ed etico-politica della storia non coincide con alcun tipo di storicismo progressista: nessuna idea che la storia abbia in seno una legge di miglioramento continuo o un andamento prevedibile (circolare o rettilineo poco importa) che la renda «dell'umanità stessa (e non delle sue abilità e conoscenze)», «inarrestabile» e «interminabile».[4] Significa ribadire la semplice idea, che oggi tanto semplice non è, che il tempo umano si caratterizzi per la sua struttura discontinua. Dormiente e tutta potenziale nelle cosiddette società «fredde»,[5] incastonate in una bolla apparentemente senza tempo tutta tradizione e rituale; a salti e per accelerazioni nel secolo secondo alcuni brevissimo del Novecento; congelata in un eterno qui ed ora nel cosmo neoliberale.
Questioni di genere
La «strana commistione che si sta creando tra romanzo e biologia»[6] pone un interrogativo. E' possibile descrivere una relazione meno caricaturale tra dimensione storica della vita umana e la nostra attitudine al racconto? La sfida è tutt'altro che banale poiché racchiude in sé più di un problema. Il seminario propone di affrontarne la varietà e l'intersezione. Occorre, in primo luogo, smarcarsi da una semplificazione. Il modo, postmoderno e dunque riduzionista, di vedere la faccenda elogia la diversità delle forme narrative solo in apparenza. Esalta la variabilità di storie raccontate dagli umani (dall'analisi darwinista dell'Iliade» al «comportamento dell'artista» contemporaneo[7]) che, alla fin dei conti, sarebbero tutte dello stesso tipo. Il postmoderno riduzionista è un allievo disciplinato di Benedetto Croce: salta a piè pari il problema del genere letterario. La riscoperta della nozione potrebbe aiutarci, almeno in via provvisoria, a una riformulazione. La nozione di genere letterario insiste sul fatto che i racconti non hanno tutti la stessa forma e, soprattutto, non hanno la stessa funzione. Il genere letterario è una nozione costitutivamente anti-eclettica: non è vero che tutto stia bene con tutto. Il rapporto tra generi è, non a caso, di reciproco scontro: «il romanzo e la novella sono forme non solo di genere diverso ma intrinsecamente opposte» esordisce il formalista russo[8]; esisterebbero «due specie di favole del tutto diverse, sia per origine che per funzione», ribadisce Vygotsky[9]; si danno «tre tipi di unità romanzesca», classifica Bachtin[10]. Per il postmoderno riduzionista, la differenza tra generi letterari è riconducibile alla differenza che sussiste tra le diverse tessere di un puzzle. Ogni genere contribuisce a dire una cosa che s'integra con l'altra affinché lo spazio del dicibile sia coperto interamente dall'immagine del suo racconto. Nella quarta di copertina de Il nome della rosa Umberto Eco ha il merito di esplicitarlo: «se l'autore ha scritto un romanzo, è perché ha scoperto, in età matura, che di ciò di cui non si può teorizzare, si deve narrare». La riformulazione della chiusura del Tractatus di Wittgenstein diventa un modo per insistere sull'intervento di una narrazione che sostituisca la teoria. Apprezzabile, ma da sciogliere, l'ambiguità del sintagma. Cosa significa che la narrazione sostituisce la teoria? Che la teoria è morta, dunque si potranno solo narrare fatti di cronaca ed episodi inventati? Oppure, al contrario, che la narrazione è essa stessa teoria e che, dunque, l'opposizione tra romanzo e racconto o tra favola e fiaba esprime una questione filosofica ed etico-politica?
Per un verso, è possibile pensare alla narrazione come sostituto tout-court della prassi: racconto e per questo non agisco; dico per non fare. In questo senso, la narrazione osannata dal postmoderno riduzionista pare la semplice espressione dell'impotenza etico-politica del tempo cui apparteniamo. Per un altro, non è escluso che i diversi generi narrativi possano costituire (e abbiano costituito in passato), al contrario, prototipi dell'azione umana: paradigmi dell'agire, modalità di trasformazione del mondo. Il rischio è di confondere la mancanza di novità nel mondo contemporaneo col gusto chic di chi riconosce solo quel che gli è già noto.
Esiste, ad esempio, una relazione tra il racconto lungo romanzesco e la rivolta totale («lunga per l'appunto») della rivoluzione? Può darsi un analogo tra la short story che gli si contrappone e forme non più novecentesche di conflitto politico e trasformazione istituzionale? L'attuale proliferazione di generi narrativi a carattere ibrido come le serie televisive, le più recenti forme del fumetto o d'espressione musicale coincide con una decadenza manierista dei tipi del Novecento? Oppure può contenere forme embrionali di nuove strutture della rivolta, bozzoli di inedite tonalità etico-politiche? Quali sono i generi letterari o le forme della narrazione più adatti a cogliere il caleidoscopico mondo contemporaneo? Quali caratteristiche strutturali rendono una modalità narrativa acconcia a un racconto del presente in cui viviamo? Cosa invece è interdetto? È lungo la sottile lama di questo rasoio che il seminario cercherà d'intraprendere il suo cammino.
Note
[1] P.A. Rovatti, Trasformazioni nel corso dell'esperienza, in G. Vattimo, P.A. Rovatti (a
cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 47,
[2]D.L. Smail, On Deep History and the Brain, University of California Press, Oakland 2008 (trad. it. di L. Ambasciano, Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 209).
[3] E. De Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 1977-2002, p. 268.
[4] W. Benjiamin, Sul concetto di storia, in W. Benjamin, Opere complete, VII, Einaudi, Torino 2006, p. 490.
[5] C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Plon, Paris 1962 (trad. it. di P. Caruso, Il pensiero selvaggio, il Saggiatore, Milano 1964).
[6] M. Cometa, Letteratura e darwinismo. Introduzione alla biopoetica, Carocci, Roma 2018, p. 35.
[7] Ivi, p. 155 e 205.
[8] B. Ejchenbaum, Leskov i sovemennaja Proza e O. Genri i teorija novelly, 1927 (trad. it. di C. Riccio, Teoria della prosa, in T. Todorov, a cura di, I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, Einaudi, Torino 2003, p. 239).
[9] L. Vygotsky, Psichologija iskusstva, 1922 (trad. it. di A. Villa, Psicologia dell'arte, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 134).
[10] M. Bachtin, Voprosy literatury i estetiki, Izdatel'stvo, Moskva 1975 (trad. it. di C. Strada Janovič, Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 2001, p. 233).
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