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Furio Jesi, maestro in esilio



Furio Jesi, Frammenti infantili, tempera su carta, fine anni '50 o primi '60

Un ritratto di Furio Jesi, figura eclettica e originale del Novecento italiano, che con la sua opera ha demolito e ricostruito la «scienza del mito» di marca positivista e storicista.


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Se dovessimo indicare una forma simbolica che condensa l’opera, il pensiero e la vita di Furio Jesi, mitologo, germanista, filologo, critico letterario, traduttore, poeta, etnologo del sapere, scomparso nel 1980 per un maledetto incidente domestico, questa forma sarebbe quella di una costellazione.

La costellazione è la figura chiusa in una dispersione di stelle che sono i bagliori che illuminano la terra inesplorata dei miti antichi e dei profili ancestrali che dall’Oriente hanno arricchito l’Occidente. La costellazione è l’insieme di stelle, ognuna è un’opera, che fà giorno a mezzanotte nella zona impervia, tragica e irrappresentabile della storia della cultura. La costellazione è ancora la figura rivoluzionaria prediletta da Walter Benjamin ed è una delle tracce segrete del lavoro di Jesi in cui ebraismo, esilio e critica storica trovano un passato che li accomuna.

Polvere di stelle, immagine dialettica, sensibilità per l’esperienza ed erudizione sono in Jesi gli indici di senso che hanno riformulato la materia mitologica, scardinandone l’architettura storicista che la tradizione di studi ottocentesca consegnava all’antropologia post-bellica.

Solo per quest’opera di demolizione e ricostruzione di una scienza del mito – che il positivismo aveva fatto rientrare a forza nella ragione come un episodio delle scienze dello spirito e che lo storicismo tedesco aveva incastrato tra le sopravvivenze di un continente indoeuropeo virtuale – Jesi avrebbe meritato una posizione di primo piano nella cultura italiana della seconda metà del '900.

Invece, per un tipico rovesciamento di valore, il suo sapere, la sua opera e la sua pratica di vita non hanno quasi lasciato traccia e la sua prematura scomparsa invece di dare senso all’enorme estensione dei suoi testi è stato uno dei motivi dell’oblìo.

Il recente interesse editoriale per la sua opera restituisce a frammenti, forse in sintonia con la miriade di temi di ricerca che Jesi ha indagato, l’impulso originario del suo fare. Le urgenze che hanno animato un’opera incessante, frastagliata e puntuale, sono restituite ad una lettura partecipe ma raramente condivisa.

La riedizione dei suoi testi e la pubblicazione degli inediti, centellinata per misera volontà del mercato editoriale italiano, continuano a lasciare Jesi nel residuo di un sapere inutile. La riscoperta del tratto magistrale della sua opera non arriva a richiamare dall’esilio né il metodo, né la materia, né le letture di quella «scienza senza nome» che è la mitologia – nel senso più largo in cui si consuma quest’ultima modernità – , i piccoli miti d’oggi in cui traspare il limite di ogni tentativo di reincanto del mondo. Invece di considerare la sua opera come un laboratorio di pratiche di scrittura e di conflitto, se ne considera l’accesso critico come esproprio di un «dominio» di cui ci si ritiene unici proprietari.

La riscoperta d’archivio che dagli inizi di questi anni Duemila ha generato ripubblicazioni e saggi critici, ha evidenziato soprattutto due indici storico-culturali nell'opera contaminata e anti-disciplinare del mitologo: la macchina mitologica e la presa di posizione teorico-politica sull’uso della prassi critica e delle categorie di rivolta e di rivoluzione. La macchina automatica vuota e centripeta del mito come oggetto della mitologia e l’interpretazione del tempo storico come luogo contemporaneo, sono stati i nuclei di lettura che hanno dimostrato la portata, l’intensità e la direzione dell’opera di Jesi.

Per questi motivi rivolti all’attualità Jesi è stato restituito alla sua storia, al momento di rottura delle discipline e delle scienze umane nei primi anni Sessanta del secolo scorso, alle rivolte del sapere e alle lotte degli anni Settanta e alle insurrezioni della narrativa e della poesia nella sperimentazione critica.

Tuttavia, per questi stessi motivi i luoghi in cui la sua opera ha trovato nuova evidenza sono segnati dall’attualizzazione: un’opera utile per leggere il presente politico; un eclettismo antidogmatico; una raffinata e sintetica capacità di analisi di eventi antichi e moderni che sono fenomeni e non fatti di cultura. Ma proprio questa attualità consente, a rovescio, uno sguardo inattuale sull’opera di Jesi. L’ «ora della leggibilità» dei suoi argomenti apre uno sguardo archeologico che, a partire dalle emergenze del presente risale al momento originale vissuto dal mitologo.

L’erranza, la fiaba, il romanzo fantastico; l’indisponibilità della rivolta ad essere rinchiusa nello spazio che la teoria critica le assegnava; l’esperienza del mito antico e l’ampio spettro della critica sono riportate al tempo della festa, al rito che libera l’identità e le eredità dalla gelosa nicchia accademica e dalla proprietà esclusiva dell’archivio.

Per questo l’archeologia cercherà nelle differenze dei temi la permanenza degli argomenti; nella dispersione dei luoghi della cultura una conoscenza transitiva e nella comprensione estetica il ritmo dell’esistenza.

La critica del mito, della cultura italiana del fascismo, della letteratura mitteleuropea e della «Germania segreta», la festa e la rivolta, la tragedia e la poesia,  Mann e Rilke come educatori, Frobenius e Bachofen come studiosi affetti dal mito – e soprattutto l’esperienza diretta di quanto di indicibile attraversa le topografie irrazionali rimosse o negate, o considerate residui barbari della tradizione europea – tutti i materiali mitologici essenziali, Jesi, facendoli emergere con un gesto minuzioso da entomologo li ha strappati di mano alla «cultura della destra» rendendoli disponibili alla ricerca.

Risveglio nel presente di una razionalità e di una critica del mito che ne consentano l’accesso nella distanza dal tempo mitico; revoca del modo storicistico di affrontare i racconti di dei, eroi e uomini divini; risalita verso l’origine dei miti in cui si fondono pensiero e poesia, racconto e meditazione, piacere e amicizia, tragico e dionisiaco; indicazione del tempo mitico e della costituzione dei miti nella letteratura e nel discorso, nella regola e nell’organizzazione del tempo moderno, laddove raccontare storie è esigenza fondativa del «perché» della natura e del «come» delle cose. L’insieme di questi elementi di metodo che scarta l’affronto filologico al senso dei miti e delle favole ed evita l’attualità del mito al pari della sua riduzione alla sfera accademica della scienza, sono all’opera nei diversi capitoli della ricerca di Jesi, capitoli che narrano il tempo discontinuo nella composizione di testi del passato e della modernità.

Furio Jesi nasce a Torino il 19 marzo 1941 da Bruno e Vanna Chirone. Il padre, che discendeva da un’antica famiglia rabbinica, fece parte del Consiglio delle Comunità ebraiche di Roma. Ufficiale di cavalleria, morì nel 1943 per i postumi delle gravi ferite riportate durante la guerra d’Etiopia.

Furio cresce con la guida della madre Vanna, insegnante, frequentando la ricca biblioteca degli zii paterni che possedevano anche una cospicua collezione di opere d’arte e reperti archeologici. Si forma rapidamente una vasta cultura storico-artistica, archeologica e letteraria e, soprattutto per la scarsa motivazione che trae dalla scuola, abbandona il liceo classico. Tra il 1954 e 1957 prosegue autonomamente gli studi da antichista, a Bruxelles presso la Fondation égyptologique Reine Elisabeth, quindi a Hildesheim presso il Pelizaeus Museum con reiterati viaggi in Grecia e in Asia Minore. Il 1956 è l’anno della prima pubblicazione, assieme a Vanna Chirone, Racconti e leggende dell’antica Roma, per l’editore S.A.I.E. di Torino, che due anni dopo dà alle stampe La ceramica egizia dalle origini all’età tinita con l’introduzione dell’egittologo Pierre Gilbert.

Nel 1958 a 17 anni sostiene uno scambio epistolare con il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni intorno all’ipotesi di un legame tra il dio egizio Bes e i riti di iniziazione. Illustra questa nuova interpretazione del dio «iniziatore» accennando, tra l’altro, ai fenomeni di passaggio dal rito al gioco e alla reversione del mito (il dio diventa demone malvagio).

Il gusto «astratto» è espressione formale della commozione secondo una teoria delle sopravvivenze in cui è espressa una ricerca geniale. L’identità di magia ed aisthesis, intento rituale e impronta sensibile, indica come dal momento in cui viene a mancare il carattere rituale continua a vivere la sua espressione formale.

Apparentemente, nell’indistinzione di espressione del rito ed espressione estetica, il rito affonda e diviene fondamento artistico e artigianale; in realtà le sopravvivenze sono i resti fantastici di questo movimento dell’origine replicata nel punto di insorgenza dei racconti.

La commozione, il paideuma scoperto dall’etnologo Leo Frobenius, cioè l’elaborazione della passione nella cultura occidentale, è ritrovata nel simbolo «riposante in sè stesso» elaborato da Bachofen; ma la ricerca orienta soprattutto un’inedita archeologia che disdice le letture dell’antropologia positivista e la stucchevole identificazione di Wilamowitz ai gesti delle figure mitologiche.

Nel 1964 l’incontro con Kerényi contribuisce alla nascita di un altro sguardo sui «primitivi» e sulla religione greca rispetto al sospettoso controllo su filosofi e antropologi considerati pericolosi «irrazionalisti» da parte di Ernesto De Martino, Remo Cantoni, Ranuccio Bianchi Bandinelli che decise la censura della «Collezione viola» einaudiana di studi storici e antropologici diretta da Cesare Pavese.

Si trattava infatti di distinguere una sorta di mitologia antropologica dall’antropologia culturale e dalla successiva antropologia critica, facendo evaporare i confini dell’archeologia e della scienza del mito, della deliberata costruzione di figure e archetipi e della razionalità, riportando la fenomenologia del mito alle proprie condizioni di esistenza: operazioni magiche e religiose sulla realtà; volontà di racconto dell’inesplicabile; trasposizione di nuclei mitologici originari nell’oralità in cui erano fusi comunità e nomadismi, eredità e domini, tradizioni e dinastie.

L’esempio più vivido di questa scansione è nella voce Mito, composta per l’Enciclopedia Filosofica Isedi di Milano nel 1973, ampliata nella pregevole edizione curata da Giulio Schiavoni e ripubblicata di recente. In quel saggio, vera perla di sapere, l’esposizione storica della mitologia è articolata nelle tesi che si sono succedute dall’epoca di Omero ed Esiodo allo strutturalismo. La voce è il condensato dell’impressionante sapere mitologico, etnologico e storico-religioso di Jesi e permette di esemplare gli episodi della scienza del mito in cui si riconosce la vicenda moderna delle scienze umane.

La svolta impressa dalla modernità al sapere sul mito rompe le dipendenze della mitologia dalla religione e dai saperi dispersi e occasionali:

 

Lo «studio del mito» non può essere che moderno: la parola «mito», a differenza della parola greca mythos...non corrisponde univocamente all’oggetto indicato dalla parola «mitologia»...ed è appunto da studiare, non potendo più essere direttamente e semplicemente accolto.

 

Lo sviluppo successivo di una scienza del mito tra la seconda metà del XVIII e la prima metà del XX secolo si configura come la genealogia di un nuovo soggetto-ricercatore implicato nella crisi del metodo storico di cui nella seconda parte del saggio Jesi illumina l’orizzonte.

Chi scavalcava d’un balzo le diatribe intorno alla scienza dei dati di fatto contrapposta al sentimento del mito era Mircea Eliade. Il suo pensiero superava l’articolazione di metodo che pure lo spingeva a identificare il tempo mitico con la temporalità del ritorno di ciò che è più essenziale. Nel Mito dell’eterno ritorno compare la rilettura del dolore e dell’astio, dei conflitti e dei terrori come condizione storica da cui gli uomini si defendono con i miti.

Questa scoperta non prevede da parte dello storico delle religioni un giudizio sulla storia, non almeno un giudizio politico, ma il giudizio del moralista rispetto alla confluenza del passato e del futuro nell’eternità del presente; e questa qualità sciamanica non sigla l’opposizione tra mito e storia, ma quella del mito nella storia contro il dolore e la morte, perché la storia mostra come nella teofania ebraico-cristiana il tempo mitico si sia dissolto, continuando in un racconto che è «ora di morte» in cui gli archetipi sono svelati.

«Esso è il rifugio profondo, la stanza segreta ove lo spirito attinge la propria realtà».

 

La concezione del mito che proviene dall’ascolto, in Otto, in Bachofen e in Kerényi, rompe sia con le scienze sociali, sia con la risoluzione del mito nell’ «azione eroica». Il mito è tramite tra l’umano e il divino nel senso della differenza abissale, per cui ogni «azione culturale resta un atto di contemplazione negativa».

La mitologia non spiega nulla, fonda. Non risponde alla domanda «perché», ma «da dove», «da quale origine». L’arché da risalire si compie nelle repliche del presente ed è in questo modo che le origini rimangono vitali, inesauribili, insuperabili, scrive Kerényi nell’Introduzione ai Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia. La visione non è la finta veggenza dei «tecnicizzatori» che usano il mito per affermare forze extraumane contro l’uomo, ma è la facoltà che smobilita l’«io», fa viaggiare l’immaginazione, altera la percezione della storia lineare.

Alla fine di questa storia si trova la problematica essenziale circa il senso delle parole mito e mitologia nella modernità. Nella retrocessione genealogica ad una «scienza di ciò che non c’è» l’operazione del mitologo ritrova l’opzione nel suo discorso. Il senso del mito si biforca in due immagini: un insieme di rappresentazioni che sono le costanti di un vastissimo ambito culturale, per esempio gli indoeuropei o i popoli nordici; oppure, seconda immagine, la «regola di un ampio gioco inteso ad adunare enigmi a priori insolubili» che il mitologo raccoglie e che valgono solo per lui.

Inoltre l’analogia tra miti e religioni dei «primitivi» e dei «selvaggi» aggiunge all’indagine storica un’altra analogia laddove è in causa la stessa ricerca: consapevole che la mitologia è «la forma in cavo, non colmabile di una paradossale scienza di ciò che non c’è», il ricercatore è portato o a sminuire le religioni dei primitivi che credono nelle epifanie della divinità in forma mitica, oppure ad accusare le religioni «superiori» di conservare tratti mitologici.

Jesi nota dunque che l’eccesso di soggettività nella valutazione del fatto miracoloso è bilanciato dal limite di oggettività del contesto collettivo in cui il fatto si verifica. La discriminante tra individuo e comunità nella ricerca intorno alle pratiche magiche riverbera nel rapporto dell’essere umano con la natura. L’associazione del mito, del miracolo e delle pratiche magiche, risulta evidente a partire da connessioni archetipiche leggibili come sopravvivenze; in secondo luogo l’evoluzione del fatto miracoloso in magia è riconosciuto storicamente nel trasformarsi dei riti nella loro raffigurazione, come nel caso del sacrificio umano; infine, l’analogia tra miracolo e magia è comprensibile nell’uno e nell’altro caso a partire dal differente rapporto dell’uomo con la natura.

Per questo ancora, il modello elaborato da Jesi ha ragion d’essere nella misura in cui dimostra la non conoscibilità del mito; e dimostra l’illusione della domanda intorno ad una sostanza del mito. Perché, di contro a quanto farebbero pensare le diverse teorie, il dispiegarsi della mitologia non si produce nella successione delle epoche storiche ma in un girare in cerchio – che è precisamente l’opera della scienza di ciò che non c’è.

Il modello consente di tralasciare le opposte prese di posizione dello storicismo e dei fautori di una metafisica extraumana che si è risolta e si risolve ancora oggi pericolosamente in nuove forme di fascismo.

L’esigenza di Jesi è stata quella di estendere la ricerca nella concentrazione di una vita, di attraversare l’intera esperienza della cultura europea della modernità per farne riverberare la distanza nel confronto con un passato che si continua a definire antico e in essenza insondabile.

Jesi è stato in lotta contro le sfere chiuse di sapere-potere e ha praticato quel conflitto permanente contro i recinti familisti del cosiddetto lavoro intellettuale non con l’armamentario militante che affermava prese di posizione generali, ma con l’esame puntuale delle connessioni, dei punti di sutura e delle dispersioni tra i racconti e le pratiche, le fiabe e il pensiero degli scrittori, gli annunci e le condizioni di decifrazione a partire da cui si esprimono i testi di una cultura.

Il mitologo doveva essere interno al tessuto delle narrazioni per segnalare eruzioni di pathos, momenti di tensione, tempi del dolore. Il punto di rottura era nella rinuncia all’ «io», che fosse quello dell’autore o della maschera, del soggetto del pensiero o della scrittura, della memoria o dei rapporti tra le cose su cui era sospeso il sapere e su cui operava la volontà del ritorno. Da Kerényi a Mann, a Rilke e Canetti a Pascal, Kierkegaard e Giedion, laddove scrittori ed etnologi, mitologi e filologi esasperavano il mito dell’identità personale, e laddove l’autore sormontava l’esperienza, attraversava l’opera, dirigeva lo sguardo,  – là l’analisi di Jesi interveniva a mostrare la caduta, a evidenzare la debolezza, a restituire alla lettura la fragilità del testo, l’abisso del pensiero, il non sapere più forte della conoscenza.

Ai bordi della ferita, gli effetti dell’ «io» che dissolve sono quelli di una vita distesa nella ricerca e  trascinata dall’urgenza della poesia che fende la vita, che non le resiste, che vi affonda. Ciò che cade solleva ciò che dal fondo immobile dei tempi scandisce il ritmo che compensa il mito nel tempo storico. Non però come un risarcimento, benché vi sia presente il senso di uno psichismo. L’anima che si scioglie dai mostri della notte ha fatto prova dell’abisso e ne percorre il bordo – per ciò l’esemplare poesia di Rilke diviene il centro della scrittura critica di Jesi. Non solo. La poesia è il luogo alchemico di trasformazione dei sedimenti del mondo nella pura emozione della parola, il condensato dell’inesprimibile sottratto alle manipolazioni dell’avvenire.

L’urgenza della ricerca è un andare. Essere nomadi sul posto è percorrere l’oscillazione tra lo spazio-tempo reperibile e insondabile di cicli rituali pre-storici e il presente. Vi è una grande e una piccola oscillazione. La grande oscillazione descrive la vita di Jesi, dall’Egitto, vera terra superstite, alla festa moderna che non può essere narrata perché è la «forma in cavo», nell’epoca del lavoro, dell’antica spesa suntuaria. La piccola oscillazione è il movimento antinomico che dalle eresie mistiche ebraiche attraverso le comunità pietiste nel XVII secolo, radica le filosofie di Rousseau e Kierkegaard e aleggia su Thomas Mann per posarsi sull’espressionismo e sulla drammaturgia di Brecht.

La vicinanza del lontano, dell’abbandono di Dio, è l’esperienza replicata nella storia che fin dall’inizio è condizione d’esistenza insieme dolorosa e privilegiata in cui l’«io» è preso tra la piccola e la grande oscillazione. Dolorosa perché non può contare sulla razionalizzazione; privilegiata perché è possibilità di epifania. È la zona di indeterminazione tra storia e mito in cui la possibilità dell’andare è necessità di poesia; e questo andamento inizia una volta che ci si sia lasciati dietro la proprietà del nome, il sicuro orizzonte dell’identità già svelata nella finzione delle maschere, e la sequenza delle interpretazioni.

Infatti, ogni antinomismo proviene dalla diaspora. Il doppio movimento che confronta il cielo alla terra, la notte al giorno, la ragione al delirio, apre l’abisso in cui si manifesta il dio oscuro che è luce del cammino. Di questo pathos Jesi ha vissuto, di questo andare l’opera reca testimonianza, del movimento drastico la gioiosa solitudine, l’innesco della contestazione, l’irresolubile questione dell’attimo e della durata.

Circoscrivere il campo del mito, guardare dal suo orlo abissale all’interno di un’essenza percepibile ma invisibile, è l’effetto di perlustrazione che l’andare nomade ottiene: intorno alle mitologie si trovano le soglie dei miti, le zone di indifferenza del senso smarrito da millenni e dei segni da seguire.

Intorno alle figure cardinali del puer divinus e della kore; intorno allo scavo del tempio di Dodona; intorno alle composizioni alchemiche del basso medioevo; intorno alle eresie mistiche; intorno alle presenze indiscernibili del cristianesimo e della mistica ebraica; intorno al mito dell’uomo in cui si confondono soggetto ed oggetto, edenico e demonico nella vita distorta di Adrian Leverkhun, protagonista del Doktor Faustus; intorno alle radici europee dell’Illuminismo che, senza bisogno di espianto, mostrano le potenze esoteriche della Ragione. La moltiplicazione dell’intorno è l’andare incessante del movimento, replica e intarsio della modernità nello stacco dal tempo classico. Intorno è il divenire circolare antitetico dell’arco e della lira in cui la memoria del polemos guarda il finto mondo senza conflitti e senza prove della modernità al tramonto.

Perché una delle lezioni più vivide lasciate da Jesi è che il doppio senso attribuito al «mito dell’uomo», come mito creato dall’uomo e come mito dell’umanesimo, come sostanza testimoniata e raccontata e come valore attribuito all’uomo, al dominio dell’uomo sulla natura e sui viventi, – in entrambi i significati l’espressione non neutralizza i conflitti e le contese, le classi e le idee; ne sposta i confini e le forme, consulta i generi, disdice le lingue della convenzione impegnando i soggetti nel diversivo, nella diserzione e nella fuga, con l’invenzione di una lingua imprevista. Si tratta allora di elaborare strategie di senso per mettere fuori gioco la lingua dell’uomo già compulsata da Elias Canetti, logora e artefatta nelle retoriche progressiste, emancipative, differenziali; e di affermare la realtà del tramonto, la vita nel tramonto, esule, assoluta, non scritta, non saputa ma presente e resistente alle tecnologie di morte.

 


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Paolo Vernaglione Berardi, insegnante, critico, ha lavorato come editor e come prof. invitato. E autore di scritti e testi storico-filosofici tra cui Dopo l'umanesimo. Sfera pubblica e natura umana (2009); Filosofia del comune (2013); Michel Foucault. Genealogie del presente (2015); La natura umana come dispositivo (2018); Commenti alla filosofia (2021). Ha costituito con amici il laboratorio «archeologia filosofica» (2016-2023) e con amici e amiche cura l’attuale collana editoriale «archeologia del presente», presso Efesto editore.

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