Presentiamo un estratto del romanzo di Davide Orecchio Storia aperta (Bompiani, Milano, 2021, pp.533- 538). In questo romanzo un militante del Pci, Pietro Migliorisi, attraversa i principali nodi politici e gli eventi del Novecento, nel brano qui riportato entriamo nell’ultimo anno di vita del Partito comunista nel 1990. Il testo si inserisce, dunque, nel programma sui «decenni smarriti» che Machina sta portando avanti.
Si ringrazia l’editore Giunti s.p.a./ Bompiani per la cortese disponibilità.
* * *
A febbraio dell’anno nuovo esci di casa. L’ottantanove è finito, il novanta è iniziato. Abbottoni il loden nell’ascensore. Calzi la scoppola. Controlli le tasche. Hai la tessera del partito con te. Hai i soldi per il tassì, andata e ritorno. Sali verso la grata che porta alla strada. Non resti dentro. Vai fuori. L’auto gialla ti aspetta. È già sera, precipitata veloce sul giorno. Il tassista ti chiede di gettare la sigaretta, perché ha problemi ai polmoni. Protesti ma poi butti la Rothmans. Il tassì scende verso il quartiere Prati, sull’asfalto maleducato della Balduina. Attraversa la città dei bambini. Il quartiere delle caserme. Piazza Cavour col tribunale. La tua città di adozione. Qui hai combattuto, qui hai lavorato, qui sei stato insieme a Michela, qui sei stato solo. Supera il ponte sul fiume e si ferma, ti lascia davanti a un «edificio piacentiniano». Sul portone la gente fa gruppo. Sono i compagni, di tutte le età. Intellettuali, studenti, artigiani. Sono i comunisti. Ancora per poco. Li ritrovi. Vai loro incontro. Non più dentro ma fuori. Non nell’inchiostro, né sulla carta. Puoi parlare ai compagni senza diario. Senza la luce tv. Sali le scale con loro. Una ragazza ti aiuta. Entrate assieme in sezione, verso la sala delle assemblee, dove sono «due grandi bandiere, rossa e tricolore», e «panche allineate», e un «parquet ben lucidato». Siete moltissimi. Oggi chiudete la stagione felice e crudele. Siete chiamati a decidere. È il vostro congresso. Dovete parlare del nome. Dovete sputare o salvare. Dissimulare oppure ostinarvi. Dovete cambiare. Dovete portare argomenti. Parlerete del mondo. Parlerete di voi. Non avete colpa di nulla. Non avete torti. Voi, i compagni, che perdete il nome. E perdete il cosmo. Gorby vi osserva dall’astronave. Stalin non è colpa vostra. Budapest non è colpa vostra. Il muro non è colpa vostra. Ceausescu non è colpa vostra. Il massacro a Pechino non è colpa vostra. Ma il mondo vi incolpa, vi indica e dice che siete famiglia internazionale dell’assassinio, e miserabili. Il mondo che non siete voi. Quel mondo vede una sola famiglia, internazionale. Ma il mondo si sbaglia, voi non siete i criminali che dice. Voi siete buoni. Voi siete la parte migliore. Voi siete giusti. E dovete parlare. Oggi. Dovete difendervi. Siete convocati a difendere il sogno. Dovete convincervi che siete ancora la storia. Voi siete l’ultima leva. Ed è la trincea, che vi tocca. Figli di questo partito. Figli di un nome che muore. Voi siete gli orfani.
La ragazza coi brufoli e i pantacollant, e il golf Benetton con le righe, ti procura una sedia comoda. L’ex collega ha le pupille ridotte a miniature dalle lenti spesse, ma ti riconosce e chiama il tuo nome. Il barbiere di Campo Marzio. La professoressa che insegna latino e greco al liceo Visconti. Il poeta che vive tra le lamiere su via Flaminia. L’autista dell’Atac è venuto in giacca e cravatta. Lo studente di Lettere posa sul tavolo un disco per Biko. Siete voi, che vi date del tu. Per il lei non c’è posto. Non c’è più posto a sedere. Non c’è più tempo. Non c’è più storia. Ti guardi intorno e gli interventi cominciano. Le voci dentro al microfono. Acute, sabbiose, rauche, infarinate, deboli, forti. Le voci. Il fumo. Compagni, io voterò sì. Compagni, io voterò no. Ti emozioni. Avevi ragione, tutti questi anni, quando dicevi che non eri solo, che eri col tuo partito. Sempre dentro e mai fuori, ma col tuo partito. Non raccontavi bugie. Voi non avete colpe. La colpa che sentite è per l’abbandono del nome? Come un cane per strada? Come un gattino nel fiume? O è solo un funerale tardivo? Forse il nome era morto da tempo, ma lo nascondevate in casa per riscuotere il suo vitalizio. Forse la vostra colpa è di avere occultato un cadavere. Allora non avete colpe, perché è difficile separarsi dai morti.
Tocca a te la parola e ti alzi. Raggiungi la presidenza e impugni il microfono. Ti viene una voce teatrale. Affiora un brodo negli occhi, ma non sono lacrime. Non sei nella luce tv. Non hai preso il Lexotan. Sei vero e ti guardano. Sei nell’ascolto dei tuoi compagni. Non parli dalla poltrona, dal tuo diario. Usi le corde vocali. Per dieci minuti, o forse dodici, tu non sei dentro ma fuori. Ci voleva un funerale per riportarti nel mondo. I compagni ti seguono e parli: «io dico sì alla nuova formazione politica proposta dall’attuale segreteria». E parli: «proprio per il mio essere marxista, comunista ed egualitario convinto». E parli: «dopo lunga e dolorosa riflessione». Tu dici «ho deciso». «Giustamente» hai deciso «di puntare tutto l’avvenire del partito sui giovani quadri». E dici di credere ancora. Ti ascolti. Sei vero. Non sei nell’inchiostro. Ora tu sei un gigante, perché dici: io spero, io vedo, c’è ancora tempo. E ti applaudono e piangono. I compagni. I futuri orfani. E dici: aspetto l’avvento del rosso, compagni il partito non muore. Perdi il nome. Lo accetti. Per te conta solo salvare la cosa. Il nome non sarà più pubblico. Sarà un nome privato. Sarà dentro. Mai fuori. Sarà il tuo comunismo interiore. Evviva il comunismo, comunque si chiamerà. Non ragioni sulle colpe. Il non realizzato in Italia. Il non realizzato del mondo. Parli per la salvezza, per la sopravvivenza, del tuo partito. Metti da parte i ricordi. I pensieri per la libertà. I pensieri per la democrazia. E dici: io sono un egualitario. Potete fidarvi di me. Il partito non muore. Non sei nelle epistole. Tu sei nella vita. Hai l’ascolto della ragazza coi brufoli, del barbiere, del dirigente. Ricevi attenzione. Concentrarsi sulle tue parole è una forma di accudimento? È rispetto? Loro sanno esattamente chi sei? Non tutti. Non importa. Ti curano. E non sei in ospedale. Poi finisci il discorso e ti vengono incontro. La ragazza ti abbraccia. L’ex collega ti abbraccia. Il segretario della sezione ti stringe la mano. Intorno scatta un applauso. Sei fuori e sei dentro. Nel tuo partito. Nell’amore. Voi non siete colpevoli. Ma oggi vi assumete le colpe. Rincasi e dici al diario «sono intervenuto al congresso e ho votato sì ai giovani», poi «sono diventato vecchissimo». È stato il tuo ultimo giorno con gli altri. Non guarderai più il tuo partito negli occhi. Hai perso il nome e hai detto addio ai tuoi compagni, che andranno avanti da soli e si accudiranno per quanto possono gli orfani.
A te resta la luce tv. La scatoletta di Simmenthal. Il whisky col ghiaccio e col Lexotan. Le notizie del primo canale, che infierisce sul rosso. Rientri nei giorni interiori. Segui sull’Unità le peripezie del congresso. Speri «col cuore». Calcoli i voti, li segni: «Occhetto ha preso il 67 per cento. Il 33 per cento gli è contro. Il futuro è imprevedibile. Il futuro è angoscioso», dici al diario e poi dici «vorrei fare in tempo a dare il mio contributo. Ma io sono solo “uno che scrive”». Non dai il tuo contributo. Il partito non ha più il nome. Il partito non è più comunista. Poi sbucci altre arance, altre cipolle. Sopravvivi all’estate. Innaffi le piante in terrazzo. Uccidi zanzare, vedi il tuo rosso sulle pareti, il tuo sangue. Sopravvivi all’autunno. Nella luce tv. A Natale mangi la Simmenthal. A capodanno una fetta di torta. Sopravvivi all’inverno. Nell’inchiostro, nelle parole. Senza i compagni. Sempre dentro. Mai fuori. Poi il partito si spacca. Un nuovo anno. Il novanta è finito. Il novantuno è iniziato. Un nuovo congresso. E il partito si rompe. Lo vedi sul primo canale, che sfotte. Le tue speranze si rompono. Non c’è più un solo partito. Questo significa che il partito è morto? Quel partito ora finisce? Succede nei tuoi giorni interiori. Nelle notti separate dal sonno. Nella luce tv. Poi sfiorisci. Segnali «intollerabile accelerazione cerebrale». Segnali «impossibilità di leggere. Impossibilità di scrivere». E «dolori lancinanti», e «Nisidina per alleviarli». Poi ti chiedi «che cosa è bene e che cosa è male?». Non sai che rispondere. Risolvi così: «ho male allo stomaco, ho un dolore spaventoso allo stomaco. Ecco il male: il mio dolore allo stomaco. O la mia cefalea intollerabile. O la mia insonnia incurabile. Questo, oggi, per me, è il male». E il bene? Che cosa è oggi il bene? Rispondi «è la vita, giorno dopo giorno, con i suoi dolori allo stomaco, le sue cefalee, le sue insonnie». Dici che la vivi «a braccetto». Con chi? «Con la morte.»
Poi l’astronave di Gorby si rompe. Termina l’impero sovietico. Finiscono i nomi. Tutti. Da Berlinguer a Togliatti. Scade l’elenco dei nomi. Non resta nessuno da nominare. Guardi Occhetto nella luce tv. Non capisci che dice. Non ti spiega dove vuole andare. Il primo canale lo sfotte, vi sfotte. Chiudete le scatole. Traslocate in un sogno nuovo. Ma tu non dormi e non sogni. Non ti svegli e non speri. Il nome è morto e non ti senti rinascere. Morì il regno fascista e tu eri rinato. Ma non si ripete il miracolo. Non c’è più tempo. Non c’è più padre. Il tuo materasso si modifica in bara. Allarmato, cerchi di sollevarti dal larice. Vuoi uscire dal cataletto. Non vuoi morire. Nella tua stanza. Sempre dentro. Mai fuori. Però una mano ti ferma, quella morbida di Palmiro Togliatti. Meglio se resti dentro, dice Togliatti. Un’altra mano ti spinge, quella magra di Berlinguer. Vai nel drappo nero, dice Berlinguer, e ti guarda con gli occhi languidi, e ti convince. Giuseppe Di Vittorio viene avanti coi chiodi e il martello, senza parlare. Nella tua stanza. Ti circondano. Ti persuadono. Resti supino. Loro ti hanno sempre persuaso. Ti sei sempre fidato di loro. E ti fidi ancora. Così chiudi gli occhi. Poi Berlinguer e Togliatti posano il cofano sull’abboccatura. Poi non vedi più nulla. Senti che Di Vittorio inchioda il legno sul legno. Di Vittorio usa il martello e tutti i suoi chiodi. Adesso sei sigillato. Ma questa bara ti proteggerà dal fascismo?
Nota dell’autore: i testi tra virgolette «...» sono tratti da Alfredo Orecchio, L’età breve (diario inedito) e Due destini (manoscritto inedito, 1989-1990), p. 100 («sono diventato vecchissimo»). Si veda anche Luca Canali, Archivio rosso. Gli anni dell’utopia, Manni, San Cesario di Lecce 2007, pp. 15 sgg. (la sezione Campo Marzio del Pci).
Immagine
Julien Blaine, Point D’ironie encore
* * *
Davide Orecchio (1969) è nato e vive a Roma. Ha pubblicato diversi romanzi e raccolte di racconti, tra cui: Città distrutte. Sei biografie infedeli (Il
Saggiatore, 2018); Mio padre la rivoluzione (minimum fax, 2017); Storia aperta (Bompiani, 2021).
コメント