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Eco-pessimismo radicale

Un Organon per tempi di crisi


Che rapporto c’è fra l’ecologia e Unabomber? L’appropriazione dell’immaginario ecologico da parte del sistema industriale ha cercato di neutralizzarne il forte contenuto profondamente rivoluzionario che ora, come un potente fiume carsico, torna in superficie con una carica a volte letteralmente distruttiva.




Eco-pessimismo radicale: Un Organon per tempi di crisi




1.

La fine della razza umana consisterà nel perire a causa di un eccesso di civilizzazione.

Ralph Waldo Emerson.


La Rivoluzione Industriale e le sue conseguenze hanno rappresentato un disastro per la razza umana.

Theodore «Ted» Kaczynski, La società industriale e il suo futuro[1].



Nell’aprile del 1996, gli uomini dell’Fbi circondano una capanna sperduta tra i boschi presso Lincoln, in Montana. Un enorme dispiegamento di mezzi e forze, di quelli che si vedono in quei film d’azione americani con terroristi spietati, fucili d’assalto e poliziotti eroici. In tale occasione, tuttavia, l’obiettivo è un uomo solo: Theodore Kaczynski, un ex-professore universitario di matematica teorica, identificato come «Unabomber», il serial killer che per quasi vent’anni ha spedito pacchi bomba presso diverse università statunitensi, riuscendo persino a farne caricare qualcuno su dei voli di linea.

Tre anziani agenti, vestiti in abiti borghesi, si avvicinano al capanno «3x3.6» in cui Ted ha ormai trascorso, in totale solitudine, buona parte della sua vita. Quando Kaczynski apre la porta per domandare loro chi siano, i tre agenti lo afferrano per le braccia e un nugolo di agenti in tenuta d’assalto sbucano dal folto del bosco invadendo lo spiazzo su cui sorge la capanna. Finisce così l’epopea di Unabomber (per l’appunto, il bombarolo delle università, «Un», e degli aerei, «a»). Il bilancio delle sue vittime è di tre morti e diversi feriti. Alcune delle vittime dei suoi pacchi bomba sono rimaste mutilate.

L’anno prima, nel settembre del 1995, il «Washington Post» e il «New York Times» avevano pubblicato, su richiesta dello stesso Unabomber, un Manifesto giunto per posta in redazione (seguendo il medesimo iter applicato per i pacchi bomba). Si tratta di The Industrial Society and its Future, un lungo scritto riguardante i danni inflitti dalla civilizzazione, dalle tecnologie e dalla società di massa, alla specie umana e all’ambiente.

La pubblicazione del Manifesto su due dei giornali più venduti del paese risulterà seminale per l’individuazione del capanno, dal momento che David Kaczynski, il fratello di Theodore, riconoscerà in esso le argomentazioni e lo stile del fratello ‒ segnalandone la posizione alla polizia qualche giorno più tardi.

Nei primi giorni di incarcerazione, gli avvocati di Kaczynski tentano di percorrere la via dell’infermità mentale, così da sventare il pericolo di una condanna a morte. Ma Theodore si oppone con tutte le forze: se l’autore della Società Industriale dovesse essere riconosciuto come malato di mente, chi mai più darebbe credito alle parole e ai concetti in esso contenuti? Kaczynski si autodenuncia in tribunale come un attentatore freddo, spietato, razionale e privo di rimorsi. Riesce a scampare alla pena capitale, ma finisce all’ADX Florence, detto il «Supermax»: un carcere di massima sicurezza nel quale i prigionieri trascorrono il loro tempo in totale isolamento, in celle poco più grandi del capanno di Ted ‒ un luogo definito, dallo stesso direttore carcerario, come peggiore dell’Inferno, appositamente ideato per contenere esseri non più umani.

Poco prima di entrare in «Supermax», Kaczynski concede ‒ o, meglio, chiede ‒ un’intervista a Theresa Kintz, ex-redattrice della rivista ufficiale di Earth First!. La lucidità e l’ironia con la quale Kaczynski racconta le sue vicende ed espone le sue idee a Kintz lo proiettano in breve tempo nella leggenda. Da subito ‒ come alcuni indizi, nel corso degli anni precedenti, avevano fatto sospettare ‒ Theodore «Ted» Kaczynski diventa un simbolo, nonché una sorta di «meme-vivente», per gli ambientalisti radicali (e, in particolar, modo per gli attivisti di Earth First!). Gli stessi giornalisti cominciano a interessarsi alle idee espresse nel cosiddetto «Manifesto di Unabomber».

Nel 2010, David Skrbina, filosofo e ricercatore all’Università del Michigan ‒ lo stesso istituto più volte bersagliato da Unabomber ‒ cura ed edita una raccolta di scritti, Technological Slavery: The collected writings of Theodore J. Kaczynski. A.k.a. The Unabomber. Le idee di Kaczynski si diffondono nelle università statunitensi, entrando a far parte dei materiali testuali di diversi corsi.

Nel 2015 esce per Fitch & Madison Anti-Tech Revolution: Why and How? (tradotto l’anno scorso in italiano), l’ultima opera di Kaczynski. Si tratta di uno scritto di collassologia pura, dedicato alle teorie del caos e all’analisi dei sistemi complessi. Fin dal primo capitolo del libro, Kaczynski ribadisce la propria posizione radicale, consistente in tre semplici punti ‒ contenuti, in nuce, già nel Manifesto:


a) Le società complesse sono impossibili da gestire e dirigere secondo i desideri e le aspirazioni di uno o più governanti, e persino di una «volontà generale». Lo sviluppo di ogni società complessa è soggetto a un quantitativo pressoché infinito di variabili, ed è frutto dell’intersezione di diverse «forze» e tendenze ‒ tra le quali figurano anche agency astratte e non-umane, sulle quali gli esseri umani non detengono alcun potere. Tra le società più complesse, anzi, in complicazione costante ed esponenziale, vi sono le società tecnologiche.


b) Le società complesse, in particolare quelle tecnologiche, sono dominate da andamenti caotici e distruttivi che causano sofferenze diffuse. Tali andamenti, nel caso della società industriale, hanno ormai ampiamente dimostrato di condurre al collasso ecologico, un fenomeno che causerà (e causa già adesso) innumerevoli vittime tra gli umani e i non-umani. L’unica soluzione consisterebbe nell’alterare il corso della storia, e dirigere la società verso lidi migliori. Tale soluzione, tuttavia, risulta nettamente impraticabile, come deriva dal punto a).

c) Le società complesse non possono essere gestite, non possono essere cambiate, non possono essere rivoluzionate. Non è possibile predire alcun miglioramento di ordine generale ‒ mentre è assai più semplice predire il peggioramento e persino il collasso stesso di un dato ordine sociale.

L’unica via d’uscita dal caos, passa attraverso il caos stesso: la società industriale deve essere annientata e smantellata attraverso l’impiego della forza.


2.

Al momento dell’acquisto del capanno da parte di Kaczynski, nel 1971, era trascorso appena un anno dal primo Earth Day. Dovranno trascorrere altri otto anni affinché si tenga la Prima Conferenza Mondiale sul Clima. Già nel 1965, tuttavia, Frank Ikard, presidente dell’American Petroleum Institute, aveva illustrato in un documento ufficiale come l’anidride carbonica, «aggiunta all’atmosfera terrestre in seguito alla combustione di carbone, petrolio e gas naturale», avrebbe finito col causare, entro la fine del millennio, «marcati mutamenti climatici, la risoluzione dei quali sarebbe stata nettamente al di là delle possibilità delle amministrazioni locali, e persino nazionali».

Se Kaczynski non nomina mai il Monsieur le Capital (se non in qualità di «frase fatta» e vacuo portabandiera socialista), è perché esso è già presente, all’interno del Manifesto (e in convergenza evolutiva con le teoria accelerazioniste), in qualità di sistema tecno-economico-scientifico. La società industriale è il capitalismo, e viceversa ‒ come illustrato dallo stesso Marx, d’altronde.

Nel 1994, tra le vittime di Unabomber c’è un pubblicitario, Thomas Mosser, che Kaczynski crede erroneamente coinvolto con l’insabbiamento del disastro della Exxon Valdez nell’89. Articoli di giornale e testimonianze precisano che Mosser non aveva nulla a che fare col caso Exxon. Mosser, tuttavia, lavorava per la Burson Cohn & Wolfe, un’agenzia pubblicitaria specializzata nel settore del management dell’immagine post-disastro. Sarebbe a dire che la Burson Cohn & Wolfe ha più volte contribuito ad attutire il danno di immagine derivato alle grandi corporazioni da catastrofi come quella del Bhopal; da casi accidentali, quali quello degli «omicidi del Tylenol»; o, ancora, dalla pura e semplice verità, come nel caso della campagna pubblicitaria che, negli anni ‘90, aiutò l’industria del tabacco a non chiudere battenti.

Nel 1996, anno della cattura di Kaczynski, sono trascorsi appena quattro anni dal Rio Earth Summit, e manca solo un anno alla promulgazione degli Accordi di Kyoto (che entreranno in vigore solo nel 2005). Con Kyoto si inaugura una nuova epoca: quello dello scambio commerciale di emissioni tra paesi poveri e paesi industrializzati, un fenomeno che dischiude le porte a un nuovo, proficuo mercato ‒ senza contribuire in alcun modo a ridurre le emissioni di CO2 nell’atmosfera. Come nota David-Wallace Wells, dal 1992 in poi ‒ dunque proprio a partire dal Rio Earth Summit ‒ si è assistito a una vera e propria proliferazione incontrollata delle emissioni. Un fenomeno alimentato e incoraggiato dalle misure mercatiste promulgate dagli Accordi di Kyoto.

Dal 2018 in poi, sempre più ricerche e rapporti mostrano come il pianeta si stia avvicinando a una serie di punti di non ritorno, ciascuno dei quali contribuirà a produrre feedback positivi che accelereranno ulteriormente i processi di riscaldamento.

Il 7 Marzo 2019, Mike Pompeo, Segretario di Stato di Trump, afferma che lo scioglimento dei ghiacci artici rappresenta una fonte di «nuove opportunità» economiche e commerciali. Non è del tutto da escludere che, dal che momento che ha riconosciuto quantomeno la realtà del riscaldamento globale, egli sia anche a conoscenza del fatto che lo scioglimento dei ghiacci comporta anche il repentino rilascio di carbonio nell’atmosfera, la diminuzione dell’«effetto albedo», e lo sconvolgimento delle rotte delle correnti sottomarine (contribuendo ad amplificare, ancora e ancora, in un circolo vizioso, le conseguenze del riscaldamento globale).

Nel 2016, al termine del primo capitolo di Anti-Tech Revolution, in riferimento a chi invoca soluzioni politiche, economiche e tecnologiche alla crisi climatica, Kaczynski scrive che:


La visione del mondo di gran parte degli appartenenti alla classe medio-alta, inclusi parecchi intellettuali, dipende strettamente dall’esistenza di una società su larga scala, organizzata in modo rigoroso, culturalmente «avanzata», e caratterizzata da un elevato grado di ordine sociale. Per tali individui sarebbe estremamente difficile, da un punto di vista psicologico, riconoscere che l’unico modo per non andare incontro al disastro consista proprio nel collasso totale della società organizzata e, di conseguenza, in una discesa nel caos. Essi, pertanto, si aggrappano a tutta a una serie di schemi, per quanto irrealistici, capaci preservare la società in cui vivono, e dalla quale dipende la loro stessa visione del mondo. Un fatto che induce quasi a sospettare che le minacce rivolte alle loro visioni del mondo, siano di gran lunga più importanti di quelle rivolte alle loro stesse vite.


Nella prima metà del 2021 si diffonde una voce secondo la quale Greta Thunberg e Theodore Kaczynski avrebbero dato inizio a uno scambio epistolare.


3.

Per «sentimenti di inferiorità» non intendiamo quel che viene banalmente definito «senso di inferiorità», ma un intero spettro di caratteristiche a esso affini: bassa autostima, senso di impotenza, tendenze depressive, disfattismo, senso di colpa, disprezzo di se stessi, etc.

Theodore «Ted» Kaczynski, La società industriale e il suo futuro



Al centro di La società industriale vi è il concetto di "sovrasocializzazione" (oversocialization). Tale termine, coniato dallo stesso Kaczynski, indica una rete di rapporti sociali fondati sulla repressione, il mascheramento e la sublimazione degli affetti normativamente ritenuti «negativi». In breve, per mantenere ben saldo il tessuto sociale, i «processi di potere» (altra espressione rilevante nella cornice del Manifesto), sono costretti a instaurare un regime di controllo affettivo – che, come già notato da Hobbes, Zapffe e Foucault, si tramuta ben presto in un regime disciplinare, ossia di autocontrollo tanto reciproco quanto individuale. Come si evince dal Manifesto, gli istitutori e i tutori di tale regime sono, in ordine di comparsa all'interno delle esistenze individuali, la pedagogia, lo spettacolo, la morale, la legge e la politica. Ciascuna di queste forze ha il dovere implicito di incanalare il soggetto nel processo del potere, introducendolo alle forme più appropriate al mantenimento di un ordine discorsivo «civile» – ossia riflessivo, mediato, simbolico, graduale e, in sostanza, mutilo.

L'identificazione con un'organizzazione politica, e la proiezione dei propri desideri sui suoi valori portanti e le sue strategie, in tal senso, rappresenta il grado definitivo e totalizzante di tale processo.

Il tema è quello, più che mai moderno, dell'abdicazione del proprio volere e dei propri desideri alla volontà generale di un Tutore, e all'ordine da esso costituito. Si tratta, a ben vedere, di un'originale prospettiva sul classico ordo amoris: il legame, al contempo concreto e astratto, che fa sì che i corpi (e le anime) siano attratte le une alle altre. In questo caso, tuttavia, ciò non avviene senza un occultamento (giammai soppressione) di tutti i conflitti e le contraddizioni che si annidano nell'individuo e tra le maglie del tessuto sociale.

Nel Manifesto, tale occultamento, alla base dell'autocontrollo disciplinare, viene ricollegato da Kaczinsky a un profondo "sentimento di inferiorità" che sfocia, a sua volta, in tutta una serie di patologie psichiche e problematiche esistenziali.

Tra le opere recenti più affini alla sensibilità e all'impostazione concettuale di La società industriale, vi è l’ultimissimo romanzo di Michel Houellebecq, Annientare (Anéantir). All'interno del romanzo, infatti, gli effetti della sovrasocialità prendono concretamente corpo, disponendosi lungo un duplice asse contrassegnato da una marcata ambiguità. Da un lato, le conseguenze della società industriale – identificata da Houellebecq con il "mondo moderno", ossia con l'Occidente post-illuminista e post-industriale – risultano nella produzione di massa di un tipo umano sfiancato, impotente e anaffettivo; dall'altro, esse contribuiscono, per via più o meno indiretta, alla creazione dei loro stessi oppositori.

Tale duplicità sembra in grado di far luce sull'enigma «mutilato» che si dipana sullo sfondo di Annientare: gli attentati terroristici, di matrice incerta, addirittura incomprensibile, che si abbattono su una serie di bersagli apparentemente scollegati tra loro. I proclami, le modalità operative, e la stessa scelta degli obiettivi da parte degli attentatori, mescolano, infatti, hackeraggio, estremismo di destra, primitivismo, satanismo ed eco-radicalismo di sinistra, rendendone impossibile l’identificazione (in una sorta di ripetizione apocalittica del modus operandi e del substrato intellettuale dello stesso Kaczynski, citato verso la seconda metà del libro). La natura caotica ‒ si direbbe quasi «tumorale», a partire da altri spunti presenti nel libro ‒ di tale entità, parrebbe paradossalmente alludere alla sua stessa matrice: un’origine non tanto politica, quanto grottescamente eccedente. Un movimento di dissoluzione generale, follemente auto-contraddittorio, posto al di là di ogni concettualità e coerenza ideologica.

La «prestanza» comunicativa, tecnica e militare degli attentatori, inoltre, sembrerebbe contrastare bruscamente con l’impotenza dei personaggi che «subiscono» gli andamenti della trama. Tale impressione, tuttavia, si rivela, a una lettura più attenta, del tutto fallace. Sia le immense forze di annientamento politico-sociale, sia le cristallizzazioni psichiche e affettive che paralizzano i personaggi, di fatto, possono essere ugualmente interpretate come conseguenze della società industriale. La sovrasocialità è alla base della frustrazione, della competitività e del risentimento della progressista Indy («una vera merda», sottolinea l’autore); della frustrazione, dell’alienazione e dell’impotenza di Aurélien; dell’arido efficientismo, razionale e super partes, di Bruno (vera e propria personificazione dell’anonimato capitalista); dell’anaffettività di Prudence; della mediocrità interiore di Paul. Ma la sovrasocialità è anche la pentola a pressione nella quale cuoce il caos primordiale sguinzagliato sul mondo dagli attentatori.

A ciò, forse, allude l’intricato sistema di ideogrammi assurdamente crittografati che corredano la trama e le pagine del romanzo: un invito a leggere al di là dell’incomprensibile, a guardare in direzione dell’evidente.

La soluzione anti-moderna, offerta da Houellebecq come antidoto al caos, tuttavia, si pone in un quadro più intimo, più «nietzscheano» rispetto a quella elaborata da Kaczynski (nel senso di un «guardare alla propria ombra»). Da un lato, il disgusto per la politica; l’allontanamento dalla «lotta» che squassa la società da un estremo all’altro. Dall’altro, la riscoperta delle relazioni autentiche, della bellezza naturale, delle consolazioni della fede e della superstizione, degli affetti basilari e quasi animaleschi che nutrono l’animo umano.

Nel corso del romanzo il protagonista, Paul, passa attraverso una serie di «punti di non ritorno» (eventi, riflessioni, sogni e relazioni), che lo inducono a prendere coscienza della consistenza, tanto nociva quanto illusoria, della moderna sovrastruttura sociale. Uno svuotamento kenotico che culmina nella possibilità di una malattia e di una morte dignitose.

Già nel breve saggio In presenza di Schopenhauer, dopotutto, Houellebecq aveva affermato che:


Non è senza tristezza che si assiste all’evocazione delle gioie semplici dell’uomo comune (un’intima e allegra vita di famiglia, una società poco raffinata), tanto esse appaiono, nelle nostre società moderne, come un paradiso perduto; gli stessi piaceri sensuali resistono a fatica. E se tutte queste felicità diminuiscono, non è certo a vantaggio dei «piaceri dello spirito», bensì a vantaggio della conquista di ciò che Schopenhauer considera un’esca: il denaro e la fama (ciò che abbiamo, ciò che rappresentiamo). [...] Una simile considerazione è già sufficiente per condannare la società moderna.


Tutto quel che viene dopo tali parole, per noi, non è che un commento a margine.



4.

[...] Un movimento che desideri esaltare la natura e opporsi alla tecnologia dovrebbe porsi nettamente in contrasto con la sinistra, evitando ogni genere di cooperazione con essa. L’ideologia di sinistra è, nel lungo termine, nociva per la natura selvaggia e la libertà umana, nonché impossibilitata a tagliare i ponti con il moderno apparato tecnologico. La sinistra, infatti, è collettivista: essa tenta di unificare il mondo (sia la natura, sia l’intera specie umana) all’interno di una totalità. Ciò, tuttavia, implica la gestione della natura e della vita umana da parte di una società organizzata ‒ un obiettivo che necessita di tecnologie avanzate.

Theodore Kaczynski, La società industriale e il suo futuro



Tra gli ecologisti più radicali degli ultimi anni c’è senza dubbio Andreas Malm. L’analisi di Malm ‒ incentrata sui temi del riscaldamento globale, del rischio climatico e del capitalismo fossile ‒ muove a partire da una distinzione di tipo avanguardista e militante: quella tra «filosofia speculativa» (un termine ombrello comprendente nomi del calibro di Bruno Latour e Timothy Morton) e «realismo climatico», maturata all’interno della sua secondo opera critica, The progress of This Storm (preceduta dal seminale Fossil Capital).

Secondo Malm, la prima categoria non farebbe che ruotare vorticosamente attorno a cavilli concettuali, giochi di parole e costrutti ambigui ‒ tra i quali la critica al concetto di natura «incontaminata», il termine «postumano», e l’idea che mondo naturale e mondo artificiale siano da sempre indissolubilmente intrecciati. La seconda, al contrario, indicherebbe, in modo non ambiguo e assolutamente inequivocabile, l’origine antropica, anzi «capitalogenica» dell’incombente catastrofe climatica; l’entità del danno inferto agli spazi incontaminati e alla natura selvaggia; il massacro dei non umani, schiavizzati in nome della produzione.

Il realismo climatico, per farla breve, è il colpo di pistola sparato in aria nel bel mezzo di una riunione. I convitati ammutoliscono.

Con How to Blow Up a Pipeline (Come far saltare un oleodotto, TBA) e, più avanti, con Climate Corona Capitalism (disponibile in italiano per Ponte alle Grazie), Malm ha dato inizio a una serie di lavori più brevi, affini allo stile del pamphlet o del manifesto. Si tratta di opere dense, ricche di storia e dati concreti, capaci di restituire la complessità di una situazione in costante e catastrofico sviluppo.

Ciò che di esse, tuttavia, ci interessa maggiormente, è l’intensità con la quale invocano un uso massiccio e incondizionato della forza. Uno sprone che agisce come una sorta di corollario, di inevitabile conseguenza, all’individuazione della categoria di realismo climatico. Un rigetto dell’ultrasocialità critica, filosofica e accademica, comune tanto alle ecologie speculative quanto all’ecologia politica.

In How to Blow Up a Pipeline, Malm prende in esame la dualità operativa instauratasi tra il Movimento per i Diritti Civili di Martin Luther King Jr., e le Pantere Nere di Malcolm X: un sistema quasi cibernetico, nel quale le rivendicazioni del primo vengono supportate dalla potenza di fuoco del secondo, e i sacrifici di quest’ultimo si incarnano, passo passo, nelle conquiste del primo. Scrive Malm a riguardo:


Cibo per la mente del movimento climatico. Il fatto che (perlomeno nel momento in cui sto scrivendo) quest’ultimo non abbia dato vita a nessuna rivolta, né ad alcuna ondata di distruzione di massa della proprietà privata, sarebbe visto dai pacifisti strategici come un segno di forza, come la prova di un’affinità al loro ideale. Ma non potrebbe anche essere interpretato come l’esatto contrario – come un fallimento del tentativo di acquisire profondità sociale, di articolare gli antagonismi che scorrono attraverso questa crisi e, non da ultimo, di ottenere un profilo tattico? Davvero questo movimento non possiede un fianco radicale? Greta Thunberg potrebbe anche essere l’equivalente climatico di una Rosa Parks, una sorta di ispiratrice (com’è spesso stata definita). Ma non è (o, almeno, non è ancora) una Angela Davis o una Stokely Carmichael.


E ancora, più avanti:


Con ogni probabilità, il pacifismo non è mai esistito. Quel che è esistito è stata l’abilità, o l’incapacità, di distinguere tra forme di violenza. L’aspetto più peculiare del pacifismo, di fatto, è che esso consente ai suoi sostenitori di ammantarsi di un velo di moralistica presunzione, generato dalla feticizzazione di certe tattiche rivelatisi occasionalmente utili.


Un passaggio, quello dal realismo climatico al realismo politico, che lascia intendere un ampio margine di manovra nell’elaborazione di soluzioni locali (nello stile dell’Appalachian Group to Save the Land and People).

Tuttavia, nel successivo Climate Corona Capitalism, Malm si unisce a Jodi Dean e Kai Heron nell’invocare un «Lenin-Climatico» ‒ un socialismo globale e internazionalista che si faccia carico di porre rimedio al riscaldamento globale, e ai suoi effetti collaterali (quali l’insorgenza di nuove pandemie). Tra l’articolo firmato da Dean ed Heron, intitolato Revolution or Ruin, e il pamphlet di Malm, si instaura un rapporto di reciproco condizionamento. Un circolo vizioso, nel quale l’emergenza giustifica il ricorso alla violenza organizzata e al potere gerarchico, nel preciso istante in cui questi ultimi espellono ogni dubbio critico e ogni soluzione locale ‒ nonché il ricorso al muto-aiuto, dal momento che le specifiche condizioni poste dall’emergenza climatica necessiterebbero di soluzioni altamente tecnologiche.

Obiettivo critico di entrambi è Climate Leviathan: A Political Theory of Our Planetary Future (disponibile anche in italiano), un’importante opera critica, nella quale i due autori, Geoff Mann e Joel Wainwright, si interrogano sulla futura emergenza di un’ipotetica autorità globale, dotata di pieni poteri e mezzi tecnologici pressoché illimitati ‒ dei quali godrebbe proprio in virtù dell’emergenza posta dal riscaldamento globale. Un potere assoluto, su scala quasi cosmica, alla quale Mann e Wainwright oppongono una forma di vita speculativa, non ancora giunta in essere: una «X Climatica», la cui emersione sarà fondamentale per arginare l’ascesa dei nuovi assolutismi climatici (compreso, ovviamente, il Lenin Climatico).

Laddove l’ultrasocialità politica e le «visioni del mondo» si mescolano al terrore puro ispirato dalla catastrofe incombente, dando il via a una reazione a catena diretta verso l’assolutizzazione del processo del potere, non resta che sperare nell’irrealtà ‒ così potentemente reale ‒ di qualcosa a venire, di qualcosa di più vicino alla terra e alla vita.

Nel frattempo, lo spettro di una «Dark Greta», congiunzione apocalittica dell’ispiratrice e della sterminatrice anti-civilizzazione, si fa sempre più concreto.

Si avvicina forse il giorno in cui, anziché l’effige di una ragazzina, saranno le sagome degli eco-fascisti a pendere tetramente da un ponte.

5.

Il sistema tecnologico-industriale potrebbe sopravvivere, oppure collassare. Se dovesse riuscire a sopravvivere, esso POTREBBE, eventualmente, ottenere un basso grado di diffusione delle sofferenze psichiche e fisiche, seppur solo dopo aver attraversato un lungo e doloroso periodo di aggiustamento ‒ e solo al costo di ridurre permanentemente gli esseri umani, e gli altri organismi viventi, a meri ingranaggi della macchina sociale. Se esso riuscisse davvero a sopravvivere così a lungo, le conseguenze sarebbero inevitabili. Non vi è alcun modo di riformare o modificare il sistema, così da prevenire che esso deprivi le persone della loro dignità e autonomia.

Theodore Kaczynski, La società industriale e il suo futuro



Lavoratori di tutto il mondo unitevi, non avete nulla da perdere se non le vostre catene, e un mondo intero da guadagnare.

Ma cosa accadrebbe se fosse il mondo stesso a essere spacciato?

Salvage Collective, The Tragedy of the Worker



Salvage Collective è una realtà ibrida, composta da «eco-socialisti disillusi» (tra i quali potreste riconoscere un gran numero di nomi alquanto noti, da Rosie Warren a China Miéville, da Magpie Corvid a Richard Seymour), che lavora a metà strada tra la letteratura, la teoria critica, il cinema e le arti visive. Scopo del progetto è quello di individuare e sperimentare teorie e pratiche per un mondo post-capitalista.

Il gruppo è molto vicino alle posizioni di Andreas Malm, al quale, tuttavia, oppone un incrollabile principio di dubbio costitutivo, interrogazione e messa in discussione, capace di rendere più «brillante» e «conviviale» persino un dibattito sul disastro ecologico.

In quello che si propone al lettore come un vero e proprio manifesto, The Tragedy of the Worker: Towards the Proletarocene (La tragedia della lavoratrice: Verso il Proletarocene, TBA), Salvage ripercorre i punti salienti della lotta al cambiamento climatico, passando in rassegna opzioni, soluzioni e tradizioni critiche ‒ ma, soprattutto, tenendo costantemente in luce la scala e la gravità della catastrofe, ed evidenziando il ruolo in essa giocato dallo Stato e dal Capitale.

La proposta del collettivo consiste in un «Comunismo-Salvage», ideato per un’umanità che si ritroverà a ereditare un cumulo di rovine. Un comunismo che ha la forza di denunciare «la presa dei mezzi di produzione» e il «comunismo di lusso» come sogni pericolosi o, tutt’al più, illusioni. Un comunismo che non ha paura di congedarsi dal produttivismo, ma anche dalle pose e dalle merci (la «roba») che definiscono l’alternativismo mainstream. Un comunismo che ha la decenza di richiamare a un’umiltà metafisica ed epistemologica e, al contempo, a una sete illimitata di soluzioni radicali. «Cosa sarà più urgente dopo?»: è questa la domanda cruciale posta dagli autori ‒ quali idee, quali prospettive e quali memorie?

L’aspetto più interessante del lavoro di Salvage, tuttavia, consiste nel suo uso politico del pessimismo ‒ un elemento dal quale derivano tutti gli aspetti precedentemente elencati.

Come scrivono gli autori e le autrici in La tragedia della lavoratrice:


[...] Salvage è anche pessimismo politico [...] basato sulla nostra particolare interpretazione dell’attuale congiuntura: sul rifiuto di inzuccherare le capacità di adattamento del capitale e degli oppressori, lo stato quanto mai precario della lotta di classe e la portata di quel che la sinistra radicale ha dovuto e deve ancora affrontare. Un pessimismo che è anche un modo per ripudiare la prepotenza di certe correnti di sinistra per le quali l’ottimismo è obbligatorio, e la sua assenza un primo indizio di fallimento politico.

Con Salvage, abbiamo scommesso sull’idea (forse un po’ controintuitiva) che un pessimismo rigoroso, lungi dall’essere una patologia, possa essere politicamente stimolante ‒ nonché ben lontano dall’ottimismo obbligatorio della sinistra socialista, dal suo implicito volontarismo [...]


Un discorso, ancora una volta, sorprendentemente vicino all’analisi, compiuta dal filosofo norvegese Peter Wessel Zapffe, delle strategie alle quali l’essere umano fa ricorso per occultare i mali del mondo e della vita: l’«isolamento», ossia l’esclusione dei pensieri negativi e l’«omertà» sociale riguardo a certi temi; la «distrazione», sarebbe a dire la ricerca di attività capaci di distogliere il soggetto dalle minacce e dai rischi esistenziali; l’«ancoraggio», ovvero la ricerca di legami e visioni del mondo in grado di restituire senso alla vita individuale e collettiva; e, infine, la «sublimazione», la convinzione che si possa ancora fare qualcosa, che vi sia un modo per restituire dignità alla vita offesa.

Scrive ancora Rosie Warren, membro del collettivo:


Non stiamo diagnosticando un cancro perché siamo pessimisti – siamo pessimisti proprio perché abbiamo diagnosticato un cancro. Non necessariamente terminale, ma nessuna cura per il cancro giunge a poco prezzo, senza contare che esso risulterà del tutto incurabile se lo si tratterà come un banale raffreddore.


Parole nelle quali risuona il refrain di un altro importante testo eco-pessimista, Desert (edito da pochi mesi in Italia da Argo): «Il mondo non sarà ‘salvato’». Né, come ricorda Salvage, sarà il «geo-fabianesimo» a salvarlo.


6.

Se il sistema finirà col collassare, le conseguenze saranno, anche in tal caso, molto dolorose. Ma più il sistema crescerà, più disastroso sarà l’effetto di tale collasso. Ne deriva, pertanto, che è di gran lunga più desiderabile che esso collassi prima, piuttosto che poi.

Theodore Kaczynski, La società industriale e il suo futuro



Tutto quel che è accaduto negli ultimi 13 miliardi di anni è accaduto esattamente così come doveva accadere. Non un singolo atomo fuori posto, non un singolo muone in difetto. Nulla è andato storto. Non vi è stato il benché minimo sbaglio. Nessun peccato originale, nessun errore, nessuna caduta. Tutto quel che è stato, è stato necessariamente.

Roy Scranton, Learning to Die in the Anthropocene



Il Dark Mountain Project è una rete di scrittori, artisti e pensatori che «hanno smesso di credere alle storie che la civiltà racconta a se stessa». Salito agli onori della cronaca per le affermazioni anti-globaliste e anti-politically-correct di uno dei suoi fondatori, lo scrittore britannico Paul Kingsnorth, il progetto è a oggi annoverato da alcuni movimenti della sinistra radicale (tra i quali Salvage) nella lista delle realtà eco-reazionarie. Tra le principali cause di tale ostilità vi sono la scelta dell’isolamento montano, uno stile di vita affine al «prepperismo», e l’idea di porre particolare attenzione alla riscoperta del tradizionale substrato culturale inglese.

Eppure, il motto del Dark Mountain Project è:


Decentrare la mente, [...] mettere la civiltà ‒ e noi stessi ‒ in prospettiva, [...] restituire un’immagine di homo sapiens che un essere proveniente da un altro mondo o, ancora meglio, dal questo stesso mondo ‒ una balenottera, un albatross, una lepre di montagna ‒ possa riconoscere come qualcosa di prossimo alla realtà.


Un obiettivo conseguibile solo attraverso l’intreccio ‒ come si suol dire ‒ transdisciplinare, o, detto più banalmente, attraverso la relazione e la messa in comune dei saperi e delle visioni. Un tentativo di creare una nuova o, forse, «più antica» coscienza epistemologica ‒ più affine a una sorta di post-animismo, fatto di crepe e gradini scavati tra gli enti, che a una teoria del tutto.

Tra le ragioni che hanno condotto alla fondazione del Progetto, d'altronde, vi è stata la consapevolezza che, nel pieno della catastrofe ecologica, gli autori dei prodotti culturali ‒ romanzi, film e opere musicali «di massa» ‒ si stessero ancora comportando come se si trovassero nel ventesimo o, peggio ancora, nel diciannovesimo secolo. (Qualcosa di simile a quanto avvenuto, qua in Italia, con il duplice progetto La Grande Estinzione e Il Problema di Grendel).

Il Dark Mountain Project rappresenta, in fin dei conti, un modo di fare comunità, di costruire una comunità alternativa, svuotata dalle narrazioni e dagli immaginari della società industriale.


Quelli che seguono sono gli «Otto principi dell’incivilizzazione», stilati da Paul Kingsnorth e Dougald Hine, e tratti dalla raccolta Walking on Lava (Camminare sulla Lava, TBA):


1. Viviamo in tempi di disfacimento sociale, economico ed ecologico. Tutto attorno a noi, sono i segni del passare alla storia del nostro intero modo di vivere. Affronteremo tale realtà con onestà, e apprenderemo a convivere con essa.

2. Ci rifiutiamo di credere che le crisi convergenti dei nostri tempi possano essere ridotte a un insieme di «problemi», in attesa di «soluzioni» tecnologiche o politiche.

3. Riteniamo che le radici di tali crisi affondino nelle storie che abbiamo raccontato a noi stessi. Intendiamo sfidare quelle storie, sulle quali poggia l’intera civilizzazione: il mito del progresso, il mito della centralità umana, il mito della nostra separazione dalla «natura». Miti divenuti ancor più pericolosi nel momento in cui abbiamo dimenticato che essi sono tali.

4. Ricondurremo l’atto di raccontare storie a qualcosa di più che al mero intrattenimento. È attraverso le storie che si intesse la trama della realtà.

5. L’essere umano non è né l’apice, né lo scopo finale dell’esistenza di questo pianeta. Le nostre arti si fonderanno su un tentativo di uscire dalla bolla umana. Con rispetto e attenzione, ci riaccosteremo al mondo non-umano.

6. Celebreremo le arti e le scritture radicate in un tempo e in un luogo. Da troppo, ormai, la letteratura è dominata dagli abitanti delle fortezze cosmopolite.

7. Non ci smarriremo nell’elaborazione di teorie e ideologie. Le nostre parole saranno essenziali. Scriviamo con lo sporco sotto le unghie.

8. La fine del mondo per come lo conosciamo, non equivale alla fine del mondo e basta. Insieme, troveremo una speranza posta al di là della speranza ‒ un sentiero che conduca al mondo ignoto che si staglia all’orizzonte.



Note [1] Tutti i passaggi tratti da opere in inglese sono stati tradotti dall'autore del presente saggio.

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