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«Dove siamo noi». Le donne nere nel mondo dell’arte


Faith Ringgold, Black Light Series #10 Flag for the Moon: DIE NIGGER, 1969 (olio su tela) © 2017 Faith Ringgold. Courtesy l’artista e ACA Galleries NYC



«Se le donne nere fossero libere, significherebbe che chiunque altro lo dovrebbe essere, dal momento che la nostra libertà implicherebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione»

Combahee River Collective, 1977.


Apparentemente, quella che sembra una replica della Stars and Stripes, riprodotta a olio in un’ampia superficie, è il decimo dipinto dalla serie Black Light#10 dell’artista afroamericana Faith Ringgold, dedicato alla celebre immagine dell’allunaggio di Apollo 11, quando Neil Amstrong il 20 luglio 1969 piantava la bandiera degli Stati Uniti d’America sulla superficie lunare. Ma non serve nemmeno avvicinarsi troppo per cogliere un elemento che altera le stelle grigie (e non bianche) dell’iconica Old Glory, in cui leggiamo chiaramente la scritta in nero «DIE» nell’area blu che contiene le stelle. Spostando (e rovesciando) lo sguardo, al posto delle strisce bianche, si intravede la parola «NIGGER» in lettere grigio-marroni allungate orizzontalmente sullo sfondo rosso in bande irregolari. Il messaggio è quasi illeggibile ma non invisibile, «DIE NIGGER» e di colpo il comando è chiaro: nel falso universalismo americano segnato da una storia di schiavitù e segregazione, la «bandiera ostile» non è più vessillo di libertà e pace ma feroce realtà di odio, violenza e pregiudizi razziali, nella costruzione e nell’affermazione dell’identità americana.

Le stelle e strisce di Ringgold (Flag for the Moon: Die Nigger, 1969) raccontano un’altra America e interrompono la narrativa dell’armonia nazionale che la bandiera ostenta, sfidando l’arroganza della cultura suprematista dominante, nel perpetuare un’eredità di colonizzazione e di disprezzo strutturale per la vita dei neri [i]. Era stata bell hooks a indicare Faith Ringgold come ispirazione e modello di donna che ha sfidato «l’ulteriore cancellazione dell’eredità estetica e dei contributi artistici delle donne nere» [ii], auspicando la necessità di un nuovo campo visuale di rappresentazioni decolonizzate. Sebbene una considerevole attenzione sia stata indirizzata alle scrittrici di colore emerse in quegli stessi anni, tra cui Toni Cade Bambara, Toni Morrison, Ntozake Shange, Alice Walker e Michele Wallace (che è la figlia di Ringgold), certamente meno visibilità è stata data alla loro controparte nelle arti visive.


Jan van Raay, Faith Ringgold e Michele Wallace partecipano alla protesta di Art Workers Coalition al Whitney Museum, 1971. Courtesy Jan van Raay © Jan van Raay


«Il razzismo prende due direzioni principali nel mondo dell’arte. La prima è un palese pregiudizio, come nell’indifendibile esposizione Nigger Drawings. […] La seconda non è solo una semplice estromissione: avviene quando i musei non considerano l’arte del Terzo Mondo in quanto “Arte”, ma come etnografia», così scriveva Lucy R. Lippard in Color Scheming [iii], a proposito della discutibile esposizione del 1979 presso Art Space a New York, in cui l’artista Donald Newman presentò una serie di disegni astratti a carboncino sotto lo sprezzante appellativo Nigger Drawings, noncurante dell’uso superficiale di un insulto razziale nel titolo, assegnato per giunta da un artista maschio e bianco. Lippard considera la mostra un esempio di estremismo, intolleranza e fanatismo nel mondo dell’arte, comparandola a una più insidiosa discriminazione istituzionale, non meno dannosa di quella che avviene attraverso l’esclusione o la segregazione degli artisti di colore [iv]. Nigger Drawings introduce una nuova forma di razzismo: la brutalità chic: «le patologie sociali si mascherano da virtù ritrovate. Il razzismo, il sessismo, la povertà, la violenza sociale e la repressione emergono in forma glamourizzata (patinata)». [v]

Negli stessi anni, gli artisti partecipano alle lotte di liberazione – femministe, anticoloniali e antirazziste – attraverso pratiche critiche di opposizione e di istituzionalizzazione del dissenso: pageant, guerrilla theatre, manifestazioni e agit-prop trasformano la protesta in un lavoro artistico. Art Workers’ Coalition (AWC), Guerrilla Art Action Group (GAAG), Women Artists in Revolution (WAR), Black Emergency Cultural Coalition, per citarne alcune, si mobilitarono per decentralizzare il potere patriarcale e l’organizzazione razzista e capitalista della società, per impedire la rimozione rivolta, storicamente e sistematicamente, non solo nel mondo dell’arte, a comunità marginalizzate, donne, gruppi minoritari e afro-discendenti: non era una mera (seppur necessaria) rivendicazione artistica, culturale e identitaria ma la messa in discussione delle gerarchie sociali e delle condizioni materiali di chi sta ai bordi e che, da questa marginalità, che è anche il luogo della lotta («spazio di creatività e di radicale possibilità»), può produrre immaginari contro-egemonici. L’estetica nera poteva stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria (bell hooks, 2020) [vi].


Carrie Mae Weems, Family Pictures, and Stories, 1981–1982 © Carrie Mae Weems. Courtesy l’artista e Jack Shainman Gallery, New York


Nel 1968, si era costituita Black Emergency Cultural Coalition, in risposta alla controversa Harlem on My Mind: Cultural Capital of Black America, 1900-1968, un’«esposizione ambientale ed etnica totale», al Metropolitan Museum, che esplorava la storia della comunità nera di Harlem ma decideva di farlo senza nessun coinvolgimento dei residenti del quartiere e soprattutto rifiutando la partecipazione degli artisti afroamericani. La cosa, inevitabilmente, sollevò questioni razziali, politiche ed estetiche. Negli anni del movimento per i diritti civili e del Black Power, la cultura nera emerse al Met non come scena artistica ma in quanto studio etnografico, come se i residenti di Harlem non potessero rappresentare sé stessi, se non attraverso l’interpretazione del museo, confezionati come oggetti culturali [vii]. O meglio, con il proposito deliberato di esibire i neri solo per «metterli in vetrina».

La mostra, appoggiata con entusiasmo dai sostenitori finanziari dell’istituzione, suscitò polemiche e forti conflitti di classe. Toni Morrison ne evidenzia le intenzioni populiste e la palese diffamazione razzista: la decisione di mostrare gli afro-discendenti attraverso murales fotografici di grandi dimensioni e di respingere le loro opere d’arte come indegne di entrare nel museo «dirottava gli spettatori su una rappresentazione strumentalizzata e caricaturale della vita nera come criminale, povera, esclusivamente sensuale» [viii]. Più avanti, nel 1971 la Coalition inviterà a boicottare Contemporary Black Artists in America, mostra organizzata dal Whitney Museum ancora una volta senza il coinvolgimento di artisti di colore. Aderendo al boicottaggio, alcuni partecipanti si ritireranno, accusando il museo di cancellare l’alterità delle radici culturali dell’arte afroamericana, e di simbolizzare gli artisti black come note ai margini delle narrative eurocentriche della modernità occidentale.


Carrie Mae Weems, Portrait of a Woman Who Has Fallen from Grace and into the Hands of Evil, 1988 © Carrie Mae Weems. Courtesy l’artista e Jack Shainman Gallery, New York


«Ci sembravano semplicemente pazze perché non riuscivamo a capire cosa le donne bianche avessero da lamentarsi» [ix]

Quegli anni vedono anche l’emergere di rivendicazione femministe nere, espressione di un forte disagio nei confronti del Black Liberation Movement, in cui le molte donne nere attive politicamente, rintracciavano atteggiamenti ipermaschilisti, nazionalisti e patriarcali, sempre più pervasivi, sia nelle politiche che nell’organizzazione. Tuttavia il movimento delle donne, composto principalmente da donne bianche della classe media, risulterà una posizione altrettanto inadatta[x].

Il Combahee River Collective, fondato a Boston da un gruppo di femministe nere e lesbiche tra cui Barbara Smith e Gloria Hull, afferma nel primo pronunciamento teorico del 1977, la simultaneità dei sistemi di oppressione razziale, sessuale, eterosessuale e classista come interconnessi, rivendicando il femminismo nero come il movimento politico per combatterle. Parte di un’onda di formazioni attive negli Stati Uniti negli anni Settanta, tra cui National Alliance of Black Feminists (NABF), National Black Feminist Organization (NBFO) e la Third World Women’s Alliance (TWWA), il collettivo prende il nome da Combahee River, il luogo nella Carolina del Sud da cui l’ex schiava abolizionista Harriet Tubman diresse l’unica campagna militare, nella storia degli Stati Uniti guidata da una donna, in cui vennero liberati 750 schiavi. Combahee River Collective sentiva che le politiche di NBFO non erano abbastanza radicali e che le loro analisi identitarie e anti-sessiste, come quelle delle organizzazioni femministe bianche e liberali, non erano sufficientemente integrate con una chiara comprensione delle oppressioni della razza e della classe ma, soprattutto, non erano adeguatamente orientate ai bisogni delle donne afroamericane povere e delle classi operaie.


«Il carattere inclusivo della nostra politica ci rende attente a ogni situazione che incide sulla vita delle donne, delle persone del Terzo Mondo e di chi lavora […] Potremmo, per esempio, impegnarci nell’organizzare le donne sul luogo di lavoro in una fabbrica che impiega donne del Terzo Mondo, o fare picchetti davanti a un ospedale che sta riducendo la già inadeguata offerta sanitaria che fornisce a una comunità del Terzo Mondo, o mettere in piedi un centro di assistenza contro lo stupro in un quartiere nero. Un altro tema potrebbe essere l’organizzazione intorno al welfare e agli asili. Il lavoro da fare e le innumerevoli lotte che possono derivarne riflette semplicemente la pervasività della nostra oppressione». [xi]


Lorraine O’Grady, Mlle Bourgeoise Noire continues her tournée, 1980-1983/2009. Photo c/o CAAM and Alexander Gray Associates


Nello spazio-tempo di questa cronologia, la questione del primato della dimensione sessuale dell’oppressione della donna veniva sollevata con asprezza anche nel mondo dell’arte. C’è solo un posto riservato a una donna di colore in The Dinner Party di Judy Chicago: l’ex-schiava, abolizionista e attivista per i diritti delle donne, Sojourner Truth che però non è raffigurata con una vulva floreale immaginata in modo creativo, come per gli altri 38 personaggi femminili convocati dall’artista, il suo è l’unico piatto che mostra tre volti dipinti con patterns che richiamano l’arte africana: «mi è venuto in mente – scriverà Alice Walker in proposito - che forse le femministe bianche, non meno delle donne bianche in generale, non riescano a immaginare che le donne nere abbiano la vagina»[xii].

Analogamente, nel testo introduttivo al catalogo della mostra del 1980, presso il primo spazio cooperativo a gestione femminista A.I.R. Gallery di New York, intitolata Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artist of the United States, l’artista cubana Ana Mendieta - una delle tre curatrici, insieme alle artiste Kazuko Miyamoto e Zarina Hashmi – scrive in aperta polemica con la leadership bianca del collettivo che «il femminismo americano così com’è è fondamentalmente un movimento della classe media bianca». La mostra stessa era un gesto oppositivo che non si basava sull’idea di inclusione – cioè dare spazio ad artisti di colore in uno spazio fino ad allora esclusivamente bianco – ma piuttosto su una proposta più radicale: il valore produttivo della differenza, il potere di prendere la parola da una posizione di isolamento e il rifiuto ad essere assimilata.

«In quanto donne non-bianche, le nostre lotte sono duplici» continua Mendieta: «Questa mostra non punta necessariamente all’ingiustizia o all’incapacità di una società che non è stata disposta a includerci, ma piuttosto verso una volontà personale di continuare ad essere l’“Altra”» [xiii]. L’assunzione del termine Terzo mondo[xiv] per indicare le donne di colore residenti negli Stati Uniti, non si basava su una grande e univoca nozione e narrazione di femminismo, ma sulla costruzione di coalizioni strategiche tra nere, chicane, indigene e altre femministe non bianche che, riconoscendo la propria oppressione come retaggio del colonialismo e di molteplici forme di violenza, hanno criticato i privilegi di classe e di razza del femminismo occidentale e affermato la propria liberazione come parte di un più ampio processo di decolonizzazione: dalle lotte antimperialiste al movimento sudafricano anti-apartheid, ai gruppi per l’indipendenza nelle ex-colonie e la lotta contro la povertà.


See Red Women’s Workshop, Black Women Will Not Be Intimidated, 1980-81. Courtesy of See Red Women’s Workshop


Nel 1977, le accuse di razzismo interessarono il collettivo Heresies e l’omonima rivista («Heresies: A Feminist Publication on Art and Politics»), in seguito alla pubblicazione del numero III: Lesbian Art and Artists e ad alcune «sviste e omissioni». In particolare era messa sotto accusa la completa assenza di artiste di colore nel numero della rivista, che rifletteva i privilegi economici e sociali non riconosciuti delle componenti del comitato editoriale, prevalentemente bianche e di classe media. «Troviamo sconcertante che tra cento anni sarà possibile per le donne concludere che nel 1977 non operavano artiste nere e lesbiche del Terzo Mondo»[xv]: le Combahee River Collective scrivono alla redazione criticando il Lesbian Issue Collective per l’esclusione delle donne di colore dalla pubblicazione. Come conclude Barbara Smith:


«Il motivo per cui il razzismo è una questione femminista è facilmente spiegato dalla definizione intrinseca di femminismo. Il femminismo è la teoria e la pratica politica per liberare tutte le donne: le donne di colore, le donne della classe operaia, le donne povere, le donne disabili, le lesbiche, le donne anziane, così come le donne eterosessuali bianche economicamente privilegiate. Ogni cosa meno di questo non è femminismo ma solo auto-esaltazione femminile» [xvi].


Le accuse di simbolismo e di privilegio però persistettero e vennero successivamente pubblicati due numeri dedicati alle donne di colore: Third World Women - The Politics of Being Other (1979) e Racism Is the Issue (1982). In una recensione del volume dedicato alle donne del Terzo mondo, nel magazine «Sojourner», Evelynn Hammonds affermava la necessità di «una risposta, una certa responsabilità da parte delle femministe bianche che controllano queste pubblicazioni se si vuole affrontare seriamente la questione del razzismo e dell’invisibilità delle donne del terzo mondo»[xvii].


Lorna Simpson, Rodeo California (Rodeo Caldonia High-Fidelity Performance Theater collective, da sinistra a destra Alva Rogers, Sandye Wilson, Candace Hamilton, Derin Young e Lisa Jones), 1986. Albright-Knox Art Gallery exhibition We Wanted a Revolution. © 1986 Lorna Simpson. Courtesy Brooklyn Museum


Perché non ci sono grandi artiste nere? [xviii]

All’inizio del 1971, Kay Brown, Dindga McCannon e Faith Ringgold riunirono un gruppo di donne di colore nella casa di McCannon a Brooklyn per discutere delle loro comuni frustrazioni nel tentativo di costruire la propria carriera di artiste e delle insormontabili difficoltà da affrontare per esporre il proprio lavoro, dato che la maggioranza dei galleristi dubitava che i neri o le donne potessero legittimamente affermare di essere artisti. Da questo incontro iniziale è nata la prima esposizione collettiva di artiste nere: Where We At: Black Women Artists 1971, presso la galleria Acts of Art nel West Village a New York. Presto. Where We At (Dove siamo noi) divenne una piattaforma politica di riferimento per le donne marginalizzate sia dal Black Art Movement («il braccio culturale della rivoluzione nera» e controparte estetica del Black Power Movement), prevalentemente maschile, che dalle organizzazioni femministe fondamentalmente bianche. Di fatto, sebbene producessero arte, molte delle componenti di WWA non consideravano sé stesse in quanto artiste ma come dilettanti, «eravamo condizionate a pensare che non potevano realmente ottenere lo status professionale di artista», scrisse Kay Brown[xix]

Negli anni successivi, il gruppo si è mobilitato per cercare circuiti espositivi diversi e si è così aperto a comunità più ampie; per esempio portando la propria arte negli ospedali, tramite una sovvenzione del National Endowment for the Arts, lavorando con gli anziani del Cumberland Hospital di Brooklyn e con i reclusi nel reparto carcerario del Bellevue Hospital di New York, organizzando mostre itineranti e laboratori artistici per i figli dei detenuti. WWA ha trovato la propria azione politica nella ridistribuzione sociale della creatività, dentro istituzioni educative e nei servizi sociali dove potevano diffondere il messaggio anti-razzista e anti-sessista.

A sinistra: Pat Davis, “Where We At”, Black Women Artists, 1980. We Wanted a Revolution: Black Radical Women, 1965-85 organizzata dal Brooklyn Museum. Photo: Pat Davis c/o CAAM © Estate of Pat Davis. Courtesy l’artista


A destra: Where We At Collective, Cookin' and Smokin', 1972 © Dindga McCannon and courtesy the Dindga McCannon Archives


Quando nel 1972 parteciparono a due esposizioni con l’associazione femminista National Conference of Women in Visual Arts al Greenwich Village e nel centro di Manhattan, Kay Brown ha rilevato che, se le artiste femministe bianche affrontavano direttamente le questioni del sessismo, le black women artists esploravano l’unità della famiglia nera, le relazioni maschio-femmina di colore e altri temi relativi alle condizioni sociali e alle tradizioni africane:


«Alcune persone collegano i guadagni ottenuti dalle donne di colore all’influenza delle artiste femministe. Non credo che questa sia una valutazione accurata. Sebbene WWA e altre artiste di colore concordino sul fatto che le donne dovrebbero ottenere giustizia economica e artistica, generalmente ci consideravamo parte integrante del movimento artistico nero. La nostra lotta era principalmente contro la discriminazione razziale, non solamente contro il sessismo. Non eravamo preparate ad alienarci dai nostri fratelli artisti» [xx].


Da sinistra a destra: Faith Ringgold, All Power to the People, 1970 © 2017 Faith Ringgold/Artists Rights Society (ARS), New York; Courtesy l’artista e ACA Galleries, NYC.

Faith Ringgold, Woman Freedom Now, 1970 © 2017 Faith Ringgold/Artists Rights Society (ARS), New York; Courtesy l’artista e ACA Galleries, NYC.

Faith Ringgold, Committee to Defend the Panthers, 1970. Collage su cartone (71.1 × 55.9 cm) @moma, New York, The Abby Aldrich Rockefeller Endowment for Prints © 2017 Faith Ringgold / Artists Rights Society (ARS), New York


Faith Ringgold, tra le co-fondatrici di WWA, attiva nella Black Emergency Cultural Coalition, in United Black Artists’ Committee e in gruppi femministi tra cui Ad Hoc Women Artists, è stata a lungo riconosciuta come la principale artista femminista nera, impegnata contro il razzismo, il sessismo, il militarismo e altre forme di oppressione. Quello che è forse il suo ciclo di lavori più noto, le «narratives quits», («narrative trapunte»), denuncia la discriminazione sia attraverso i soggetti iconografici sia ricorrendo a una tecnica tramandata da una tradizione di schiavitù. Ci ricorda infatti bell hooks che «spesso le donne schiave nere trapuntavano, come parte del loro lavoro nelle famiglie bianche»[xxi]. Nel 1970 Ringgold ha fondato, con la figlia Michele Wallace, l’organizzazione militante Women Students and Artists for Black Art Liberation (WSABAL). Wallace ha attribuito enfaticamente alla madre il merito di aver plasmato la sua prospettiva sull’arte visiva, il femminismo e la politica (come spiega in To Hell and Back: On the Road with Black Feminism in the ‘60s and ‘70s e in Feminism, Race and the Division of Labour). Ha assistito all’evoluzione della madre come black feminist visual artist, accompagnandola alle manifestazioni a New York dove donne, artiste di colore e gruppi minoritari reclamavano il proprio riconoscimento da parte del sistema. Nel 1979 Wallace pubblicherà la sua opera più nota Black Macho and the Myth of the Superwomen, piena di riferimenti autobiografici: il tropo della donna nera forte a cui è negata la propria narrativa, l’invisibilità delle donne nere nei movimenti dominati dagli uomini neri, l’invisibilità delle donne nere in generale; un atto d’accusa verso il patriarcato nero, quel misogynoir che però non distoglie dallo scontro con la supremazia bianca. L’antirazzismo non era solo una posizione tra le tante con cui identificarsi nella lotta contro il patriarcato: era, al contrario, il presupposto necessario.


Faith Ringgold, For the Women’s House, 1971. Courtesy of Rose M. Singer Center, Rikers Island Correctional Center © 2017 Faith Ringgold, Artists Rights Society, New York. Courtesy Brooklyn Museum


Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, Ringgold produce cicli di lavoro storici come American Dream; American Black; U.S. Postage Stamp Commemorating the Advent of Black Power; fino a Slave Rape Story Quilt (nel 1985) che racconta la storia dello stupro e le violenze di una giovane schiava in una piantagione della Carolina del Sud. Sono di quel periodo anche i poster di supporto ai Black Panthers, e il dipinto di denuncia del sistema penitenziario americano e delle incarcerazioni di massa dei neri (United States of Attica, 1971). In seguito all’arresto di Angela Davis, sempre in quegli anni, produce il suo più importante dipinto femminista, For the Women’s House, per il New York City Correctional Institution for Women (precedentemente Women’s House of Detention) a Rikers Island, e lo dedica alle detenute donne, il 18 gennaio 1972. Prima di iniziare l’opera, ha incontrato alcune delle donne recluse e realizzato interviste per scoprire che tipo di immagini avrebbero voluto vedere, storie di donne al di fuori dei tipici ruoli domestici, come racconta in una lunga intervista a Wallace[xxii]. Tuttavia, una delle opere più esplicite di Ringgold nel supporto alla causa femminista nera è Woman Freedom Now: su triangoli neri, rossi e verdi si incastrano parole che appaiono rovesciate, realizzate con il Kuba design ispirato alle produzioni tessili africane, che instaura un dialogo mai interrotto tra il femminismo e le black liberation politics.

Howardena Pindell, Free, White and 21, still da video, 1980. Courtesy l’artista e Garth Greenan Gallery, New York


«Come donna nera americana, attingo alla mia esperienza per come l’ho vissuta e non come altri desiderano percepire il mio vivere romanzato nei media e nei cosiddetti libri di «storia». I neri americani, tutti gli americani non-bianchi, affrontano quotidianamente il razzismo proiettato su di loro da maschi e femmine bianchi ... La femminista bianca che desidera l’uguaglianza per sé stessa, troppo spesso rimane una razzista nella sua «uguaglianza», e il suo razzismo resta inavvertito dalle sue colleghe, che possono anche portare lo stesso veleno» [xxiii].


Così scriveva Howardena Pindell nel catalogo di Dialectics of Isolation, a proposito del videoritratto Free, White, and 21 (1980), in cui l’artista recita due personaggi: sé stessa, una donna di colore che racconta le discriminazioni razziali subite e una femminista bianca liberale. In un continuo dialogo avanti e indietro, la telecamera oscilla tra un primo piano della Pindell nera che descrive momenti di marginalizzazione e ghettizzazione vissuti sin dall’infanzia e la Pindell bianca che, vestita con una parrucca bionda e occhiali scuri, non ignora semplicemente le lamentele della donna nera ma la minaccia e la rimprovera continuamente, accusandola di essere paranoica e ingrata, operando quello che viene chiamato «gaslighting», una forma di manipolazione psicologica violenta e subdola che porta la vittima a dubitare dei suoi stessi ricordi.


Mickalene Thomas, Why Can’t We Just Sit Down and Talk It Over, screenprint, 2006 © Mickalene Thomas


La problematica raffigurazione della nudità del corpo femminile nero e della sua ipersessualizzazione riflettono un nesso di ideologie razziali e patriarcali, al centro di molte performance e lavori fotografici, da Lorna Simpson a Carrie Mae Weems o Lorraine O’Grady, solo per citarne alcune. Le rappresentazioni autobiografiche della femminilità nera di Betye Saar non sono erotiche né riproducono esplicitamente il suo corpo. Questa scelta, però, non intende evitare un rimando ai tropi del primitivo e dell’esotico ma piuttosto esprime il rifiuto dell’estetica dell’avanguardia femminista in cui la sola preoccupazione delle artiste americane era riappropriarsi della rappresentazione del proprio corpo, un interesse esclusivo per un’«estetica femminile» determinata dalla sessualità della donna che Saar disconosce.

Saar partecipa attivamente all’avanguardia femminista unendosi al collettivo che aprirà la galleria Womanspace in un’antica lavanderia a gettoni, a Los Angeles. Alcuni episodi di razzismo e isolamento contribuirono alla fine di quell’esperienza. Saar per rendere il gruppo più inclusivo aveva curato la mostra Black Mirror nel 1973, per la quale riprodusse The Liberation of Aunt Jemima come emblema delle dinamiche razziali interne al movimento delle donne. Nell’opera l’artista racconta come le colleghe bianche raramente partecipassero alle attività e agli eventi correlati alla mostra: «Era come se noi [donne nere] fossimo di nuovo invisibili. Le donne bianche non ci sostenevano. Ho sentito il separatismo anche dentro il contesto di Womanspace».


Betye Saar, The Liberation of Aunt Jemima, 1972. Berkeley Art Museum and Pacific Film Archive, Berkeley, California. Photo by Benjamin Blackwell. Courtesy of the artist and Roberts & Tilton, Los Angeles, California


The Liberation of Aunt Jemima è l’opera più apertamente politica di Betye Saar, realizzata nel 1972 in occasione di una open-call rivolta ad artisti neri per esporre al Rainbow Sign, un centro comunitario a Berkeley nei pressi del quartier generale dei Black Panthers: un assemblaggio che trasforma mammy - uno dei più dispregiativi e umilianti stereotipi della donna nera, profondamente radicato nel razzismo americano - in una guerriera armata, una leader rivoluzionaria. L’artista collezionava da tempo popolari immagini razziste (parodie di persone di colore - comprese le pubblicità di pastella per pancake Aunt Jemima, ancora oggi in commercio - innumerevoli illustrazioni di Pickaninnies e Black Sambos, o un marchio di dentifricio chiamato Darkie) e in quest’opera la figura caricaturale di Jemima è un, già esistente, bloc-notes per casalinghe in cui inserisce una cartolina vintage che raffigura una donna nera con in braccio un bambino di razza mista, come allusione all’aggressione sessuale e alla sottomissione delle schiave da parte di uomini bianchi. A questa, sovrappone il pugno simbolo del potere nero, su uno sfondo di etichette di pancake con Aunt Jemima. Nel 1973 Liberation of Aunt Jemima: Cocktail rappresenta un cocktail molotov in cui denuncia sia la brutalità della polizia e il razzismo di Stato, sia l’aggressivo stereotipo commercializzato della femminilità nera, mentre sembra dirci che l’unica arma è l’antagonismo.


Betye Saar, Liberation of Aunt Jemima: Cocktail, 1973, materiali vari, vetro, carta, metallo, 31.8 × 14.6 cm; fondo Elizabeth A. Sackler, Brooklyn Museum, New York. Courtesy l’artista e Brooklyn Museum


L’arte doveva servire i neri nella lotta di liberazione, invitare alla resistenza e ispirarla - scriveva bell hooks. La lotta femminista e antirazzista è anche la battaglia per il riconoscimento del lavoro intellettuale, artistico e letterario: ora le donne razzializzate - ci ammonisce Saar - non saranno più oggetto di oppressione e disprezzo sistematici, né saranno sottoposte a stereotipi umilianti: ma solo se armate come Aunt Jemima si libereranno.



Note [i] Nel 1970 Ringgold e altri due artisti, John Hendricks e Jean Toche, furono arrestati per l’organizzazione della mostra People’s Flag Show presso il Judson Memorial Church nel West Village di Manhattan; nel poster dell’evento realizzato da Ringgold la bandiera è modificata da una dichiarazione della figlia, Michelle Wallace: «A flag which does not belong to the people / To do with as they see fit ∙ Should be burned and forgotten ∙ Artists, workers, / Students, women, third world peoples ∙ You are oppressed ∙ What does the flag mean to you?» [ii] «Questa scrittura è stata ispirata dal lavoro dell’artista Faith Ringgold, che ha sempre amato e celebrato il lavoro artistico di donne nere sconosciute e non riconosciute» (bell hooks, Yearning: Race, Gender, and Cultural Politics, Routledge, 2014, p.115). [iii] L. R. Lippard, Color Scheming, «The Village Voice», April 22–28, 1981. [iv] «I gruppi artistici minoritari, nel corso degli anni, sono stati combattuti sul se dovessero rispondere all’ostilità o all’omissione, nelle manifestazioni antagonistiche o escludenti del razzismo,. Si ritiene che l’esibizione di qualsiasi tipo di arte da parte di artisti minoritari sia un atto politico. L’altro - non necessariamente contraddittorio - sostiene che l’arte stessa dovrebbe essere critica riguardo alla situazione. Inerenti a queste scelte ce ne sono altre: i gruppi minoritari dovrebbero concentrarsi sull’arte o sulla politica? Gli spazi espositivi delle minoranze dovrebbero essere santuari separatisti, che coltivano teneramente culture in via di estinzione? O dovrebbero rinunciare alla “ghettizzazione” e rischiare di esigere la loro parte di torta di status, denaro e cooperazione?» (L. R. Lippard, Color Scheming, cit.) [v] cfr. Action Against Racism in the Arts, in «Heresies», n. 8 (1979), p. 108–111. Una coalizione di artisti e critici tra cui Lucy Lippard, Carl Andre, May Stevens, Edit Deak, Faith Ringgold e Howardena Pindell h anno pubblicato una lettera aperta in cui criticavano la mostra e hanno organizzato un dibattito in galleria, ma quando i membri della Emergency Coalition e i loro sostenitori sono arrivati il 14 aprile, come annunciato, hanno trovato le porte chiuse. Sebbene la mostra Nigger Drawings sia stata chiusa il 10 marzo, le proteste e le contro-proteste sono continuate. [vi] bell hooks scrive: «L’articolazione cosciente di un’«estetica nera», quale è stata costruita dagli artisti e dai critici afroamericani nel corso degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta, è stata il tentativo di stabilire un nesso tra produzione artistica e politica rivoluzionaria» (bell hooks, Estetica della nerezza: estraneità e opposizione, in Elogio del margine-Scrivere al buio, (traduzione Maria Nadotti), Tamu Edizioni, Napoli, 2020, p. 63. [vii] B. R. Cooks, Black Artists and Activism: Harlem on My Mind, 1969, in “American Studies”, Vol.48, No.1, Spring 2007, p.5-21. [viii] Molte le questioni controverse, che accompagnarono la mostra, tra cui: l’atteggiamento di condiscendenza del curatore nei confronti della servitù nera (la «domestica solare», l’«arcigno» autista nero); un palese insulto razzista contro gli ebrei; la decisione di affidare il testo critico a una studentessa senza nessuna competenza (come se gli artisti neri non meritassero un critico o storico dell’arte); infine come esempio di voyerismo bianco fu posizionata una telecamera a circuito chiuso per osservare la vita di Harlem, come in uno zoo umano (T. Morrison, Harlem on my Mind. Contestare la memoria – Una meditazione sui musei, la cultura e l’integrazione, in L’importanza di ogni parola, Sperling & Kupfer, Milano, 2019). [ix] Barbara Smith citata in K. Springer, Living for the Revolution: Black Feminist Organizations, 1968-1980, Duke University Press, Durham, N.C 2006, p.57. [x] Una fonte preziosa è stato il catalogo della mostra seminale We Wanted a Revolution: Black Radical Women, 1965-85, a cura di Catherine Morris e Rujeko Hockley, tenutasi nel 2017 al Brooklyn Museum of Arts, per l’Elizabeth A. Sackler Center for Feminist Art; la pubblicazione contiene reprint di articoli, documenti e articoli. Si veda C. Morris - R. Hockley, We Wanted a Revolution. Black Radical Women, 1965–85: A Sourcebook, Duke, University Press, Durham, N.C 2017. [xi] Dichiarazione Combahee River Collective (1977), in D. Ardilli (a cura di), Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), VandA.ePublishing, Milano 2018, p. 224. [xii] Apparso originariamente nelle pagine di Ms.magazine già nel 1979, vedi A. Walker, In search of our mothers’ gardens: womanist prose, Harcourt Brace Jovanovich, San Diego: 1983, p.373. [xiii] Mendieta attiva nella galleria dal 1979, si ritirò nel 1982, concludendo che il movimento femminista mainstream aveva nuovamente mancato di prendere in considerazione le sue controparti non bianche e ignorato le questioni di razza e classe, non solo genere e sessualità. [xiv] l’espressione Terzo mondo attingeva a un termine della Guerra Fredda che si riferiva principalmente alle nazioni in via di sviluppo nel Sud globale, che resistevano all’allineamento con le superpotenze dell’alleanza della NATO (il Primo Mondo) e del blocco comunista (il Secondo Mondo). [xv] Prima che il numero IV di «Heresies: A Feminist Publication on Art and Politics» (che aveva debuttato nel gennaio 1977) intitolato Women’s Traditional Arts – The Politics of Aesthetics andasse in stampa nel 1978, venne recapitata la missiva di Combahee River Collective che fu pubblicata tra le lettere alla redazione. [xvi] Ibidem [xvii] Hammonds, Invisible Sisters, «Sojourner» 5, n.9, Maggio 1980; citato in We Wanted Revolution, p.186. [xviii] Nel 1992 con la pubblicazione del suo Black Popular Culture, Michele Wallace si chiede: Why Are There No Great Black Artists? The Problem of Visuality in African-American Culture. [xix] Tutte le citazioni sono state riprese dal testo di Valerie Smith, Abundant Evidence: Black women artists of the 1960s and 70s, nel catalogo della mostra itinerante WACK! Art and the Feminist Revolution, curata da Cornelia Butler nel 2007, pp. 400-413. [xx] Ivi, WACK! Art and the Feminist Revolution, p. 403. [xxi] «Il lavoro delle donne nere creatrici di trapunte necessita di commenti critici femministi speciali che considerino l’impatto di razza, sesso e classe. Molte donne nere hanno trapuntato, nonostante le circostanze economiche e sociali oppressive che spesso richiedevano di esercitare l’immaginazione creativa in modi radicalmente diversi da quelli delle controparti femminili bianche, in particolare le donne privilegiate che avevano un maggiore accesso a materiali e tempo», bell hooks, Aesthetic Inheritances: History Worked by Hand, in J. Livingstone - J. Ploof The Object of Labor: Art, Cloth, and Cultural Production, The MIT Press, Boston 2007, p. 329. [xxii] M. Wellace, For the Women’s House: Interview with Faith Ringgold, «Feminist Art Journal», aprile 1972, p.14-15; ripubblicato in We Wanted Revolution, pp. 106-113. [xxiii] Howardena Pindell, in Catalogue for Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the United States, 1980.

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