Una lettura femministaqueer dell’antispecismo viscido
Elena Mistrello, (contro) la filosofia, Novembre 2020
Antispecismo e femminismoqueer sono la traccia lungo cui Elisa Bosisio, a partire dal volume curato da Massimo Filippi e Enrico Monacelli, discute di un mondo «che dobbiamo imparare a dirci». Quello di una nuova composizione sociale ai tempi della crisi socio-ambientale, oltre l'individuo, dentro e oltre la tecnica, aperta al nonumano. È la provocatoria proposta di un’«(est)/etica rivoluzionaria» (anticapitalista e kink) che affianca endosimbiosi ad autonomia, limite a libertà, per complicare (decostruire o del tutto distruggere?) il privilegio umano al centro del pensiero occidentale. Una riflessione edotta, istruita con ricercatezza, che si inserisce in un filone di pensiero decisamente à la page, e sembra a tratti tratteggiare la sublimazione dell’impotenza nell’inesorabile crisi di civiltà del Ventunesimo secolo occidentale. [A.C.]
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Divenire invertebrato. Dalla Grande Scimmia all’antispecismo viscido (ombre corte 2020), antologia curata da Massimo Filippi e Enrico Monacelli, è uno strumento diffrattivo e caleidoscopico che scomoda a viaggiare tra personali&politici, pratiche&teorie, dati&desideri già traditi e privi di riferimenti mutualmente escludenti.
Reload.
Fin dai tempi di Manifesto cyborg (1985) e de Le promesse dei mostri (1992) Donna Haraway — un’autrice le cui eco ricorrono senza sosta nell’antologia— invita a giocare molto seriamene con lo sguardo, la vista, le prospettive e l’ottica. La visualità anatomica umana — suggerisce — soffre di limiti naturculturali intrinseci&estrinseci che tagliano, sezionano e così producono una realtà carente rispetto ai movimenti multi-scala della materia che, in quanto stoffa del mondo, non resta in attesa di strumenti e discorsi che ne colgano limpidamente e annotino correttamente le caratteristiche stabili, ma agisce come artigiana&risultato di assemblaggi tra scambi chimici, salti fisici, simbiosi biologiche, pratiche mediche ed economiche, letteratura e produzioni tecnoculturali di varia sorta. Immersi in tale dinamismo differenziale, la vista antropica risulta una paradossale lesione retinica che segue i vettori di quel vecchio eliotropismo fallogocentrico [1] per cui ciò che vediamo attraverso i presuntuosi occhi da Sapiens si staglia nell’ambiente come su uno sfondo in cui tutto si individua lungo confini stabili e netti, vere e proprie linee di frontiera che atomizzano soggetti e oggetti che tutt’al più interagiscono saldi nella loro autocontenzione: è il reame della skinned existence — ossia dei recinti epidermici che astraggono dalle reti dell’esistente — come politica del posizionamento umanista, individualista, vertebrata. Questa postura, indifferente alle torsioni epistemologiche femministe e decoloniali degli ultimi quarant’anni, non concede di vedere im-mediatamente le micropolveri che invadono i nostri polmoni (scrivo dalla Lombardia, regione che l’Air Quality Report 2019 della European Environment Agency registra ad alta contaminazione), così come non permette di cogliere im-mediatamente e unitariamente gli effetti dei gas serra sulle alterità nonumane. L’elenco di ciò che tale sguardo non coglie potrebbe essere infinito: non tiene conto delle ecologie più-che-umane che si annidano rigenerativamente fin dalle nostre cellule, per proseguire nell’ambiente saturo che co-produciamo in assemblaggi irrilevanti per la cognizione dello sguardo illuminista, ma rilevanti come zone di contatto in cui la viseità cara ai «noiosi riferimenti degli ominidi» [2] lascia spazio e dignità epistemologica al tocco, all’esperienza viscerale, allo strofinio tra corpi compositi&composti e ciò che li circonda. Esperienze, queste ultime, forse già note alle creature tentacolari e striscianti.
Refresh.
Nelle pieghe di questo Novembre 2020 scandito dall’evolversi della pandemia di Covid19, il volume a cura di Filippi e Monacelli assume le sembianze di un nuovo dispositivo di visualizzazionecomplesso, parziale oltreché situato, capace di farla finita con la nostra cecità a 11 diottrie e di dislocare e hackerare la visualità per vedere altrimenti.
Ho intitolato questa recensione — che risulta piuttosto una riflessione politica-con e attraverso il testo — Divenire Invertebrat-e/*. Una lettura femministaqueer dell’antispecismo viscido. Un titolo ambizioso che segue le linee del network (o i fili della matassa) che i curatori hanno contribuito a cablare (o intessere) tra antispecismo&Animal Studies e femminismi&Queer/Feminist Studies. Le zone di contatto e interferenza tra queste esperienze sono esplicite in uno dei saggi contenuti nell’antologia Tranimalità nell’epoca della trans*-vita (pp.107-116) firmato da Eva Hayward e Jami Weinstein. Le autrici mappano e contribuiscono a implementare un’alleanza transpecie tra animali nonumani e soggettività sessualmente-non-conformi, certe che agenti forzati a occupare polarità depotenziate nei regimi d’economia binaria possano svelare l’agenda politica che articola grammatiche duali e dicotomiche come quelle animale o umano, femminile o maschile. La vita, dicono, è trans*, ossia l’in-between (lo stare tra), l’essere in-mezzo che è cifra ontologica dell’esistente in sé nelle sue proliferanti manifestazioni di specie (oltre la specie), di genere (oltre il genere), di razza (oltre la razza): è la generalizzazione per cui l’unicità di ogni soggetto si attiva solo negli incontri incarnati con altr*. L’escamotage grafico e concettuale dell’asterisco entra nel discorso come una ragnatela (o, se preferite, come un’anemone tentacolare) e lo performa a partire da esperienze trans*, manifestando la «natura» processuale delle differenze e la trasversalità/ibridità/irriducibilità della materia in sé, oltre l'umano: trans* è la tranimalità (p.115) come esperienza comune a umani e nonumani in relazioni spazio-temporali radicate nella materia, ed è la transessualità come eventizzazione (p. 109) di identità che emergono da intra-azioni multi-direzionali. Di più: trans* è la specie che si disfa nelle sessualità polimorfe che tutt* siamo e il genere che si disfa nell’animalità.
Questa stessa grammatica dell’esistente costituisce la sfida di Karen Barad ne La performatività queer della natura (pp.62-106). In questo saggio la fisica e teorica queer introduce noi lettor* alla correlazione quantistica [entanglement] come inseparabilità ontologica delle componenti agenzialmente intra-attive, spiegando come l’essere entangled non significa semplicemente essere aggrovigliati con un* altr*, come nell’atto di unione tra entità originariamente separate, ma piuttosto essere privi di un’esistenza indipendente e auto-contenuta. Le «cose» del mondo, sostiene e dimostra Barad, non pre-esistono le loro relazioni ma emergono da dentro i fenomeni in virtù di spaziotempomaterializzazioni (p.71) senza le quali non vi sarebbero le loro condizioni di esistenza. La «natura» in questo orizzonte si riconfigura come un sistema complesso in cui forze materiali e spinte semiotiche già composite funzionano come ingredienti (a loro volta compositi) per l’impasto (che diventerà ingrediente). Ma c’è di più, se i fenomeni e le cose si danno nell’incontro, anche lo sguardo di chi/cosa osserva/misura queste relazioni influisce sul cosa succede. Lo dimostra l’esperimento della doppia fenditura (p.95) che rende evidente come un’entità si comporti sia come un’onda che come una particella a seconda delle strumentazioni che la osservano. Ne deriva che l’identità dell’ente è ontologicamente performativa — non fissa o stabile —, ossia aperta a modellamenti che dipendono da rapporti complicati con l’epistemologia. Siamo di fronte alla politicità della torsione onto-epistemologica per cui Haraway ringraziava i femminismi; e i rimandi interni al volume curato da Filippi e Monacelli sono multipli: Bogna Konior e Yvette Granata in Ivvelenismo, uno scavo. Verso un femminismo-senza-esempi (pp.117-124) assumono a tal proposito una postura critica verso il sapere filosofico che reputano in toto un’estroflessione dell’uomo-bianco/occidentale come unica interfaccia per il pensiero. Se la filosofia e la conoscenza tutta si sono mosse dentro il linguaggio patinato dell’illuminazione (e la loro risposta è impietosamente affermativa!), Konior e Granata ci ricordano che la luce del sole potrebbe averci accecat* e che potrebbe valere la pena di far pensiero al/nel buio: con loro e attraverso di loro mi chiedo, quindi, che canali possiamo attivare fuori dalla visualità illuminista che, ora, mi ricorda la luce fredda e martellante degli allevamenti in cui gli animali nonumani sono indotti a un nutrimento compulsivo o a quella nelle carceri che, nei racconti di molt* detenut*, disabitua al buio e alla sua sopportazione. Che succede se spegniamo i neon e dislochiamo lo sguardo nel resto del corpo, guardando con altri organi? Che succede se i confini ben tracciati e sgranati dei corpi —che proprio la luce permette di staccare dal campo— si sospendono nel buio che obbliga ad altre configurazioni di noi stessi, dell’ambiente e dell’altro? Cosa possiamo sentir-vedere nel buio?
È dal buio che, nei film e nella narrativa, compaiono (quasi sempre all’improvviso) i mostri che China Miéville (pp.48-50) incontra nel suo decalogo senza precetti: creature che, dopo aver epitomizzato per secoli il pericolo, la malattia e la sventura, stanno diventando vere e proprie lines of flight da un presente asfissiante. Siamo forse ai tempi del monstrous turn? Da femminista mi chiedo: che succede dunque se, come Konior e Granata, facessimo pensiero camminando fuori dai sentieri illuminati a giorno dal riduzionismo antropocentrico dei saperi moderni? Se pensassimo toccando e non guardando? Se pensassimo respirando? Se pensassimo a partire dalle zanne (p.119) come parti eccedenti al sapere prodotto da quei lumi che disconoscono la complessità invisibile al mero sguardo anatomico oculare? Esiste una trama di relazioni invisibili ad occhio nudo e lo abbiamo già fatto presente con le femministe, scienziate e filosofe, che hanno rifiutato l’assimilazione neoliberale ai saperi cartesiani: il microscopio elettronico a scansione ha, per esempio, concesso alla biologa Lynn Margulis di scoprire — contro quello che chiamerò l’individualismo prospettico di Richard Dawkins [3] — che l’insorgenza di nuove cellule, tessuti, organi e specie è il risultato orizzontale di processi simbiogenetici che vedono diversi microbi, batteri e archea coinvolti in processi di quasi-fusione generativa e creativa (quella che chiameràintimacy of the strangers); raffinate tecnologie di visualizzazione hanno permesso di identificare nell’incontro promiscuo transregno il processo di formazione del genoma dei mammiferi (Homo Sapiens incluso) con particolare riferimento alle sue componenti virali [4]; le popolazioni Amazzoniche «vedono» da sempre la vita umana come uno dei nodi di un processo continuista di differenziazione e ricombinazione che mescola elementi in maniera non-tassonomica e creativa[5], e le popolazioni Aborigene dell’Australia hanno saputo riconoscere flussi e scambi tra corpi animali, umani e «ambiente»[6], mescolando le identità in relazioni ecologiche e riempiendo gli spazi vuoti che separano gli individui, anticipando su varie scale il principio di individualità emergente, transindividualità[7] o transcorporalità[8]. Con che occhi guardano le nuove tecnologie (le cui potenzialità non si esauriscono nella teleologia e nella progettazione ad opera umana) e le popolazioni non-occidentali che ci dimostrano che storicamente abbiamo visto solo quello che unaprospettiva poteva concederci di vedere?
Raccontare una cosa, viene da dire seguendo il pensiero di Barad, prevede il cimentarsi in uno storytelling naturculturale e non in descrizioni che ne sottendono la stabilità ontologica e insieme la limpidità epistemologica del discorso: dire le cose è dire i fenomeni da cui esse emergono e per farlo serve qualcosa di più dei nostri soli occhi.
Questa onto-epistemologia degli entanglement si deposita in maniera disturbate e sorprendente in Criptobiologie di Eugene Thacker (pp.51-61), testo quanto mai attuale in questo 2020 pandemico. Con i dati del CTS e della Protezione Civile nelle orecchie, tremo e al contempo riprendo a nutrire speranza quando leggo che l’«ininterrotto andirivieni» (p.54) di pezzi di materia microbici che passano da un corpo all’altro, svela la rete dell’esistente nella sua natura di network materiale e semiotico, in cui a contare non sono solo i «messaggi» (ossia i microbi che causano infezione e contagi), i canali del contagio ossia i vettori ambiental-materiali e i nodi della rete (ossia i corpi degli animali, principalmente umani, soggetti all’infezione) ma anche i dispositivi biomedici, i mutamenti evolutivi microbici, le scelte politiche delle autorità sanitarie preposte, fattori ambientali antropogenici come inquinamento, inurbamento, logistica, legiferazione. Stato e corpi, Capitale e Virus: vita e politica che si fanno a vicenda (ma che, dunque aggiungo, possono sempre disfarsi e/o rifarsi di nuovo). E se l’implacabile ottusità delle tassonomie spinge i biologi a discutere se i virus meritino lo statuto di «viventi» alla luce del fatto che non possono riprodursi in maniera indipendente e necessitano del metabolismo di un ospite per poter perdurare, alla femminista che legge viene da chiedersi cosa/chi sia davvero indipendente: forse siamo tutt* come i virus, ossia pezzi di materia più o meno complessi che hanno disperato bisogno de* altr* per sopravvivere, sempre espost* al rischio di un eccesso di quel contatto da cui tuttavia non possiamo sottrarci. Voglio respirare!, penso asfissiata dalle brutture di questo mondo dilaniato dal capitalismo, e lo devo fare per assicurare il corretto funzionamento delle mie cellule: ma il mio bisogno di ossigeno mi obbliga a inalare particolati industriali che ledono e ammalano i miei stessi polmoni. E in questa contraddizione vedo aprirsi spazi politici per alleanze tra i femminismiqueer e l’antispecismo viscido! Che ne facciamo degli entanglement che spesso, come rivela Thacker, sono sussunti nel loro dispiegarsi dalle intelligenze stataliste e dai progetti del capitalismo avanzato? Come co-abitiamo con queste alterità nonumane che formano il nostro DNA e alle volte (ci) ammalano?
Chi leggerà questa recensione e si imbarcherà nella lettura di Filippi e Monacelli, si esporrà a linguaggi stridenti e nuovi. Lungi dal rappresentare le ricadute linguistiche di una masturbazione intellettuale che nell’incomprensibile vede riflesse le proprie vette, il linguaggio lasciatoci in eredità dai padri del sapere non risponde alle nostre esigenze eterogenee e alla nostra rabbia politica per veder-toccar-sentire un mondo che dobbiamo imparare a dirci. Allora il prefisso intra- sostituisce il prefisso inter-, provando a rendere conto delle pieghe generative, che fanno un mondo più-che-atomista, un mondo di assemblaggi in cui ogni esistente è «solo» il risultato di un precedente compostaggio e sarà una delle condizioni per una nuova ri-composizione: un mondo di collettivi, assemblee, ecologie. Con l’aiuto del saggio di Claudio Kulesko (pp.29-47), lungi dal romanticizzare questa relazionalità intra-produttiva — come fanno molte derive New Age che richiamano più l’appropriazione culturale che una riflessione politica ai tempi della crisi socio-ambientale — leggo Divenire invertebrato e riconosco — a volte dolorosamente a volte gioiosamente — che l’apertura è mia condizione di esistenza. Un’apertura vincolata e non assoluta, cementata da memorie e interfacce corporee, un’apertura che, tuttavia, mentre mi fa vivere non mi separa dall’aria satura che condivido con aziende petrol-chimiche e soggetti Sars-Cov-2 positivi.
Come femminista ho imparato i dolori dell’apertura mentre imparavo a pensare il capitalismo come emergente da processi generativi e metabolici. Il capitalismo, ci insegna un certo femminismo, ha imparato prima di noi a riconoscere le relazioni e la potenza rigenerativa dei corpi, per farli fruttare come plusvalore. Se il materialismo marxista femminista degli anni Settanta ha aperto la strada a una riflessione politica sui nessi invisibilizzati tra produzione capitalista e riproduzione sociale (quest’ultima intesa come pratica di cura e rigenerazione della specie/forza lavoro, scandita dal mantra «da un lato il male breadwinner, dall’altro la femalecaregiver»!), è a partire dai primi anni Ottanta che le pensatrici femministe investite dal fenomeno della rivoluzione post-industrialecodificata dalla Scuola di Chicago hanno ampliato la riflessione. All’alba della crisi delle risorse non-rinnovabili e del cambiamento climatico il capitalismo dovette decentrare i principi e le strutture fordiste per adattarsi a condizioni imprescindibili: allora la fabbrica venne almeno parzialmente dislocata dallo spazio industriale inquin-ato/ante ai corpi di tutt* e alle relazioni che essi intrattengono, topoi in cui tutto l’esistente viene messo al lavoro attraverso mediazioni tecnologiche sempre più raffinate e capaci di estrarre valore da affetti, creatività, incontri corporei, fluidi&pezzi organici. Più precisamente, nuove forme di produzione post-fordiste presero la materia, in ogni sua forma bio- o zoe- logica — dalla creatività intellettuale agli affetti, dagli embrioni fino agli animali nonumani ed ai batteri — immettendola nei flussi schizofrenici a sfruttamento e invisibilizzazione programmati dell’economia globale: è la femminilizzazione del lavoro tout court.
Le riflessioni di Divenire invertebrato, riconoscendo che l’esistenza in sé non è questione individuale ma sempre politica e sociale e andando a situare l’umano nell’ambiente complesso e saturo leggendone spinte e tendenze in intra-connessione con la dimensione biofisica, si inseriscono in un dibattito femminista interessato all’alterità nonumana già avviato, apportando lo strumento innovativo di quello che Filippi e Monacelli chiamano antispecismo viscido: una critica ai discontinuismi che usa l’ontologia promiscua delle specie invertebrate come (est)/etica rivoluzionaria. Questa (est)/etica opera attraverso figurazioni impreviste che rompono gli specchi dentro cui, come tanti/e Grimildi narcisiste, ci siamo specchiati/e saldi/e nella convinzione che non ci fosse altro da vedere oltre i confini di quel riflesso rassicurante, per fornirci così nuovi strumenti di visualizzazione meno oculari e più oculati, verso un ricollocamento dell’umano nella mischiadell’esistente in cui non c’è romanticizzazione né apocalisse, ma urgente bisogno di pensieri e pratiche che tengano conto del legame. Come fare perché questi entanglement o network siano nelle mani, nelle zampe e nei tentacoli delle creature che vogliono allearsi ai tempi dell’Antropocene e non nelle maglie dell’estrattivismo neolibreale?
Ai tempi del passaggio dalla valorizzazione economica della sola vita umana alla cattura delle tendenze simpoietiche[9] della materia senza limiti, Divenire invertebrato problematizza le frontiere tra ambiente e società, oggetto e soggetto, e funziona come una cassetta degli attrezzi, non come un punto di arrivo o una nuova Bibbia: è un insieme di utensili da impiegare per vedere il mondo altrimenti e fare del pensiero una leva per pratiche politiche che siano al contempo di critica, decostruzione (o preferiamo distruzione?) e cura: nei rapporti che producono incessantemente il mondo, perdere le vertebre vale a dire farsi molle, farsi finocchio, farsi queer, come nota Dagmar Van Engen in Come scopare con un* kraken (pp.125-156) mentre cartografa le assonanze concettuali tra consistenza e forma di polpi e altr* invertebrat* con le categorie umane del pappamolle, dello smidollato, del non fallico e dunque impotente. Farsi invertebrat* potrebbe voler dire abbandonarsi a un fallimento queer[10]: deludere ogni aspettativa di eroica/scultorea foggia e diventare un* rivoluzionari* underachiever.
Tirando le multiple e complicate fila dell’antispecismo viscido con i femminismiqueer, chiudo con la fiducia in una ri-materializzazione del politico che complica la politologia occidentale come spazio privilegiatamente umano, sotto il peso della mancata considerazione e cura di chi è altr*. Una rimaterializzazione che è già una pratica di cura, perché rende conto e si rende conto.
Divenire invertebrato è uno stimolo ad aggiornare le parole d’ordine della militanza novecentesca: non è possibile alcuna autonomia, senza endosimbiosi; non è possibile alcuna libertà senza limiti materiali nell’epoca della Sesta Estinzione di massa. Che i bagliori dei nostri bengala illuminino le nostre alleanze oltre l’umano, accanto alle nostre identità! Oltre l’idea che su un pianeta infetto dobbiamo ballare solo ai ritmi macabri delle danze che inneggiano alla fine del mondo: perché il dolore che vogliamo provare — se lo vogliamo provare! — è solo quello kink e, a differenza di quello che infligge il Capitale a noi donne, ai queers, ai nonumani e a* reietti della Terra, è — e sempre sarà — con-sensuale.
Note [1] D. Haraway, Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata. DeriveApprodi, Roma 2019. [2] L. Margulis e D. Sagan, Origins of Sex: Three Billion Years of Genetic Recombination, Yale University Press, New Haven 1984. [3] R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Zanichelli, Bologna, 1979; Il fenotipo esteso. Il gene come unità di selezione, Zanichelli, Bologna 1986. [4] M. Horie, T. Honda, Y. Suzuki, Y. Kobayashi, T. Daito, T. Oshida, K. Ikuta, P. Jern, T. Gojobori, J. Coffin, and K. Tomonaga, Endogenous non-retroviral RNA virus elements in mammalian genomes, «Nature» 463 (2010): 84–87. [5] E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, ombre corte, Verona 2017. [6] E. Povinelli, The Cunning of Recognition: Indigenous Alterities and the Making of Australian Multiculturalism, Duke Press, Durham&NY 2002. [7] G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2006. [8] S. Alaimo, Exposed. Environmental Politics and Pleasure in Posthuman Times, University of Minnesota Press, Minneapolis&London 2016. [9] M. Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, ombre corte, Verona 2013; A. Balzano, Biocapitale e potenza generativa postumana. Per una critica delle biotecnologie riproduttive trans-specie, «La Camera Blu» 11, pp. 29-46 2015. [10] J. Halberstam, The Queer Art of Failure, Duke Press, Durham&NY2011.
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