Diamond, La quarta porta, 2014
«Distendere il marxismo» lungo la traccia razziale e coloniale che segna la modernità occidentale. Questa è la proposta teorico-politica avanzata da Miguel Mellino e Andrea Ruben Pomella in questo testo che ripercorre criticamente il rapporto tra marxismo e colonialismo e mette a tema la relazione imprescindibile e letale tra razza e modo di produzione capitalistico [1]. Interrogando il lavoro di Marx, del Marx più giovane e del Marx maturo, e gli sviluppi del suo pensiero, tra il «primo marxismo» e il cosiddetto «marxismo occidentale» che si sviluppa in Europa tra gli anni Venti e Settanta del Novecento, il testo introduce la categoria di «marxismo bianco» per portare l’attenzione sulla costante rimozione dei lasciti ineludibili del colonialismo e del razzismo dalla riflessione sulla nascita e lo sviluppo del capitalismo.
Che la comprensione del capitalismo e dell’antagonismo di classe non possa prescindere dalla «questione razziale-coloniale» è un tema già largamente affrontato sulle pagine di Vortex. La categoria di «capitalismo razziale» e il lavoro di Cedric Robinson proposti nelle scorse settimane ne rappresentano un’importante sistematizzazione. Con questo testo intendiamo riprendere e organizzare la riflessione: inquadrare la «piega» bianca del marxismo per scomporla e discuterla attraverso altri contributi che seguiranno [A. C.].
(…) Il grado zero della riflessione che proponiamo ha nel rapporto tra marxismo e colonialismo il suo punto nodale. Il primo marxismo – o marxismo tradizionale – non ha mai sottovalutato la centralità del colonialismo prima, e soprattutto dell’imperialismo poi, nella costituzione e negli sviluppi storici del modo di produzione capitalistico. Non solo Marx ed Engels ma anche Lenin, Trotsky, Hilferding, Kautsky e Luxemburg, per citare solo i più noti, ebbero ben presente quel presupposto reso successivamente celebre dalle pagine de I dannati della terra di Fanon secondo cui «L’Europa è stata una creazione del Terzo mondo» [2]. Tornano qui facilmente alla memoria alcune tra le pagine più note del Manifesto del Partito comunista, della Critica dell’economia politicao del Capitale dedicate da Marx tanto alla divisione (coloniale‑imperiale) internazionale del lavoro come condizione storico materiale/oggettiva costitutiva del mercato mondiale capitalistico nella sua forma moderna (Diciannovesimo secolo) quanto alla conquista dell’America come motore fondamentale del processo di accumulazione originaria in Europa, ovvero all’espropriazione coloniale come parte «dell’aurora sanguinaria dell’era della produzione capitalistica» [3].
(…) Va tenuto presente che Marx, a causa dei suoi interessi teorici rivolti soprattutto alla comprensione della logica di funzionamento del capitale all’interno delle società industriali più avanzate dell’epoca, non tornò ulteriormente sulla questione, lasciando in qualche modo da parte questo potenziale sviluppo teorico della sua riflessione. Bisognerà aspettare le «teorie sullo sviluppo e il sottosviluppo economico» abbozzate dal marxismo «newyorkese» di Paul Sweezy e Paul Baran, ma soprattutto i cosiddetti «teorici della dipendenza», in particolare Andre Gunder Frank, Samir Amin e più tardi Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein, per avere una teoria marxiana capace di portare a compimento e sviluppare ulteriormente questa suggestione di Marx su ciò che possiamo chiamare, sulla traccia del lavoro di Anibal Quijano, la colonialità del modo di produzione capitalistico [4]. E tuttavia negli ultimi anni della sua vita Marx mostrerà sempre più interesse per lo studio e la conoscenza delle società coloniali e semicoloniali di una certa dimensione (Irlanda, Russia, Turchia, Cina, ecc.) alle prese con l’espansione del sistema produttivo capitalistico sui propri territori. Analisi che però saranno rivolte più che altro, anche a causa di ovvi limiti cronologici, alle reali possibilità di una rivoluzione socialista in paesi «non del tutto capitalistici», che non a pensare a una teoria dell’imperialismo come legge dell’accumulazione del capitale [5].
All’interno del marxismo delle origini saranno soprattutto i suoi primi eredi, di fronte all’evidenza dell’espansione imperialista europea di fine Ottocento e di inizio Novecento in Africa e in Asia, a dare un qualche seguito teorico‑politico alle riflessioni sul rapporto tra capitalismo e colonialismo. Il primo testo a venire in mente, in questo senso, è sicuramente il famoso pamphlet di Lenin L’imperialismo fase suprema del capitalismo (1916). Ma si potrebbero ricordare anche i suoi diversi scritti e interventi sulle cosiddette «questioni nazionali e coloniali» [6], con la loro grande apertura a due questioni «coloniali» rimaste tuttora di grande attualità, la riforma agraria in favore dei contadini‑indigeni e la costituzione del popolo in soggetto di classe, oppure Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899), in cui egli alludeva esplicitamente alla «colonizzazione interna» subita dalle periferie dell’impero russo. L’elenco potrebbe proseguire con i numerosi articoli di Engels sull’imperialismo tedesco [7], con i saggi di Kautsky dedicati alla questione coloniale e all’imperialismo [8], con il noto lavoro di Hilferding sul capitalismo finanziario [9], ma soprattutto con le pregnanti analisi di Luxemburg, nella sua Introduzione alla critica dell’economia politica (1912‑1918), sulle conseguenze dell’espansione capitalistica coloniale nel mondo non europeo. Diversamente da questi altri suoi contemporanei, che appaiono più concentrati o sullo studio delle possibili transizioni dal modo di produzione agrario capitalistico a quello socialista oppure sulla comprensione dell’imperialismo di fine secolo come fenomeno emergente politico‑economico, Rosa Luxemburg torna qui in modo sicuramente più analitico, e anche più enfatico, su ciò che oggi chiameremmo la colonialità – violenza coloniale costitutiva – del modo di produzione capitalistico. In questo scritto, concepito come un pamphlet popolare introduttivo al noto testo di Marx, Luxemburg tiene anche a precisare gli effetti distruttivi provocati nelle società coloniali dall’introduzione di un’economia capitalistica. La produzione capitalistica di ciascun paese industriale europeo, ricorda, dopo essersi imposta su altri modelli produttivi nel proprio territorio «(…) trascina nell’ambito dell’economia mondiale tutti i paesi europei arretrati nonché l’America, l’Asia, l’Australia, in due modi: col commercio mondiale e con le conquiste coloniali. Questi fenomeni cominciarono all’unisono già con la scoperta dell’America del quindicesimo secolo, si estesero ulteriormente nel corso dei secoli seguenti, ma raggiunsero un maggior vigore particolarmente nel diciannovesimo secolo, allargandosi sempre di più» [10].
(…) Va notato che Rosa Luxemburg è sicuramente l’autrice marxista di questo periodo a essere tornata con maggiore frequenza e attenzione sulla questione della colonialità del potere capitalistico globale. In alcuni dei suoi scritti si può rinvenire un abbozzo più o meno esplicito – benché non del tutto esente dallo storicismo tipico del marxismo dell’epoca e dal suo accento sul proletariato industriale come principale soggetto rivoluzionario – di una teoria sul rapporto strutturale e dipendente del modo di produzione capitalistico avanzato con il mondo coloniale o non (del tutto) capitalistico [11].
Anche il tema del razzismo e delle gerarchie razziali compare qui e là nelle riflessioni di Marx e del primo marxismo. Il primo passo che viene alla memoria è sicuramente quello nel Capitolo VIII del Libro I del Capitale in cui si sostiene che «negli Stati Uniti ogni movimento indipendente dei lavoratori è rimasto in paralisi finché la schiavitù ha sfigurato buona parte della repubblica. Il lavoro in pelle bianca non può emanciparsi, in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è in pelle nera». Se ne potrebbero facilmente trovare di simili anche tra gli altri marxisti più noti di quel periodo; non solo sul «razzismo coloniale» nelle nazioni non occidentali oppresse, ovvero su un’enunciazione critica piuttosto in primo piano all’interno della Terza internazionale e all’indomani del Congresso dei popoli d’Oriente svoltosi a Baku nel 1920, ma anche contro il «razzismo antisemita» e sulla «questione nera». Non c’è bisogno di ricordare qui l’impegno dei soviet nati dalla Rivoluzione d’ottobre contro l’antisemitismo, che nella Russia zarista era divenuto anche politica razziale di Stato. Ben noto risulta anche l’interesse e il sostegno, benché non privo di ambivalenze, di Trotsky alla«questione nera» negli Stati Uniti [12]. Meno nota, ma altrettanto esplicita benché sporadica, la condanna del razzismo antinero negli Stati Uniti da parte di Lenin, così come il suo paragone tra la situazione economico‑sociale schiavistica del Sud di quel paese con quella della Russia «feudale» [13].
A titolo di esempio, e anche in modo provocatorio, vogliamo proporre il seguente passo di Nikolaj Bucharin contenuto nel suo controverso Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista (1921) – un testo assai criticato all’epoca da Lenin e successivamente da Gramsci a causa della volgare semplificazione del materialismo storico – come sorta di simbolo del tipo di antirazzismo esplicito e convinto, pur se non esente da aspetti problematici, che caratterizzava questo primo marxismo: «La teoria delle razze è prima di tutto contraria ai fatti (…) non spiega in nessun modo le condizioni dell’evoluzione sociale. Si comprende qui chiaramente che bisogna cominciare le analisi dallo studio del movimento delle forze produttive» [14].
Colonialismo, imperialismo e razzismo sono chiaramente stati al centro della riflessione del primo marxismo. Anticolonialismo, antimperialismo e soprattutto antirazzismo, pur se enunciati entro i linguaggi dell’epoca, hanno caratterizzato la riflessione marxista sin dagli inizi. Se così non fosse stato, la rivoluzione sovietica non avrebbe esercitato alcun fascino nel mondo coloniale o tra i neri degli Stati Uniti e dei Caraibi. È importante accennare, ad esempio, alla formazione del primo marxismo nero nei primi decenni del Ventesimo secolo: Harry Haywood, Richard Wright, C. L. R. James, Aimé Césaire, George Padmore e Claudia Jones, tra gli altri. Ma può risultare interessante anche ricordare le testimonianze di scrittori neri come Claude McKay (nato in Giamaica e protagonista del movimento dell’Harlem Renaissance a New York) (…) [che] nella sua autobiografia, A Long Way From Home, così esultava: «Never in my life I felt prouder of being an African, a black» [15]. Durante il quarto congresso dell’Internazionale comunista nel 1922 suggerirà e otterrà dal Comintern l’istituzione di una International Negro Commission per unire i neri di tutto il mondo nella lotta contro il colonialismo, ma anche per combattere i pregiudizi razziali dei bianchi all’interno degli stessi partiti comunisti, soprattutto quello americano. E tuttavia l’eredità del primo marxismo nell’affrontare tali questioni – che possiamo sintetizzare come «questione razziale della modernità capitalistica» – resta sicuramente importante e necessaria, ma altrettanto insufficiente. Secondo Cedric Robinson, per esempio, «(…) le strutture più profonde del materialismo storico, la sua precomprensione per l’analisi del movimento storico, hanno fatto sì che i marxisti europei non si sentissero nell’obbligo di prendere in considerazione gli effetti profondi della cultura e della esperienza storica sulla loro stessa scienza» [16].
(…) La critica di Robinson è importante e va affrontata. Anche se rivolta al marxismo in generale, e non al primo marxismo, è abbastanza evidente che in buona parte coglie nel segno. E tuttavia per essere meglio compresa e sicuramente più produttiva – come auspica d’altronde lo stesso lavoro di Robinson (titolato non a caso Black Marxism) – deve essere, in un certo modo, «distesa» a partire dai limiti del razzismo rispetto alla storica questione coloniale‑razziale. Non possiamo affrontare l’argomento qui in modo dettagliato, ma avanziamo qualche ipotesi. Come prima cosa il problema fondamentale del marxismo tradizionale nella comprensione della «questione coloniale o razziale» non sembra derivare soltanto da pregiudizi culturali dell’epoca nei confronti delle società non europee o non bianche, e quindi dalla sua semplice appartenenza alla civiltà occidentale; porlo soltanto in questi termini risulterebbe eccessivamente riduttivo, e soprattutto significherebbe sostituire un determinismo (economicistico) con un altro (di tipo culturale) altrettanto problematico. Se distendiamo l’affermazione di Robinson di un qualche grado arriviamo a una critica sicuramente più utile e condivisibile: in quanto prodotto della società occidentale, e sviluppato per buona parte della sua storia da intellettuali «europei» e «bianchi» – non alludendo qui semplicemente al colore della loro pelle – il marxismo tradizionale non è mai riuscito a mettere a fuoco nelle proprie analisi una concezione adeguata della materialità culturale ed economica di razza e razzismo come dispositivi non solo di sfruttamento capitalistico, ma anche di governo delle popolazioni moderne. Si tratta di un limite epistemologico, per stare ai termini di Robinson, che ha portato il marxismo tradizionale a una storica sottovalutazione della questione coloniale‑razziale, non solo nella lotta contro il dominio capitalistico, ma soprattutto nelle sue stesse letture dell’antagonismo di classe e delle classi, anche a livello internazionale.
Per quanto riguarda il primo marxismo va ricordato innanzitutto l’inclusione della «questione nera» nel secondo congresso dell’Internazionale comunista del 1920. È stato per lo più John Reed, autore del celebre I dieci giorni che sconvolsero il mondo (1919), anche in quanto rappresentante dell’African Blood Brotherhood [17], a esporre nel congresso la terribile condizione di vita degli afroamericani e a farsi portavoce della loro causa. Il Comintern diede ampio spazio in questa occasione alla questione razziale nera, sancendo dunque l’importanza strategica del proletariato nero americano nella lotta globale per il comunismo. Sulla traccia più generale abbozzata da Lenin sulle questioni nazionali e coloniali, la risoluzione del congresso definì la questione nera come nazionale: i neri d’America venivano considerati come un’altra nazione coloniale oppressa in lotta per la propria autodeterminazione. I comunisti americani dovevano prestare solidarietà e supporto a questa lotta econtemporaneamente combattere contro il razzismo della classe operaia bianca nazionale per ripristinare l’unità del proletariato americano. Questo secondo aspetto era particolarmente sentito, dato il razzismo dilagante in buona parte delle unioni sindacali americane dell’epoca e anche all’interno del Partito comunista degli Stati Uniti d’America. Anche Trotsky sosterrà questo tipo di approccio alla questione nera, pur se in modo più articolato. Nel 1933 chiese ai suoi alleati negli Stati Uniti di affrontare la questione del razzismo e dell’oppressione dei neri in modo diretto, sfidandoli a uscire da uno stato di paralisi sull’argomento, poiché considerava fondamentale la mobilitazione rivoluzionaria dei neri americani nella lotta per il socialismo. Trotsky difendeva anche l’importanza e la necessità di una loro autorganizzazione politica, e vedeva l’attività dei movimenti autonomi del tipo dell’African Blood Brotherhood come fondamentale per cercare di abbattere gli ostacoli all’unità della classe operaia. Tuttavia restava del pensiero che i neri dovessero avere come obiettivo politico primario la lotta per l’autodeterminazione della cosiddetta Black Belt, non vedeva quindi questo tipo di lotta «nazionale» come un allontanamento da una concezione più strettamente di classe [18].
(…) Trotsky però sembrava proiettare il modello della Rivoluzione russa sulla questione dei neri: non a caso sosteneva anche nei propri scritti sul nazionalismo nero che «i russi erano i neri europei». Lo schema di Trotsky, per quanto flessibile, seguiva comunque l’impostazione classica di Lenin sulle questioni nazionali e coloniali: la lotta per l’autodeterminazione nazionale avrebbe dovuto contribuire a un rafforzamento della coscienza rivoluzionaria del proletariato nero, per questo egli insisteva anche sulla necessità di addestrare maggiormente i neri alla lotta di classe e all’organizzazione politica. Queste posizioni, malgrado la loro relativa concessione rispetto all’interpretazione marxista tradizionale, erano un ostacolo al dialogo con C. L. R. James che le considerava comunque «paternaliste» e «avanguardiste», e furono all’origine della rottura politica tra i due: l’autore dei Giacobini neri credeva che il contenuto dell’autodeterminazione dovesse essere posto in ogni caso dai neri stessi, si mostrava scettico sulla possibilità che i neri americani potessero essere paragonati a una nazione oppressa, e soprattutto aveva altre idee sul significato della parola «autorganizzazione» [19].
Nel complesso, dunque, si può dire che il primo marxismo, pur nella sua straordinaria apertura alla questione coloniale‑razziale, non riuscì mai a dare alla lotta antirazzista (e si potrebbe aggiungere anche a quella anticoloniale), proprio a causa della sua concezione sul razzismo, una vera priorità, confinandola da sempre all’interno di altre cause‑questioni‑conflitti in teoria più significativi, ma per lo più riducendo il dominio razzista a un mero epifenomeno/sovrastruttura di qualcosa d’altro, prima di tutto della sfera economica [20]. Forse sarebbe più giusto dire che «non poteva» essere diversamente. Nel caso della questione nera americana, tuttavia, il limite appare evidente: da una parte rimase in ogni caso un interesse marginale (Lenin, per esempio, oltre a non avere mai avuto, anche per ovvi motivi, un’esperienza o un interesse diretti sull’argomento [21], vi tornò solo tre volte e in modo assai sintetico nei suoi scritti) [22]; dall’altra un approccio alla questione nera come frutto di un’oppressione nazionale anziché razziale non fa che confermare in modo abbastanza esplicito quanto stiamo dicendo a proposito della storica sottovalutazione del razzismo da parte del marxismo tradizionale.
Vale forse la pena ricordare che quando Claude McKay chiese a Trotsky – durante il loro incontro nel 1923 – cosa avrebbero dovuto fare i neri, egli diede la più classica delle risposte: «Lavorare in spirito di solidarietà con tutti gli oppressi del mondo senza considerazioni di colore» [23]. Significativa anche la vicenda di Harry Haywood [24], espulso negli anni Cinquanta dal partito comunista statunitense perché sostenitore della politica di «autodeterminazione dei neri», considerata dal partito una minaccia alla (presunta) unità dei lavoratori bianchi e neri. Tornano qui, dunque, in modo piuttosto chiaro le critiche di Robinson sull’incapacità del marxismo di comprendere la costituzione razziale del capitalismo e della civiltà in cui è venuto alla luce, ma anchela politica, per così dire, dei movimenti di massa avvenuti non solo fuori dall’Europa, ma anche nelle nazioni europee più periferiche.
Un’ulteriore distensione dell’affermazione di Robinson ci porta a quello che è stato forse il limite fondamentale dell’approccio del primo marxismo alle questioni coloniali e razziali: a partire da una sorta di assolutizzazione della propria contingenza storico‑geografica, caratterizzata dall’ascesa e dall’espansione planetaria della società industriale, il marxismo tradizionale finì per assimilare e promuovere una concezione comunque storicistica, teleologica e universalistica sia dello sviluppo del capitalismo come modo di produzione globale, sia del suo potenziale rovesciamento rivoluzionario con la società comunista. Una concezione di questo genere lasciava poco spazio a considerazioni meno eurocentriche sul rapporto‑intreccio storico tra capitalismo, colonialismo e razzismo nella configurazione stessa del comando capitalistico moderno. Detto brevemente, all’interno di quest’ottica la questione coloniale‑razziale appariva come una tipologia di sfruttamento eccezionale o comunque non tipicamente capitalistica: come qualcosa d’altro dalla «norma» del rapporto di dominio autenticamente prodotto dallo sviluppo del capitale e rappresentato dalla forma del mercato del lavoro – e della lotta di classe – dei paesi più avanzati. Per il primo marxismo restava lì l’arcano non solo del capitale e del suo superamento, ma soprattutto della stessa storia. È chiaramente all’interno di questa concezione che va interpretato il famoso e controverso passo di Marx sul ruolo progressivo del colonialismo in India. Si può certamente argomentare che si tratta del Marx giovane, e non di quello maturo (per riprendere la distinzione promossa da Althusser). Ma forse l’idea per cui «il paese più avanzato del capitalismo non fa che mostrare agli altri il loro futuro» (abbozzata già nel Manifesto del Partito comunista) è sempre rimasta segretamente egemone nel cantiere di Marx: al di là di ogni sua esplicita posteriore apertura verso una concezione multilineare dello sviluppo storico. La sua critica alla Teoria moderna della colonizzazione di E. G. Wakefield, enunciata nell’ultimo capitolo del libro I del Capitale, non farebbe che confermare questa pulsione [25].
Il rapporto del primo marxismo con lo studio della schiavitù può apparire altrettanto sintomatico delle falle eurocentriche costitutive nell’approccio alla questione coloniale‑razziale. Al di là degli sporadici e già citati interessi di Lenin e Trotsky, di qualche isolato excursus di altri marxisti dell’epoca, e soprattutto della formidabile analisi di Marx del «modo di produzione schiavistico americano» nei suoi scritti sulla Guerra civile negli Stati Uniti, la schiavitù restò un argomento più o meno forcluso dalla riflessione marxiana euroamericana fino a quando intellettuali neri come C. L. R. James, Eric Williams, Oliver Cox e Harry Haywood non se ne occuparono tra la finedegli anni Trenta e i Quaranta. Ancora una volta può valere la pena riportare qualche impressione di Marx sulla schiavitù e metterla sulla filigrana di quanto stiamo dicendo:
«(…) La schiavitù diretta è un perno essenziale su cui l’industrialismo moderno fa muovere le macchine, il capitale, ecc. Senza schiavitù non ci sarebbe cottone, senza cottone non ci sarebbe l’industria moderna. È la schiavitù che ha dato importanza alle colonie, sono le colonie che hanno creato il commercio globale e il commercio globale è la condizione necessaria per l’industria di larga scala. Senza schiavitù, il Nord America, la più progressista delle nazioni, si sarebbe trasformata in una nazione patriarcale (…) togliere la schiavitù vorrebbe dire eliminare il Nord America dalla mappa» [26].
Il passo è ambivalente: è pur sempre estratto da una lettera e per di più appartiene al Marx più giovane, quello, per così dire, maggiormente «hegeliano». Per quanto possa essere indicativo, lascia comunque intravedere un certo «terrore» di Marx per un’eventuale interruzione, dovuta a conflitti fra potenze, del normale corso di sviluppo del libero scambio nel commercio mondiale. Non si tratta di una lode del libero mercato, come talvolta sono state interpretate impressioni simili di Marx, ma dell’idea, storicistica se si vuole, secondo cui il normale defluire della libera concorrenza nel commercio mondiale agiva da motore propulsore dei conflitti che avrebbero potutomettere fine al capitalismo come sistema produttivo. In ogni caso è importante ribadire che Marx fu un convinto e dichiarato nemico della schiavitù e del commercio europeo degli schiavi in Africa. Nei suoi scritti successivi sulla Guerra civile negli Stati Uniti avrebbe lodato la resistenza degli schiavi e mostrato apertamente il suo appoggio alle ribellioni e all’emancipazione dei neri. Detto questo, dalle sue analisi su ciò che considerava i limiti strutturali di sviluppo del modo di produzione schiavistico, emerge sia un suo supporto alla vittoria del Nord sul Sud in favore dello sviluppo del libero commercio mondiale, ipotizzata nella lettera del 1846, sia una certa difficoltà, almeno in questo periodo, a concepire gli schiavi, e cioè un ceto sociale diverso dalla classe operaia industriale, non solo come un «soggetto» attivo, ma anche come un agente storico capace di «comunismo». Come già detto, in alcuni dei suoi ultimi scritti si trova un diverso approccio, meno eurocentrico, al mondo non europeo [27]. Eppure bisogna ribadire che né Marx né il primo marxismo ci hanno consegnato, al di là di molteplici e importanti suggestioni, una riflessione più o meno articolata sulla centralità della questione coloniale‑razziale nella costituzione e nello sviluppo stesso della modernità capitalistica occidentale.
Come elemento di ulteriore problematizzazione occorre ricordare che anche la letteratura marxista sull’imperialismo di fine Ottocento, con l’eccezione di Rosa Luxemburg, ha teso a considerare il fenomeno da una parte come se fosse autonomosia dalla conquista dell’America sia dalla precedente espansione coloniale occidentale, lasciando quasi presupporre che l’aumento della concorrenza interimperialistica fra le diverse potenze europee non avesse una storia, o avesse nel congresso di Berlino del 1884 una sorta di anno zero; dall’altra ha teso a concepire l’imperialismo come espressione di una sorta di «deviazione meramente politica» dalla logica altrimenti puramente economico‑industriale del capitale. Gli scritti di Engels e Kautsky, successivi alla morte di Marx, sono sicuramente sintomatici di questo tipo di approccio. Ma anche l’analisi di Lenin, pur se da un punto di vista assai diverso, non è esente da questi limiti: pur riconoscendo l’imperialismo come legge del dominio del capitale, nel testo non vi sono quasi riferimenti al colonialismo precedente o alla schiavitù come fenomeni fondativi del capitalismo e dell’imperialismo coloniale. L’imperialismo viene qui eccessivamente ridotto alla sua fisionomia del presente, a mero epifenomeno della concorrenza indotta dalla logica del capitalismo monopolistico e finanziario di fine secolo. Rinviando la discussione ad altra sede, si può sostenere che questo testo di Lenin contiene in buona parte alcuni dei limiti di comprensione della questionecoloniale‑razziale tipici del primo marxismo [28].
Ma se la questione coloniale‑razziale si trovava comunque al centro della riflessione del marxismo delle origini, diverso sarà il panorama del marxismo europeo successivo. Presso buona parte di quello che Perry Anderson denominò «marxismo occidentale» [29], e cioè la teoria marxista venuta alla luce grosso modo tra il 1920 e il 1970 nei paesi dell’Europa occidentale, la questione coloniale‑razziale tenderà quasi a scomparire dall’orizzonte di riflessione. Nel marxismo europeo di questo periodo, a eccezione di Gramsci – che nello schema di Anderson andrebbe visto anche come una sorta di trait d’union tra il primo marxismo e il cosiddetto marxismo occidentale –, la questione coloniale anche nelle sue espressioni contemporanee assumerà connotati sempre più residuali e periferici non solo riguardo le diverse riflessioni sulla logica storica e globale del dominio del capitale, ma anche in riferimento al dibattito sull’emergere di un soggetto rivoluzionario universale. Si possono certo ricordare l’anticolonialismo convinto e coraggioso di Sartre, lo schieramento di Marcuse a favore del movimento di lotta per i diritti civili degli afroamericani (così come va ricordato che la teoria critica di questi due filosofi ha influenzato non poco sia il movimento antirazzista negli Stati Uniti che il terzomondismo globale di quegli anni) [30], o anche il maoismo del Sessantotto francese e più nello specifico quello althusseriano; ma nel complesso la questione coloniale‑razziale non riesce a problematizzare in questo periodo i nuclei teorici più o meno consolidati del «marxismo occidentale» [31]. Enzo Traverso ha posto il problema nel suo Malinconia di sinistra ritornando in modo assai suggestivo su questo «incontro mancato tra marxismo classico europeo e pensiero anticoloniale non‑occidentale» [32]:detto altrimenti, e distendendo di un grado tale enunciazione, è come se le lotte anticoloniali iniziate in India nel 1947, passando poi per Cina, Algeria, Vietnam, Africa, Cuba, Palestina e per il Black Power negli Stati Uniti, nei Caraibi e in Sudafrica, avessero suscitato certo simpatie e supporto politico – è anche difficile pensare il Sessantotto in Europa senza il rovesciamento/riassestamento nel centro di queste istanze ai margini – ma non fossero mai riuscite a entrare nella ragione teorica del «marxismo occidentale».
È chiaro poi che all’interno di questa parte del marxismo la rimozione della questione coloniale‑razziale dalle proprie prospettive teoriche derivava da una lettura certo eurocentrica delle colonie – nel senso di «esterna» all’Europa – ma faceva trapelare anche una concezione economicista del loro status durante l’ascesa dell’economia‑mondo capitalistica moderna. Quest’ultimo limite aveva caratterizzato anche le letture più «postcoloniali» del primo marxismo, come abbiamo visto. Sarà solo con il riesplodere dei conflitti razziali all’interno della stessa Europa nei tardi anni Settanta, legati ai conflitti innescati nelle società europee dai processi e dai movimenti migratori sin dalla fine della Seconda guerra mondiale, e con la crescente transnazionalizzazione dei processi produttivi del capitale globale, che si avvierà una sorta di revisione‑decolonizzazione del «marxismo occidentale» e quindi una lenta ma incessante riconsiderazione, entro i propri schemi, della colonialità costituiva del comando capitalistico. L’esempio più emblematico di questo processo, almeno in Italia, è forse lo sviluppo del cosiddetto postoperaismo [33]. L’emergere delle prospettive postcoloniali e decoloniali, mettendo l’accento sull’impossibilità di separare metropoli e colonie nel racconto delle loro storie, contribuirà in modo decisivo a questo processo di decentramento del marxismo europeo.
A partire da queste considerazioni preliminari (…) proponiamo, quindi, la categoria di «marxismo bianco» per interrogare i limiti storici del marxismo classico nell’analisi della questione coloniale‐razziale (…).
[1] Il testo è un estratto da M. Mellino - A.R. Pomella, Disattivare la piega bianca del marxismo. Introduzione a Ed. (a cura di), Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale, Alegre, Roma 2020. [2] F. Fanon, I dannati della terra, Edizioni di Comunità, Torino 2000. [3] K. Marx, Il Capitale, libro I, cap. xxiv, a cura di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 813. [4] Sulla nozione di colonialità di Quijano si veda, Colonialidad del poder, eurocentris‑ mo y America Latina, in E. Lander (ed.), La colonialidad del saber: eurocentrismo y ciencias sociales. Perspectivas latinoamericanas, Clacso, Buenos Aires 2003. [5] H. Jaffe, Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaca Book, Mi‑ lano 2007; K. B. Anderson, Marx at the Margins. On Nationalism, Ethnicity and Non‑Western Societies, Chicago University Press, Chicago 1990. [6] V. I. Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionali e coloniali, in Opere, 45 voll., Editori riuniti, Roma 1955‑1970, Vol. 31, pp. 159‑165 [7] Si veda F. Andreucci, Socialdemocrazia e imperialismo. I marxisti tedeschi e la politica mondiale 1884‑1914, Editori Riuniti, Roma 1988 [8] K. Kautsky, La questione coloniale. Antologia degli scritti sul colonialismo e sull’imperialismo, Feltrinelli, Milano 1977 [1914]. [9] R. Hilferding, Il capitale finanziario, Mimesis, Milano 2011 [1910]. [10] R. Luxemburg, Introduzione alla critica dell’economia politica, in Scritti Scelti (a cura di Luciano Amodio), Ed. Avanti, Milano 1963, pp. 380. [11] Si veda soprattutto L’accumulazione del capitale, in Scritti scelti, cit., pp. 471‑524 [12] Le memorie di C. L. R. James dell’incontro e dialogo con Trotsky sulla questione nera sono divenute un classico sull’argomento. Si veda C. L. R. James, Non si scherza con la rivoluzione. Marx e Lenin nei Caraibi, a cura di G. Roggero, Ombre Corte, Ve‑ rona 2017; The C. L. R. James Reader, a cura di A. Grimshaw, Balckwell, Oxford 1992, in particolare Letters to Constance Webb, pp. 127‑152. [13] Si veda il suo articolo I russi e I negri del 1913, ma soprattutto M. Re‑ nault, Dalle colonie russe all’America nera... e viceversa: Lenin e Langston Hughes, «Lo Sguardo ‑ rivista di filosofia», n. 25, Rivoluzione: un secolo dopo, 2017 (iii), pp. 123‑138. [14] N. Bucharin, Teoria del materialismo storico. Manuale popolare di sociologia marxista, La Nuova Italia, Firenze 1977 [1921], pp. 129‑130 [15] C. McKay, A Long Way From Home, Rutgers University Press, Chicago 2007 [1937], p. 152. [16] C. Robinson, Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition, The University of North Carolina Press, Chapel Hill 2000, p. 2. [17] Si tratta di un’organizzazione che raccoglieva all’epoca buona parte dei neri co‑ munisti delusi dal fatto che nel Partito comunista degli Stati Uniti d’America quasi non vi fossero persone non bianche. [18] [Cfr.] L. Trotsky, On Black Nationalism and Self‑Determination, New York, Pathfinder Books 1978, p. 26 [19] Cfr. A. Shawki, op. cit., pp. 143‑150 [20] Per un’interessante panoramica critica dei limiti storici del marxismo classico nell’approccio al razzismo, ma da una prospettica comunque marxista, si veda D. Camfield, Elements of aHistorical‑Materialist Theory of Racism, «Historical Materialism», 24 (1), 2016, pp. 31‑70. [21] Anche Trotsky ha più volte detto di non saperne troppo, e quindi di essere disposto a imparare per farsi un’idea della questione più adatta alla realtà. [22] T. Draper, American Communism and Soviet Russia, Routledge, London 1958, pp. 335‑340. [23] Ibid., p. 340. [24] Il suo Negro Liberation, pubblicato nel 1948, è stato il primo studio sulla questione afroamericana negli Stati Uniti scritto da un marxista nero. [25] In Italia, pur nella sua formidabile rottura con l’oggettivismo e il determinismo marxista, Operai e capitale di Mario Tronti (1966) è stato un testo che ha elevato a principio questa filosofia (coloniale) della storia all’opera nelle analisi di Marx. [26] Lettera a Pavel Vasilevic Annenkov, 1846, cit. in H. Jaffe, Davanti al colonialismo: Engels, Marx e il marxismo, Jaca Book, Mi‑lano 2007. [27] Si veda T. Shanin, Late Marx and the Russian Road. Marx and the Peripheries of Capitalism, Monthly Review Press, New York 1996; K. B. Anderson, Op. cit.; J. Aricó, Marx y América Latina, Catalogos Editora, Lima 1980; E. Dussel, L’ultimo Marx, manifestolibri, Roma 2009 [1990]; E. Traverso, Malinconia di sinistra, Feltrinelli, Milano 2016. [28] Per un approccio diverso si veda H. Magdoff, Imperialism. From the Colonial Age to the Present, Monthly Review Press, New York 1978. [29] P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Laterza, Roma‑Bari 1977, p. 35. Nello schema di Anderson il marxismo occidentale è costituito dai marxismi di Lukács, Korsch, Gramsci, Benjamin, Horkheimer, Della Volpe, Marcuse, Lefebvre, Adorno, Sartre, Goldmann, Althusser e Colletti: «con l’importante eccezione diLukács e del suo allievo Goldmann, tutti i principali esponenti del marxismo occidentale provenivano appunto dall’Occidente (Europa occidentale)», pp. 38‑39. [30] Si pensi per esempio al femminismo nero e marxista di Angela Davis che rappresenta, secondo la stessa Davis, anche un prodotto della combinazione e l’influenza del lavoro di questi due filosofi. [31] Il caso più sintomatico è forse quello di Sartre: i suoi numerosi scritti anticoloniali, nella forma di prefazioni e commenti critici anche a importanti autori non europei come Fanon e Memmi, non ebbero alcuna collocazione, come problematica teorica, nei suoi lavori filosofici maggiori. Si veda M. Mellino, Jean‑Paul Sartre. La nausea del Novecento. L’esistenzialismo come crisi dell’Occidente, in C. Conelli, E. Meo (a cura di), Genealogie della modernità, Mimesis, Milano 2017, pp. 257‑297. Come scrisse anche Robert Young in Mitologie bianche, Meltemi, Milano 2007 [1990]: «Il problema di Sartre era che sebbene avesse sviluppato la propria posizione politica al di fuori della sola problematica europea, non seppe fare altrettanto a livello teorico, e in questo senso rimase chiuso nei confini del modello europeo», p. 31. [32] E. Traverso, op. cit., p. 148. [33] Si veda M. Hardt - A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010; ma soprattutto S. Mezzadra - B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Il mulino, Bologna 2014; e S. Mezzadra, La condizione postcoloniale, ombre corte, Verona 2007.
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