top of page

Dipingere il nazionalismo di verde? (Parte II)


Marco Morosini


La prima parte dell'articolo è disponibile qui.


Tipologie di nazionalismo

Dichiarare la crisi climatica una priorità assoluta degli istituti per la sicurezza rappresenta una tattica per attirare l’interesse delle élite e neutralizzare la questione tra gli elettori scettici. Ma l’elemento centrale, e più controverso, dello schema di Lieven per trasformare la stabilizzazione climatica in una causa popolare bipartisan è il nazionalismo – «la fonte più potente di mobilitazione collettiva nella storia moderna». Climate Change and the Nation State è, in questo senso, un titolo parzialmente errato; Climate Change and Nationalism sarebbe stato più accurato, come titolo, anche se si può facilmente intuire perché Lieven abbia preferito il primo, dato che il nazionalismo gode di una reputazione, per usare un eufemismo, «mista», con risultati, in termini ambientali, altamente disomogenei. Lieven lo riconosce, enfatizzando «i tristi esempi» dell’entusiasta regresso di Trump per quanto riguarda i regolamenti ambientali e dell’impegno di Bolsonaro nell’accelerare la deforestazione dell’Amazzonia. Per imporre un minimo di ordine morale a questa ideologia multiforme, Lieven fa la mossa standard di distinguere tra nazionalismo «etnico» e «civico»: il primo incarna «un tentativo di ricreare uno Stato basato su un’identità etnica e culturale ristretta e chiusa» – che «ovviamente non è auspicabile per nessun paese che ospiti grandi minoranze etniche o religiose» e che «alla fine punta verso il fascismo» – mentre il secondo è «basato su un’idea molto più forte di cittadinanza, che dia un comune senso di identità a tutti i cittadini», a prescindere dalla razza o dal credo. [17]

Lieven attinge a una miriade di esempi storici per attestare le conquiste progressiste del nazionalismo, ma si ispira soprattutto agli «imperialisti sociali» dell’Europa occidentale a cavallo del XX secolo e al movimento progressista di Theodore Roosevelt negli Stati Uniti, i quali, secondo Lieven, sono riusciti a coniugare con successo patriottismo e assistenzialismo. Lieven è forse anche attratto dalle politiche ecumeniche degli imperialisti sociali britannici: esse erano «attuate principalmente dall'ala imperialista del Partito liberale», ma erano abbracciate anche dai «socialisti fabiani» e dal conservatorismo uninazionale, così come dai «settori più lungimiranti delle élite militari». Il collante di questo «gruppo eclettico» era l’entusiasmo per l’Impero, anticipazione di una «futura guerra mondiale in cui l’unità nazionale sarebbe stata messa alla prova fino al limite», il «disprezzo della classe media britannica» nei confronti della classe dirigente aristocratica, e la «profonda paura della rivoluzione, della guerra di classe e della disintegrazione sociale». Per prevenire o prepararsi a queste molteplici minacce, gli imperialisti sociali credevano che lo Stato britannico «avesse bisogno di essere riformato a fondo e di essere dotato di maggiori poteri, anche per plasmare e guidare l’economia»; la loro visione si estendeva «oltre la previdenza sociale, fino alla pianificazione urbana, alla sanità pubblica e alla riforma dell’istruzione». Nonostante abbiano trascinato il continente nella prima guerra mondiale, e nonostante le deplorevoli «similitudini con altre tendenze europee che hanno portato all’ascesa del fascismo» dopo di essa, «gli imperialisti sociali hanno contribuito al crescente consenso nazionale che alla fine ha creato lo stato sociale britannico dopo il 1945». L’«obiettivo», oggi, sarebbe quindi quello di «sviluppare una nuova versione dell’imperialismo sociale, ma senza l’imperialismo, il razzismo, l’eugenetica e il militarismo».

Negli Stati Uniti, lo stesso mix di tassazione progressiva e orgoglio patriottico, in uno Stato più dinamico e solidale, aveva animato il «nuovo nazionalismo» di Theodore Roosevelt, la base del fugace Partito Progressista del 1912. Questa forma benefica di nazionalismo avrebbe contribuito a creare un nuovo welfare di base, regolando «il selvaggio capitalismo della Gilded Age» – attaccando «il potere delle lobby e dei monopoli» e considerando i dirigenti «personalmente responsabili per i crimini commessi dalle loro aziende» – e modernizzando il governo. [18]

Ma quanto la strategia contro-intuitiva di Lieven di rielaborazione della crisi planetaria in termini nazionalistici è davvero convincente? Il suo presupposto – ovvero che gli Stati-Nazione «non si dissolveranno», e che siano gli unici agenti con la legittimità e le risorse necessarie per rispondere alla crisi climatica – sembra sempre più evidente, nonostante la loro inerzia rispetto alla questione ambientale fino ad oggi e nonostante la natura sempre più globale dei movimenti ambientalisti. Gli organismi intergovernativi – dall’Ipcc dell’Onu all’Oms – possono emanare provvedimenti e linee guida, organizzare conferenze e catalizzare competenze, e forse in alcuni casi esercitare anche delle pressioni; ma senza sovranità territoriale o legittimità democratica, sono relativamente impossibilitati ad agire o a costringere all'azione. Per quanto riguarda l’alternativa tradizionale allo Stato – il mercato – persino l’Economist ha dovuto ammettere che la sua mano invisibile non è all'altezza del compito di de-carbonizzare spontaneamente l'economia. [19]

La delineazione, da parte di Lieven, del confine teorico tra nazionalismo e ambientalismo è spesso avvincente. «Se si vogliono affrontare i cambiamenti climatici e le altre sfide, allora gli Stati del XXI secolo dovranno essere forti», sostiene Lieven, e «la più grande fonte di forza di uno Stato non è la sua economia o le dimensioni delle sue forze armate, bensì la legittimità agli occhi della sua popolazione». Ci sono varie fonti di legittimità statale – dalla pura e semplice longevità alla capacità di gestione amministrativa – ma una delle «più grandi e durature» è stata proprio il nazionalismo. Fortificando e legittimando gli Stati, il nazionalismo facilita l’attuazione di «dolorose riforme» e la richiesta di sacrifici collettivi – sotto forma di tasse più gravose, comprese le impopolari imposte sui carburanti, che secondo Lieven saranno un elemento indispensabile del processo di riduzione dell’inquinamento. [20] Il nazionalismo è anche, sostiene Lieven, basato sulla preoccupazione per il futuro e getta dunque delle ottime basi per le «strategie a lungo termine» necessarie per la gestione della questione climatica: a differenza dei suoi effimeri singoli cittadini, il concetto di «permanenza» è costitutivo dell'idea di «Nazione». Poiché si basa sull'attaccamento ai luoghi – al paesaggio e al patrimonio locali – il nazionalismo si adatta bene anche agli sforzi di conservazione.

Ma a parte queste stimolanti affinità, in cosa consiste, nella pratica, il nazionalismo «civico» di Lieven? Nell’ultimo capitolo, «The Green New Deal and National Solidarity», Lieven rivolge la sua attenzione ai programmi verdi già esistenti in Europa e negli Stati Uniti. Oltre a rimproverare brevemente il Partito dei Verdi francese per aver sostenuto l’abbandono dell’energia nucleare – scelta che considera profondamente irresponsabile, data la maggiore letalità del cambiamento climatico in corso rispetto a un incidente nucleare («almeno nove milioni di esseri umani muoiono ogni anno come diretta conseguenza dell'inquinamento atmosferico»; «nessuno è morto come conseguenza diretta dell'incidente di Fukushima») – la principale critica di Lieven ai Verdi francesi è incentrata sulla loro posizione rispetto alle migrazioni, che Lieven sostiene essere condivisa da tutti i partiti verdi europei. «Poiché nel manifesto del partito si chiede di abolire la distinzione tra richiedenti asilo e migranti economici», la loro politica pro-asilo «rappresenta a tutti gli effetti un appello all’apertura delle frontiere». Si noti che Lieven si oppone a quelle che interpreta come politiche migratorie pericolosamente libertarie attraverso un impeccabile ragionamento ambientalista: il cambiamento climatico causerà migrazioni di massa e l’arrivo di milioni di persone in fuga dal caldo renderà a sua volta più difficile agire in termini di mitigazione del cambiamento climatico, aumentando lo «sciovinismo populista» – un sinonimo di nazionalismo «etnico» maligno che Lieven vuole distinguere dal suo più progressista modello «civico» – e la «radicalizzazione politica, la polarizzazione e la paralisi dello Stato nelle democrazie occidentali». Lieven sostiene che, con l’acuirsi delle profonde divisioni in seno all’elettorato e con la crescente ascesa degli «ecologicamente ottusi populisti di estrema destra», la possibilità di avere delle maggioranze parlamentari stabili, necessarie per un’azione di governo continuata rispetto al cambiamento climatico, diventerà una «impossibilità matematica».

Lieven ritiene che se «le migrazioni verso l’Occidente riescono a essere contenute entro limiti ragionevoli, e senza improvvisi e massicci picchi come nel caso della crisi dei rifugiati siriani», allora «ci sono buone possibilità» che i migranti possano essere «integrati con successo», ma teme che migrazioni troppo massicce e troppo rapide possano minare la coesione sociale, ritenuta vitale per l’accettazione di riforme ecologiche impopolari e per la resistenza dello Stato a fronte del peggioramento delle catastrofi climatiche [22]. Quest’ultimo argomento si innesta sull’idea – ereditata da David Goodhart, il cui The British Dream (2013) appare spesso nelle note di Climate Change and the Nation State – che le società stabili dotate di sistemi assistenziali funzionanti e generosi tendono ad essere relativamente più omogenee dal punto di vista culturale, mentre gli afflussi di stranieri minano la solidarietà sociale, e con essa la disponibilità dei cittadini a contribuire, attraverso la tassazione, al sostegno dei servizi pubblici e delle infrastrutture ecologiche, o più in generale a fare sacrifici per la propria comunità, comprese le generazioni future.

Valenza della migrazione

La visione delle democrazie divise e paralizzate sostenuta da Lieven implica una concezione stranamente non-mediata del rapporto tra migrazioni e loro immediati risultati politici. «Il continuo flusso di immigrazione clandestina verso gli Stati Uniti», scrive, ha contribuito molto «al rancore di alcuni settori della popolazione bianca e alla conseguente elezione di Donald Trump». Oppure: «Il risultato della migrazione di massa nella generazione precedente al 2016 è stato il disastro della Brexit» [23]. In queste analisi degli shock politici del 2016, Lieven sorvola sul modo in cui i discorsi sulle migrazioni – discorsi che, peraltro, non nascono dal nulla, ma che sono deliberatamente propagati e strumentalizzati per fini particolari – condizionano la reazione della gente alle migrazioni stesse [24]. In linea con questa omissione su quello che si potrebbe definire il campo ideologico – in cui la comprensione del mondo e della realtà materiale sono sempre in parte definite e costruite – la sua analisi incorpora una contraddizione rispetto all’impatto sociale ed economico delle migrazioni di massa, che, sostiene lui, si combinerà con «altre due sfide critiche per le società occidentali: l’automazione e l’intelligenza artificiale», distruggendo il mercato del lavoro. Discutendo la possibile inclusione di un reddito di base universale (Rbu) nelle politiche ambientali, Lieven sostiene un Rbu sarebbe «incompatibile con i continui alti livelli di immigrazione», non tanto perché i migranti mettano a dura prova le finanze pubbliche – anzi, le evidenze sembrerebbero dimostrare il contrario – ma perché un Rbu permetterebbe ai cittadini di calcolare l’esatto costo dell’immigrazione: «i timori di ulteriori aggravi sul sistema welfaristico – il sistema sanitario, le politiche abitative e il sistema scolastico – sono stati tra le principali cause di opposizione all’immigrazione», ma «questi costi sono sempre stati piuttosto difficili da individuare», mentre «con un sistema Rbu […] chiunque abbia una calcolatrice in tasca potrebbe calcolare quanto il suo reddito di base diminuisce per ogni nuova percentuale di immigrati» [25].

Dunque, un Rbu è incompatibile con gli alti livelli di migrazione perché davvero gli immigrati mettono a dura prova la capacità assistenziale degli stati, o la questione centrale è solo che molti elettori credono che sia così? Allo stesso modo, i partiti verdi dovrebbero adottare una posizione più severa sulla migrazione perché i migranti destabilizzano le società e rendono i sistemi politici impotenti – impedendo così un'azione concertata per affrontare una delle cause di tale migrazione – o semplicemente perché le politiche a favore dell'asilo sono destinate ad alienare gli elettori di destra? È a causa di questa ambiguità che si ha la sensazione che la difesa storicamente informata del nazionalismo, che costituisce gran parte del corpo del Climate Change and the Nation State, non sia altro che un’esaltazione teorica del calcolo elettorale machiavellico che lo conclude. Questa impressione è rafforzata anche dalle argomentazioni di Lieven rispetto alla risoluzione «Green New Deal» del 2019 proposta dal partito democratico, in cui la tematica più ampia del potenziale ecologico progressista del nazionalismo si riversa in quella meno interessante, seppur importante, di come vendere il Green New Deal (Gnd) ai repubblicani, che a sua volta sembra, a volte, trasformarsi nella più cinica questione di come strumentalizzare le abitudini scioviniste e razziste a fini ambientali. Infatti, come Lieven non esita a dire: l’ironia del negazionismo ambientale e dello scriteriato consumo di carburante fossile sostenuti dalla destra, è proprio che stanno contribuendo a far precipitare le problematiche migratorie che tanto detestano e temono; la loro xenofobia dovrebbe bastare per convertirli alla causa planetaria.

Riferendosi alla formulazione della loro risoluzione Gnd, Lieven scrive che «i Democratici non possono permettersi di essere contaminati dall’atmosfera di odio generalizzato verso le tradizioni americane che i loro sostenitori più radicali portano avanti». Non si sofferma su quali sarebbero queste «tradizioni americane fondamentali» – l’indeterminatezza esalta la forza eufemistica della frase – ma prosegue lamentando il modo in cui «la risoluzione è strutturata dal linguaggio della “Green Intersectionality”», citando poi il passo offensivo: il cambiamento climatico ha «esacerbato le ingiustizie razziali, regionali, sociali, ambientali ed economiche», «colpendo in modo sproporzionato le popolazioni indigene, le comunità di colore, le comunità di migranti, le comunità deindustrializzate, le comunità rurali spopolate, i poveri, le comunità a basso reddito, i lavoratori, le donne, gli anziani, le persone senza fissa dimora, i disabili e i giovani». Lieven continua dicendo che l’intersezionalità minimizza lo svantaggio sociale ed economico (rispetto a quello sessuale e razziale) e quindi classifica «i maschi bianchi economicamente e socialmente più svantaggiati tra gli oppressori privilegiati». «Perché, per esempio, la risoluzione è dovuta scivolare in un insulto completamente gratuito (e mendace) alle classi lavoratrici bianche sostenendo l’esistenza di “una differenza di ricchezza 20 volte maggiore tra la famiglia bianca media e la famiglia nera media”? […] Questo tipo di linguaggio è politicamente disastroso perché dà ancora più opportunità ai Repubblicani di dire agli elettori bianchi della classe operaia che i Democratici non sono interessati a loro». Lieven addirittura sostiene che queste «dure posizioni culturali liberali» non sono popolari nemmeno tra la maggior parte dei Democratici, usando un sondaggio del 2018 sulla political correctness per corroborare il suo punto di vista: «quasi l'80% dei bianchi e dei neri negli Stati Uniti non ama la political correctness».

«Naturalmente», continua Lieven, «i Democratici hanno il dovere civico di aiutare veramente quelle minoranze che voteranno comunque per loro o non voteranno affatto, ma devono lanciare il loro appello elettorale agli elettori che non voteranno per loro se non con uno sforzo notevole». «L’attivismo ambientalista», conclude, «è stato associato, negli ultimi decenni, alla sacralizzazione liberale delle identità etniche e culturali e agli attacchi gratuiti ai simboli culturali conservatori, e questo ha necessariamente alienato i conservatori che altrimenti avrebbero potuto riconoscere la minaccia del cambiamento climatico per le loro nazioni» [26]. In questo caso, il nazionalismo civico di Lieven, accuratamente definito in precedenza, sembra scivolare verso un significato completamente diverso. Come per le «tradizioni americane fondamentali», Lieven non spiega cosa intende per «simboli culturali conservatori», ma la forte implicazione sembra essere che i simboli e le tradizioni che vengono «attaccati» o «insultati» siano specificamente bianchi. Questa argomentazione, che ha tutto il sapore di una sfuriata, finisce per annullare la distinzione accuratamente preparata da Lieven tra nazionalismo inclusivo, accettabile e progressista, e la sua controparte reazionaria e razzista.

Ma se Climate Change and the Nation State è moralmente debole, è anche strategicamente sottotono. Data l'eterogeneità della classe operaia contemporanea, la base sociologica o empirica del «realismo» di Lieven – e la sua insofferenza per qualsiasi riferimento a comunità di colore, migranti, donne e via dicendo come impolitica «feticizzazione delle politiche identitarie» – appare discutibile [27]. Inoltre, nonostante Lieven abbia tracciato in modo ponderato e spesso persuasivo la sovrapposizione ideologica tra nazionalismo e ambientalismo, le suggestioni centrali rimangono decisamente accessorie, limitate al livello del discorso [28].

La caratterizzazione da parte di Lieven del riferimento da parte della risoluzione Gnd alla razza come «political correctness» suggerisce anche una comprensione intellettuale di questa posizione traballante. Per svolgere il ruolo di mediatore tra i «liberali culturali» e i conservatori che Lieven vorrebbe ricoprire, è necessario comprendere la sfumatura e la differenziazione all’interno della prospettiva di ciascuna parte. Ciò significa evitare le posizioni caricaturali o marginali come se fossero rappresentative. L’«idea di uno Stato senza confini con un’identità completamente aperta», come dice Lieven, ha sostenitori libertari sia a destra che a sinistra, ma non è la posizione dei Democratici al Congresso che hanno proposto il Green New Deal. Sanders, ad esempio, è impegnato nell’approvazione di una moratoria immediata sulle deportazioni; a riunire le famiglie, a reintegrare e ampliare il Daca; ad accogliere i rifugiati e i richiedenti asilo, compresi gli sfollati a causa del cambiamento climatico. Mutatis mutandis, le politiche di Corbyn sono state altrettanto riformiste; Climate Change and the Nation State non indica quali di queste richieste debbano essere abbandonate per attirare gli elettori anti-immigrati. Ma l'approccio riduttivo di Lieven va oltre la spinosa questione delle migrazioni: a un certo punto egli suggerisce che «la maggior parte dei Verdi» si oppone «persino alla mera ricerca di un sistema di riduzione delle emissioni di carbonio» perché «eliminerebbe uno degli argomenti a favore dell’abolizione del capitalismo» [30]. Magari alcuni eco-socialisti possono nutrire sospetti sulle soluzioni tecnologiche, ma l'idea che «la maggior parte dei Verdi» sarebbe contraria a qualsiasi soluzione che possa ovviare al problema del cambiamento climatico è difficilmente credibile. […]

Un globo surriscaldato e le migrazioni di massa possono essere considerati dati assodati rispetto al nostro futuro, ma si può dire stesso riguardo l’ostilità verso i migranti come aspetto altrettanto inevitabile della realtà pre-politica? Come ha scritto Stuart Hall dopo la sconfitta elettorale generale dei laburisti nel 1987, «la politica non rappresenta la maggioranza, la costruisce» [34]. La strategia di Lieven è in qualche modo un appello per una politica più di classe, radicata nelle rovine sociali lasciate dal «capitalismo del libero mercato impazzito», che secondo Lieven rappresenta un’opportunità elettorale: «Il crescente impoverimento di ampie fasce della classe operaia bianca sta aprendo nuove importanti possibilità politiche al di là delle linee razziali, se i democratici sapranno come utilizzarle» [35]. Tuttavia, uno spirito di coesione raggiunto attraverso il richiamo a un senso patriottico che eviti con tatto di riconoscere l’esistenza dell’eterogeneità piuttosto che costruire un’unità più duratura, fondata sul riconoscimento della diversità delle esperienze, sembra un tentativo piuttosto superficiale di rappresentare le maggioranze percepite. […]

Si può osservare l'influenza di Tom Nairn – che Lieven cita come uno dei «pensatori di punta che hanno contribuito a ispirare questo libro» – nella convinzione di Lieven che il nazionalismo possa essere una forza positiva e modernizzante. Nella sofisticata e umanizzata caratterizzazione di Nairn in The Modern Janus, il nazionalismo appare come un’ideologia tormentata e difensiva, ma anche come un’ideologia intraprendente, animata da una volontà di sopravvivenza propulsiva, che afferma la vita e orientata al futuro piuttosto che nichilista. Ma mentre il nazionalismo di Nairn appare, soprattutto, come un fenomeno naturale – ed è questo che rende così convincente la sua insistenza sull’ambiguità morale e politica di questo concetto – la versione di Lieven del nazionalismo è limitatamente dicotomica: «la scelta è quindi tra versioni stupide e miopi del nazionalismo e versioni intelligenti e lungimiranti» [36]. Ciò significa che Lieven non tiene adeguatamente conto della possibilità che, una volta richiamata la forza formale del nazionalismo, il suo contenuto possa non essere «controllabile», come dice Nairn: «nel trauma sociale come in quello individuale, una volta che queste sorgenti di benessere sono state sfruttate, non c'è una reale garanzia che le grandi forze siano “controllabili” (nel senso di fare solo quello che dovrebbero fare, e nulla di più)» [37].

Lieven non affronta nemmeno la possibilità – anche la probabilità, dato il solipsismo prima facie del nazionalismo – che, come scrive Mike Davis:

«le crescenti turbolenze ambientali e socio-economiche potrebbero semplicemente spingere il pubblico d'élite a cercare in modo più frenetico di alienarsi dal resto dell’umanità. La questione del riscaldamento globale, in questo scenario inesplorato ma non improbabile, sarebbe tacitamente abbandonata – come, in una certa misura, è già stato fatto – a favore di investimenti sempre più rapidi che favoriscano l’adattamento selettivo dei passeggeri “di prima classe” della Terra. L'obiettivo sarebbe la creazione di oasi verdi e recintate di benessere permanente su un pianeta altrimenti devastato».

La «trasmutazione dell’interesse dei singoli paesi e delle classi benestanti in una “solidarietà illuminata”» sembra realistica, continua Davis, se si può dimostrare «che la riduzione dei gas serra possa essere raggiunta senza grandi sacrifici per il tenore di vita dell'emisfero nord» [38]. Definire la crisi climatica come una minaccia per la sicurezza nazionale in Occidente non risolve il problema di come convincere le élite a imporre sacrifici alle proprie popolazioni per conto di coloro che risiedono al di fuori dei loro confini; la elude. Infatti, parte della sostanza del «realismo» di Lieven si basa sul triste calcolo che è solo come minaccia alla stabilità occidentale che gli eletti e le élite possono essere convinti a comportarsi come se si preoccupassero degli altri. Ma una volta che la solidarietà e l’altruismo sono stati completamente scartati come principi d’azione, cosa può garantire che questa collisione accidentale tra interesse personale e interesse altrui possa durare?

Sfruttare il discorso anti-immigrati, con cui le forme contemporanee di nazionalismo sembrano essere così intrecciate, per il bene del pianeta può far oscillare il voto di alcuni elettori, ma probabilmente in entrambe le direzioni; e quale potrebbe essere il costo umano di questa strategia elettorale per le popolazioni che stanno già fuggendo o dovranno fuggire anche se raggiungeremo le zero emissioni entro il 2050? Climate Change and the Nation State è utile per ricordare che costruire coalizioni politiche significa trovare il modo di comunicare con gli ancora «non convertiti», e che l’opportunità di un programma ambientale egalitario non può essere data per scontata, ma va fatta con intelligenza strategica. La sfida, tuttavia, è quella di concepire un senso altro di ciò che può essere considerato «realistico», forgiando nuove aspettative su ciò che la realtà può e dovrebbe essere – ridefinendo il «senso comune», non adattando i programmi ecologici alle sue forme esistenti e perniciose. Inoltre, dato che gran parte del riscaldamento previsto dagli scienziati del clima nei prossimi decenni non è prevenibile, ma garantito, la riforma interna per mitigare il cambiamento climatico nei paesi ad alta emissione del Nord globale –attraverso l’azzeramento dell’uso dei combustibili fossili, l’espansione di reti di trasporto pulite, il miglioramento delle pratiche agricole, l’ammodernamento delle abitazioni e via dicendo – deve avvenire di pari passo con l’adattamento, inclusa la strutturazione di politiche migratorie e di sviluppo che non intrappolino le popolazioni impoverite in regioni invivibili, che sia nel loro interesse «nazionale» o meno.


Note

17. Ccns, pp. xv, 84–5.

18. Ccns, pp. 96–101.

19. Mentre in passato le transizioni energetiche erano lente – «solo negli anni ‘50 del secolo scorso, dopo la perforazione del primo pozzo petrolifero commerciale, in Pennsylvania, il petrolio greggio è arrivato a rappresentare il 25% dell'energia primaria totale dell'umanità» – il passaggio a fonti di energia più pulite deve avvenire in tempi improbabilmente rapidi. «Il capitale privato seguirà» la politica pubblica, ma i governi «devono dare segnali chiari»: «Not-so-slow burn», Economist, 23 Maggio 2020, pp. 53–4.

20. Ccns, p. 76.

21. Ccns, pp. 117–8.

22. Ccns, p. 56. Lieven non specifica quali dovrebbero essere questi «limiti ragionevoli», né individua un criterio ottimale per valutare le richieste di asilo.

23. Ccns, pp. 24, 60.

24. Per un’analisi alternativa, v. Maya Goodfellow: «la riluttanza a confrontarsi con i miti, e anzi, in effetti, la volontà di rafforzarli, ha coltivato la politica anti-immigrazione nel Regno Unito e in ultima analisi avrebbe contribuito a determinare il voto della Brexit», Hostile Environment: How Immigrants Became Scapegoats, London and New York 2020, p. 8.

25. Ccns, p. 51.

26. Ccns, pp. 129–32.

27. Ccns, p. 57.

28. Nel libro emergono in modo sparso una serie di opzioni politiche più sostanziali – una «piccola tassa sulle transazioni finanziarie applicata in modo rigoroso», «prezzi del carburante molto più alti», «un’azione dura per raccogliere fondi dalle élite», compresa l’annullamento dell’evasione fiscale e una regolamentazione più severa delle banche – ma queste sono puramente accessorie al suo argomento principale.

29. Ccns, p. 7.

30. Ccns, p. 120.

31. Il testo della risoluzione «Recognizing the duty of the Federal Government to create a Green New Deal» è disponibile su www.congress.gov

32. Adam Tooze, «Politics for the End of the World», New Statesman, 1 April 2020.

33. Lieven sottolinea «la forza e la determinazione dell’opposizione alla riforma da parte del settore bancario e dell’energia» in un paio di occasioni, ma questo riconoscimento saltuario non informa essenzialmente la sua analisi dell’attuale situazione di stallo, né la sua strategia per superarla: Ccns, pp. 105, xiv.

34. Stuart Hall, «Blue Election, Election Blues», Marxism Today, Luglio 1987.

35. Ccns, p. 134.

36. Ccns, p. xvi. Enfasi dell’autore.

37. Tom Nairn, «The Modern Janus», NLR I/94, Nov–Dic 1975, pp. 17, 19.

38. Davis, «Who Will Build the Ark?», pp. 37–8.


Traduzione a cura di Giulia Page.

Titolo originale: Painting Nationalism Green?, «New Left Review» 124, Jul. Aug. 2020, pp. 43 60

Comments


bottom of page