Resistere alle deportazioni di massa negli Stati Uniti oggi
- Warren Montag; Joseph Serrano
- 18 set
- Tempo di lettura: 11 min

Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Warren Montag e Joseph Serrano spiegano dagli Stati Uniti la logica della politica di deportazione di massa portata avanti da Trump. Un’operazione che risponde al bisogno di compiacere la parte del suo elettorato più sensibile alla retorica anti-immigrazione in un momento di peggioramento delle condizioni materiali; che crea divisioni all’interno dell’elettorato con background migratorio attraverso la falsa contrapposizione tra «buoni» e «criminali»; e che allo stesso tempo rafforza i poteri presidenziali, garantendo nuovi fondi all’ICE e ampliando la discrezionalità del Presidente che si può permettere di aggirare facilmente tutte le leggi.
Ciò che Trump non aveva previsto è stata la forte risposta in città come Los Angeles, dove una vasta mobilitazione ha ostacolato le operazioni dell’ICE grazie a una rete di organizzazioni di autodifesa comunitaria, capaci di monitorare e contrastare le azioni repressive. Ma probabilmente non è finita qui: dobbiamo attenderci — e prepararci — a una nuova offensiva, ancora più dura e violenta.
***
Quando Trump ha reintrodotto la questione dell’immigrazione non autorizzata durante la sua campagna presidenziale del 2024, ha dichiarato ripetutamente che l’obiettivo delle deportazioni di massa era l’enorme numero di «stranieri criminali» la cui presenza costituiva una minaccia immediata alla sicurezza della nazione. Ha evitato con molta cura di spiegare esattamente cosa intendesse con «straniero criminale» o quali fossero i suoi piani per gli «stranieri» non criminali. Ha anche evitato di fornire qualsiasi informazione riguardo alla percentuale di immigrati non autorizzati effettivamente condannati per reati. Al contrario, sembrava spesso implicare che, in virtù del solo attraversamento della frontiera, tutti i non autorizzati avessero già commesso un crimine da cui inevitabilmente sarebbero seguiti altri reati. Come Trump ripeteva in quasi tutti i suoi comizi, erano proprio i criminali del Messico e dell’America Centrale (a cui presto sono stati aggiunti Haiti e Venezuela) ad essere attratti dagli Stati Uniti per commettere omicidi, stupri e, soprattutto, per avere l’opportunità di arricchirsi vendendo droga illegale. Citava spesso la menzogna della destra secondo cui le risorse municipali, statali e federali venivano dirottate verso immigrati indegni che, anche se non tecnicamente criminali, erano parassiti e approfittatori che vivevano alle spalle delle tasse pagate dagli americani che lavorano sodo.
Questa raccolta di miti tossici, accuratamente confezionata per fare leva sul razzismo e sulla xenofobia della base di Trump, si è dimostrata straordinariamente resistente: contribuisce a spiegare la lealtà tuttora inalterata della stragrande maggioranza dei suoi sostenitori di fronte all’aumento del costo della vita, che in passato Trump attribuiva all’amministrazione Biden. Ancora più importante, aiuta a spiegare la notevole indifferenza della maggior parte dei suoi sostenitori di fronte al massiccio trasferimento di ricchezza dalle classi lavoratrici ai già ricchi e alla drastica riduzione o eliminazione dei servizi sociali dai quali la base di Trump dipende in misura sproporzionata.
Dobbiamo ormai riconoscere che razzismo e xenofobia non sono semplicemente pregiudizi destinati a dissolversi facilmente se messi a confronto con l’interesse economico. Al contrario, il razzismo inquadrato come preoccupazione per l’immigrazione agisce attraverso pratiche materiali di coercizione ed esclusione che portano alla criminalizzazione di gruppi definiti soprattutto dal colore della pelle e dalla lingua. Credenze e atteggiamenti razzisti vengono imposti e mantenuti proprio da queste pratiche. Solo una resistenza di massa capace di limitarle e indebolirle può scalzare quei pregiudizi razzisti che spesso sembrano impermeabili ad argomentazioni più solide e informate.
Per modificare le relazioni tra le idee, è necessario spostare l’equilibrio sociale e politico dei rapporti di forza. Per farlo, occorre un inventario preciso di queste forze e delle loro modalità di funzionamento.
Potremmo iniziare osservando la rimarchevole economia politica della campagna di deportazioni di massa di Trump, ossia il fatto che essa serve contemporaneamente a diversi scopi distinti:
Lo spettacolo degli agenti dell’ICE che danno la caccia agli «illegali» gratifica sia coloro che sentono di vedersi sottrarre il proprio paese, sia rafforza l’idea che coloro i quali vengono catturati meritino di essere perseguiti. Per quale altra ragione, altrimenti, agenti governativi dovrebbero essere incaricati di arrestarli? Non è la prima volta nella storia che una parte significativa della popolazione di una nazione può considerare lo spettacolo di bambini in lacrime trascinati fuori da scuola da agenti armati dello Stato non con indignazione o orrore, ma con qualcosa di vicino alla soddisfazione. Quella che spesso, a ragione, viene denunciata come crudeltà di Trump e della segretaria per la Sicurezza Interna, Kristi Noem, è molto deliberatamente messa in scena a beneficio del suo nucleo di sostenitori per garantirne la lealtà. Inoltre, l’ICE spesso detiene individui e li tiene segregati, negando così ai detenuti la possibilità di una tempestiva rappresentanza legale. Da qui, il numero imprecisato di persone detenute e deportate ingiustamente, compresi almeno 70 cittadini statunitensi e probabilmente molti più residenti legali. Il rifiuto della Corte Suprema di annullare l’ordine esecutivo di Trump, che attribuisce al Dipartimento della Sicurezza Interna (DHS) non solo il potere di deportare persone nel modo più rapido possibile, senza giusto processo e spesso senza verificarne lo status legale, ma anche quello di espellerle verso qualsiasi paese ritenuto idoneo, rappresenta una violazione tanto del principio di non-refoulement, sancito in diversi trattati sottoscritti dagli Stati Uniti, quanto del diritto internazionale. Il fatto che il DHS, immediatamente dopo la decisione della Corte, abbia scelto di inviare un gruppo di deportati in Sud Sudan, un paese che sta vivendo sia una guerra civile sia gravi carenze alimentari, è importante per comprendere la funzione strategica di ciò che può apparire come una combinazione di incompetenza e crudeltà. L’amministrazione Trump afferma così il diritto di rimuovere e poi abbandonare, senza alcuna ulteriore preoccupazione o responsabilità, chiunque sia considerato deportabile.
È ormai evidente che le rassicurazioni di Trump — destinate a placare i timori dei suoi sostenitori latinx (in particolare cubani, venezuelani e nicaraguensi) e a far credere che fosse interessato soltanto a deportare i criminali, per quanto vagamente definiti — non erano altro che uno stratagemma per guadagnarsi il sostegno della destra della popolazione latinx negli Stati Uniti. Trump aveva ragione nel ritenere che, da un lato, costoro fossero generalmente contrari a qualsiasi cosa in contrasto con il neoliberismo più draconiano e che, dall’altro, si sarebbero accontentati di vaghe promesse secondo cui non sarebbero mai stati presi di mira. Non immaginavano che proprio loro, insieme ai rifugiati haitiani che Trump sosteneva si nutrissero di cani rubati ai loro (bianchi) vicini affranti, sarebbero diventati il bersaglio privilegiato.
Quasi tutti sono registrati e devono presentarsi regolarmente a un ufficio immigrazione. Il loro precedente status temporaneo, ma legale, ha reso relativamente semplice il loro arresto e la loro detenzione. Gli agenti dell’ICE ora si limitano ad aspettarli al momento dell’appuntamento programmato e a fermarli. Questo richiede che il funzionario dell’immigrazione responsabile del caso revochi lo status protetto dell’individuo per qualche motivo procedurale o legale, ma le deportazioni sono ormai procedure altamente semplificate che si svolgono in gran parte al di fuori della legalità, dal momento che un ordine esecutivo — soprattutto nell’ambito dell’applicazione delle norme sull’immigrazione — prevale sia sulla legge esistente sia sulla prassi consolidata.
Il suo successo nell’appellarsi alle convinzioni anti-immigrazione della propria base popolare (probabilmente attorno al 40-45% degli elettori) ha permesso a Trump di utilizzare il tema dell’immigrazione come trampolino per una serie di attacchi contro procedure giudiziarie consolidate legate al giusto processo, per l’impiego delle forze armate all’interno dei confini statunitensi (contro le proteste che denunciavano le violazioni legali dell’amministrazione Trump), per arresti e aggressioni fisiche contro funzionari eletti (esclusivamente democratici, ossia esponenti del partito di opposizione) da parte di agenti federali, nonché per la negazione sistematica del diritto dei rappresentanti eletti a ispezionare i centri di detenzione o ad accedere ai detenuti, o persino per localizzarli.
La normalizzazione di queste pratiche – unita alla rivendicazione da parte di Trump di un diritto di rappresaglia contro funzionari politici e soggetti privati – procede gradualmente, mentre il Presidente americano ha iniziato a valutare la revoca della cittadinanza nei confronti dei cittadini naturalizzati che partecipano a movimenti caratterizzati da una percentuale relativamente alta di attivisti nati all’estero (come quello di solidarietà con la Palestina o le campagne contro le deportazioni). Se l’amministrazione riuscisse in un simile progetto, assisteremmo a un numero ancora maggiore di sparizioni tramite deportazione rispetto a oggi.
Si tratta di un metodo efficace per terrorizzare ampie fasce della popolazione esterne ai circoli MAGA. Sono tattiche già impiegate dal regime nazionalsocialista per instillare paura e confusione, prima contro i suoi nemici interni in Germania e poi tra le popolazioni occupate. I consiglieri di Trump ne stanno seguendo le orme.
L’intensificazione della campagna di deportazioni di massa ha anche funzionato come manovra diversiva. Il fatto che i raid dell’ICE e la resistenza da essi provocata si siano verificati proprio mentre il «Big Beautiful Bill» di Trump veniva presentato, discusso e approvato da entrambe le camere del Congresso, è stato certamente un fattore che ne ha favorito il passaggio. Con le sue 940 pagine, chiaramente concepite per evitare un esame punto per punto e per essere semplicemente approvato in blocco, la legge è riuscita a oscurarne la portata per la resistenza alle deportazioni di massa.
Il provvedimento assegna 170 miliardi di dollari all’ICE, destinati in gran parte all’assunzione di un numero imprecisato di nuovi agenti e alla costruzione di strutture di detenzione. Come ha osservato Lauren Gambino sul Guardian, si tratta di «una somma sbalorditiva che renderebbe l’ICE l’agenzia di polizia più finanziata del governo federale, e che, secondo i critici, scatenerà nuovi raid, sconvolgerà l’economia e limiterà drasticamente l’accesso a protezioni umanitarie come l’asilo».
Ciò non significa che deportazioni di massa di quella portata e l’arricchimento straordinario delle classi dominanti che la legge promette siano realmente armonici o compatibili. La base di Trump è molto più facilmente mobilitata sull’obiettivo di liberare la nazione da «stranieri criminali non bianchi» e da «dottorandi jihadisti», che sull’eliminazione dei servizi sociali a beneficio dei già ricchi. Per mantenerla mobilitata, tuttavia, Trump è costretto a privare interi settori economici della loro forza lavoro, soprattutto agricoltura, hospitality e costruzioni.
Aveva brevemente proposto di esentare questi settori dai raid e dai controlli, ma i suoi sostenitori indignati lo hanno costretto a fare marcia indietro. Più Trump si avvicina agli obiettivi che si è prefissato sulle deportazioni, maggiore è il danno all’economia. L’impatto della rimozione improvvisa di milioni di lavoratori, molti dei quali difficilmente sostituibili, resta nascosto sotto l’ondata di trionfalismo suprematista bianco.
È ormai chiaro che siamo entrati in uno di quei momenti in cui la distinzione tra potere formale e legale — ossia quei diritti che si dice ci appartengano — da un lato, e potere reale – ossia il potere esercitato piuttosto che posseduto, spesso in opposizione alla legalità – dall’altro, una distinzione solitamente offuscata, è diventata visibile e comprensibile. Non molto tempo fa un esercito di commentatori e giuristi ci assicurava che la cittadinanza per nascita, garantita dal XIV emendamento della Costituzione, non avrebbe mai potuto essere messa in discussione, né tantomeno abrogata, senza una lunga procedura dalle scarse possibilità di successo. Trump, con la complicità della Corte Suprema, la cui maggioranza eleva gli ordini esecutivi al di sopra della legge consolidata, ha reciso il nodo gordiano dell’ordine giuridico con poche parole. La sorprendente facilità con cui il Presidente ha potuto di fatto annullare la legge esistente e aggirare il giusto processo merita un’analisi. Trump avrà presto realizzato, non attraverso un colpo di stato fascista, ma mediante una sospensione legale o quasi-legale, graduale e caso per caso, dell’ordine costituzionale. Naturalmente, uno degli elementi più importanti di questa campagna — insieme causa ed effetto — è la possibilità di dispiegare reparti militari armati per «mantenere l’ordine» all’interno degli Stati Uniti, ancora una volta senza rispettare i criteri stringenti previsti per un’azione tanto eccezionale.
Questi esempi sono importanti non tanto perché violano il diritto costituzionale, quanto perché contribuiscono a spostare l’equilibrio sociale e politico delle forze a favore dell’ordine neoliberale autoritario che Trump e una parte significativa della classe dirigente mirano a imporre. Terrorizzare la classe lavoratrice, a partire dal suo settore più combattivo, i lavoratori con background migratorio; epurare college e università da docenti dissidenti e studenti appartenenti a gruppi sottorappresentati (in nome della difesa dei diritti degli studenti bianchi e della lotta all’antisemitismo); controllare i programmi di studio e la ricerca, comprese le scienze; e assoggettare la maggioranza lavoratrice alla disciplina della miseria, delle malattie e degli effetti del cambiamento climatico incontrollato, sono tutti componenti necessari del programma MAGA. La decisione di Trump di avviare la sua offensiva attaccando la classe lavoratrice con background migratorio nei luoghi di lavoro e nei quartieri è stata chiaramente strategica. Si tratta di una forza che deve essere isolata e sconfitta perché il suo progetto politico possa giungere a compimento. È per questa ragione che Trump ha insistito sin dall’inizio nel destinare ingenti risorse alla causa delle deportazioni di massa.
Trump ha fatto della punizione delle «città santuario» una priorità assoluta. Le città che hanno vietato alle forze di polizia di collaborare in qualsiasi modo con l’ICE si sono rivelate un ostacolo significativo al programma di deportazioni di massa che l’amministrazione auspicava. Trump aveva presunto che ignorare semplicemente gli statuti locali e inondare città come Los Angeles di agenti ICE sarebbe bastato per superare qualsiasi resistenza da parte dei funzionari eletti. Avrebbe potuto avere ragione, se non fosse per il fatto di aver sottovalutato la profondità e l’ampiezza della resistenza popolare. L’indignazione suscitata dai primi raid dell’ICE nei luoghi di lavoro e nelle scuole elementari ha portato a manifestazioni di massa con centinaia di migliaia di partecipanti. Trump ha risposto inviando la Guardia Nazionale e successivamente un reparto di Marines, ma poiché le proteste erano combattive ma in gran parte non violente, le forze militari sono rimaste inattive. L’amministrazione aveva previsto, e anzi tentato di provocare, una rivolta cittadina su scala paragonabile a quella del 1992, che giustificasse una repressione militare e permettesse così all’ICE di operare liberamente. Ciò che non avevano previsto era l’auto-organizzazione delle comunità colpite.
Organizzazioni con decenni di esperienza, come Unión del Barrio, hanno incoraggiato le comunità a creare reti attraverso le quali i quartieri presi di mira potessero allertare rapidamente i residenti in caso di presenza dell’ICE. In tutta la California meridionale, Unión del Barrio e una coalizione di organizzazioni di autodifesa comunitaria hanno sviluppato metodi efficaci per monitorare le attività dell’ICE (esiste ora persino un’app per tracciare i movimenti dell’ICE) ed elaborato tattiche per affrontarne le operazioni con mobilitazioni popolari che, pur essendo combattive, si fermano un passo prima della violenza che potrebbe condurre ad arresti e incarcerazioni. I risultati del movimento di resistenza in California sono sorprendenti: sebbene lo Stato, pur avendo di gran lunga il maggior numero di migranti non autorizzati del paese, registra un numero di arresti pari a un terzo di quello del Texas e alla metà di quello della Florida. Ciò è dovuto in larga misura al numero di membri delle comunità attivi nella resistenza contro l’ICE.
Il punto culminante della battaglia di Los Angeles, ciò che Maga Miranda ha definito la «Rivolta Anti-Raid di Los Angeles», si è svolto tra il 6 e l’8 giugno, quando gruppi di risposta rapida hanno reagito a una serie di grandi raid in città. Secondo Miranda, «le azioni dirette per ostacolare le operazioni dell’ICE hanno assunto molte forme creative e conflittuali». Oltre a impedire il movimento dei veicoli dell’ICE (bloccandoli o sgonfiandone gli pneumatici), i manifestanti «hanno anche riutilizzato materiali di uso quotidiano per disturbare le operazioni dell’ICE, come costruire barricate improvvisate con sedie metalliche a Grand Park, un gesto che da allora è stato lodato dal designer delle sedie per la loro ingegnosità». Una tattica particolarmente significativa ha visto i manifestanti presentarsi negli hotel dove alloggiavano agenti dell’ICE e del DHS, costringendoli a lasciare il luogo. A Pasadena, in California, per esempio, centinaia di manifestanti hanno spinto la direzione dell’AC Hotel a far sgomberare gli agenti dell’ICE che vi soggiornavano.
In quello che potrebbe essere uno degli aspetti più caratterizzanti della congiuntura, i manifestanti hanno anche dato fuoco a vetture a guida autonoma della Waymo. Se a prima vista l’incendio di auto senza conducente invece di auto della polizia potrebbe sembrare distinguere la «Rivolta Anti-Raid di Los Angeles» dalla ribellione di George Floyd del 2020, come ha osservato Jason E. Smith, «i taxi a guida autonoma come le Waymo sono robot disseminati di sensori, equipaggiati con radar, dispositivi di rilevamento laser e decine di telecamere, in grado di fornire rappresentazioni tridimensionali in tempo reale dell’ambiente circostante. Le informazioni che raccolgono sono state utilizzate dalle forze dell’ordine — tra cui il LAPD — per raccogliere prove in casi penali. Non sorprende, quindi, che le auto-robot incendiate abbiano colpito un nervo scoperto: in fondo, sono auto della polizia, e come tali trattate». In effetti, i taxi a guida autonoma e le telecamere Ring, ormai penetrati nella vita quotidiana, sono diventati forme ordinarie di sorveglianza e interpellazione. Con l’ICE destinata a diventare l’agenzia di polizia più finanziata del governo, possiamo aspettarci che forme di sorveglianza ancora più sofisticate vengano impiegate per reprimere i movimenti.
Unión del Barrio mette però in guardia: quanto accaduto a Los Angeles non rappresenta affatto la piena forza che l’ICE potrebbe dispiegare. Sostiene che il DHS stia conducendo una sorta di sonda per testare il livello e la sofisticazione della resistenza alle deportazioni di massa. I risultati potrebbero persino consentire all’ICE di sviluppare tattiche per disattivare le difese del movimento, a meno che non concluda che i costi superano i benefici. Ma lo stesso movimento svilupperà nuove tattiche a partire dalle informazioni raccolte nei suoi numerosi scontri e incontri. Dobbiamo dunque attenderci — e prepararci — a una nuova offensiva, potenzialmente più repressiva e violenta.
***
Warren Montag è professore emerito di Letteratura inglese presso l’Occidental College di Los Angeles. I suoi libri più recenti includono Althusser and his Contemporaries (Duke University Press, 2013) e The Other Adam Smith (Stanford University Press, 2014).
Joseph Serrano è dottorando presso il Dipartimento di Inglese dell’Università della California, Berkeley. È assistente editoriale della rivista décalages.








Commenti