Dopo lo scandalo Juventus e la penalizzazione di 15 punti in classifica, in questo contributo intendiamo analizzare come il mondo del calcio, punta di diamante dell’industria dell’intrattenimento, si sia progressivamente trasformato in settore altamente produttivo di plusvalore e a icona del processo di finanziarizzazione delle emozioni collettive, esempio del ruolo sempre più marcato del biopotere della finanza sulla vita umana.
Questo testo è pubblicato in contemporanea su Effimera e sul periodico El Salto, tradotto in spagnolo.
* * *
Premessa
Nel contesto capitalistico contemporaneo, una delle principali fonti di valorizzazione capitalistica è l’economia dell’evento. Con tale termine, intendiamo quell’insieme di attività politiche, sociali e di entertainment che nell’epoca fordista facevano parte del lavoro improduttivo, comunque funzionali alla sua realizzazione, in quando governance del cd tempo libero e degli immaginari. In un contesto di organizzazione rigida dell’accumulazione capitalistica, basata su altrettanto rigide dicotomie (produzione vs consumo, lavoro produttivo vs lavoro improduttivo, produzione vs riproduzione ecc.), la dicotomia lavoro vs ozio era sinergica a quella, ad esempio, tra produzione e riproduzione. In altre parole, tutte le attività di regolazione del tempo di non lavoro, dalla cura allo svago, erano ancillari al mantenimento di un corpo-lavoro produttivo e pronto a essere sfruttato.
Nel capitalismo bio-cognitivo, gestito e organizzato da piattaforme tecnologiche sempre più pervasive, ogni atto della vita è, in modo interdipendente, sia messo a valore che finanziarizzato. Il processo di finanziarizzazione non è altro che l’ambito in cui, in modo del tutto discrezionale e gerarchico, sulla base dei rapporti di forza intercapitalistici, si definisce una unità di misura del valore di scambio della vita produttiva: un’unità di misura non stabile ma in continuo divenire, dal momento che è il frutto di convenzioni speculative in perenne metamorfosi.
La messa a valore del tempo libero oramai innerva tutti gli atti della vita quotidiana, anche perché è difficile dividere il tempo di lavoro da quello del non lavoro. Uno dei modi per rendere capitalisticamente produttivo il tempo libero, ovvero trasformare l’otium e il gioco in labor è proprio l’organizzazione degli eventi. Fino al secolo scorso, gli eventi (di natura culturale, economica o sportiva) erano scadenzati in periodi abbastanza lunghi: ad esempio, le Olimpiadi ogni quattro anni e laddove la tempistica è più ridotta varia la localizzazione dell’evento, come per l’Expo o le grandi kermesse fieristiche e culturali. In ogni caso, al massimo una volta l’anno. Si tratta cioè di eccezioni. Un momento di svago per ritemprare il corpo e assuefare la mente, come la domenica festiva.
Oggi non è più così. Come la domenica diventa sempre più spesso giornata lavorativa, così gli eventi di intrattenimento sono sempre più frequenti. Il caso del calcio è al riguardo eclatante.
L’economia politica del calcio
Nell’industria dell’intrattenimento, lo sport del calcio è sicuramente quello che in Italia richiama il maggior interesse e sul quale ruota il business principale.
Il calcio del Ventunesimo secolo dà vita a un sistema economico estremamente complesso. Può essere considerato il perno su cui ruota proprio quell’economia dell’evento che costituisce il settore del tempo libero, sino a mostrare un dinamismo che però troppo spesso non riesce a governare, con l’effetto di generare contraddizioni e rimanervi intrappolato. La sua dinamica di trasformazione industriale ha assunto delle linee di sviluppo ben precise, con due in particolare fra esse a fare da driver: la spettacolarizzazione e la finanziarizzazione. Due concetti la cui applicazione al calcio e alla sua economia necessita di essere chiarita.
La spettacolarizzazione oggi non è più lo spettacolo fine a se stesso in grado di generare emozioni collettive, è qualcosa di più: è il dispositivo principale per creare immaginari eterodiretti. Diventa così uno dei tanti strumenti di controllo sociale, in grado di influenzare i comportamenti economici e sociali degli individui. Di fatto, il calcio è oggi una sorta di grande piattaforma vivente che opera sulle relazioni sociali e sulla riproduzione di immaginari vincenti al pari delle piattaforme dei social network, con le quali il calcio è strettamente interrelato. Lo strumento più utilizzato è quello televisivo, con il fine di consentire di raggiungere una platea la più ampia possibile, differenziando gli orari delle partite e di fatto spalmandole su quasi tutti i giorni della settimana. In tal modo non solo aumenta la pervasività comunicativa dell’immaginario vincente e individuale del calcio ma si consente anche la messa a valore del tempo libero tramite il pagamento dei diritti televisivi a vantaggio delle stesse leghe calcistiche e delle squadre più blasonare.
Il meccanismo è quello classico delle piattaforme. L’utente paga un canale televisivo per poter assistere ad una partita e contemporaneamente, in quanto prosumer, produce audience a vantaggio dell’industria delle comunicazioni ma anche dati e informazione da tramutare in valore di scambio sempre a favore della piattaforma di network, senza che vi sia alcun ritorno remunerativo ma solo un costo. Contemporaneamente, il pagamento dei diritti televisivi diventa la voce più importante del bilancio di una società calcistica, soppiantando l’introito tradizionale, un tempo il principale, della vendita dei biglietti allo stadio. Il rapporto annuale dell’Uefa, pubblicato nel 2020 (l’ultimo anno prima della pandemia, e che per questo motivo può ancora consentire di fare valutazioni credibili) riferiva di un 53% di ricavi derivati da diritti televisivi in Premier League inglese, con la Serie A attestata sul 47% e la Liga spagnola sul 42%. Con riferimento alla Serie A italiana gli incassi da botteghino incidano mediamente soltanto per il 12% dell’ammontare del business.
Occorre notare che la spinta alla ricerca di nuovi introiti dai diritti televisivi è stato uno dei fattori che ha portato alcune società calcistiche tra le più blasonate a livello europeo (Ajax, Barcellona, Bayern Monaco, Borussia Dortmund, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester United, Milan, Olympique Marsiglia, Paris Saint Germain, Psv Eindhoven, Porto e Real Madrid, a cui se ne aggiunsero in seguito Arsenal, Bayer Leverkusen, Olympique Lione e Valencia) a volersi svincolare dall’Uefa e dalle leghe calcistiche nazionali per organizzare una sorta di Superlega europea con l’intento di spartirsi l’intera torta dei diritti televisivi. L’obiettivo al momento non ha avuto successo ma questa è un’altra storia.
Il divenire rendita finanziaria del calcio
Si sa che lo sport, a partire dall’ippica, è sempre stato oggetto di scommesse e sempre di più lo è diventato anche il calco. Ogni vola che si scommette c’è attività speculativa. Ma fintantoché tale attività speculativa interessa singoli individui che sulla base delle loro aspettative di risultato possono guadagnare o perdere sulla base di valori definiti dai bookmaker, ci troviamo in un ambito di contrattazione individuale in cui la partita di calcio è il medium della scommessa. E le società di calcio sono spettatrici neutre di tale gioco.
Lo sviluppo dei mercati finanziari, dopo il crollo di Bretton Woods, più di cinquant’anni fa, ha portato a fagocitare nell’attività speculativa porzioni sempre più ampie dell’attività economica. Negli anni Ottanta del secolo scorso abbiamo assistito alla trasformazione delle grandi multinazionali in holding finanziarie. Le grandi corporation si sono trasformate da imprese stakeholder (le cui finalità era creare profitto a favore dell’indotto e delle banche creditrici, grazie al coinvolgimento/sfruttamento della forza lavoro e della clientela) in imprese shareholder (le cui finalità sono incrementare il valore del capitale sociale a favore degli azionisti e del management), favorendo l’estensione della speculazione finanziaria anche ad ambiti sempre meno dipendenti dall’azione economica e sempre più intrecciati con la vita umana e la gestione del tempo di vita. Non stupisce, perciò, che anche nel calcio si sia avviato un processo di finanziarizzazione delle società sportive.
In un’economia finanziaria di produzione, dove i mercati finanziari creano i mezzi di finanziamento, la quotazione in borsa diventa un obiettivo se si vuole competere a livello internazionale. In Italia, questa tendenza è ancora assai limitata: solo tre sono le squadre quotate direttamente in borsa: Juventus, Roma e Lazio. Ma anche negli altri paesi, il numero di società quotate in borsa calcistiche non è molto numeroso, ma quelle denominate Spa sono ramai la maggioranza. Il processo è quindi ancora all’inizio ma appare inarrestabile.
Ciò che invece sta cambiando repentinamente è la struttura proprietaria delle squadre di calcio. Se fino a qualche lustro fa, erano i grandi magnati industriali a finanziarie il calcio, spesso con bilanci in perdita, per avere un ritorno di immagine (pensiamo ai Moratti, agli Agnelli, ai Berlusconi, ai Sensi, per restare in Italia), oggi sono sempre più i fondi di investimento e speculativi, dagli Usa a Dubai, ad assumere quote rilevanti della proprietà delle squadre di calcio. È il primo passo per arrivare poi alla quotazione di borsa. Ciò significa che il business del calcio è diventato terreno appetibile per la speculazione finanziaria, che vi intravvede opportunità di forte guadagno.
Questo processo è stato agevolato negli ultimi anni dall’introduzione di nuove regole di bilancio per le società di calcio. Nel 2009 il comitato esecutivo della Uefa comincia a parlare della necessità di introdurre il Fair play finanziario (Ffp). Lo scopo dichiarato di questa misura, era quello di far estinguere i debiti contratti dalle società calcistiche e favorire nel medio periodo l’autofinanziamento, grazie al rispetto di alcuni parametri (pagamento dei debiti arretrati verso altre società, dipendenti e/o autorità, trasparenza finanziaria e di bilancio e, infine, obbligo del pareggio di bilancio). Si tratta delle precondizioni minime per attirare capitali speculativi e generare quelle plusvalenze che potevano poi finanziare strategie competitive in grado di raggiungere risultati positivi e, in questo modo, attirare nuovi investimenti. In tal modo il processo di finanziarizzazione del calcio inizia a prendere piede.
L’insostenibile leggerezza della finanza calcistica
Il Fair play finanziario è un vincolo alla gestione di bilancio delle società di calcio. È tuttavia un provvedimento sicuramente meno stringente dei vincoli imposti dalla politica europea di austerity sui bilanci pubblici nazionali, al punto che numerose sono le possibilità di bypassarlo, grazie all’utilizzo di finanza creativa e a forme di controllo assai più blande.
Uno degli obiettivi della riforma era di evitare un’eccessiva gerarchia economica e finanziaria tra le società grandi e quelle più piccole che potesse influenzare la competitività dei campionati. La realtà ci mostra un risultato opposto. Grazie alla scoperta e all’ingresso dei grandi fondi di investimento dei nuovi mercati asiatici, mediorientali e oggi sempre più nordamericani, dal 2010 a oggi, il fatturato dei club che disputano i campionati di prima divisione in tutta Europa è aumentato del 57,4%, mentre il fatturato dei quattro giganti del pallone (Real Madrid, Manchester United, Barcellona e Bayern Monaco) è aumentato dell’81,2, pur partendo da una base già molto più alta.
Nuovi club sono entrati nell’aristocrazia del calcio europeo, grazie a ingenti investimenti (pensiamo al Paris Saint Germain e al Manchester City, ad esempio) ma la struttura piramidale si è accentuata. In questo senso la competizione per reperire risorse finanziarie, anche per far fronte alle crescenti spese di gestione del mercato dei calciatori (sempre più intermediato dai procuratori sportivi), è aumentata sino a sperimentare tutte quelle modalità speculative, al limite della legalità, che operano sui mercati finanziari.
È interessante notare che la voce che più si presta a gonfiare le plusvalenze e a veicolare i bilanci verso livelli di maggiore sostenibilità è quella relativa alla valutazione dei calciatori. Non è un caso ma è la norma in un sistema di capitalismo bio-cognitivo dove la vita viene messa a valore. Sorge infatti l’aleatorietà di tale concetto. Che valore ha la vita messa a valore? Qui si esplicita in modo del tutto dirompente il problema della misura nel capitalismo contemporaneo.
Se nell’attività speculativa tradizionale operano in misura sempre maggiori le operazioni di «buy back» e «share back» per produrre un aumento fittizio dei valori di borsa e delle relative plusvalenze, lo stesso, seppur con altri metodi, avviene nel mondo finanziarizzato del calcio.
Il recente caso della Juventus è eclatante e scopre un vaso di Pandora già abbastanza noto. Per far quadrare il bilancio e ridurre le perdite al fine di non vedere eccessivamente penalizzate i valori azionari (anche a seguito della difficoltà della società torinese di ottenere buone performance in Europa, pur vincendo 9 scudetti di fila in Italia), la ex dirigenza Agnelli ha creato delle plusvalenze «fittizie».
Nel calcio, la plusvalenza è il guadagno che una società può ottenere dalla vendita di un calciatore, al netto della quota di ammortamento del cartellino che era ancora a bilancio. Comprando un giocatore a 20 milioni e facendo 5 anni di contratto, la quota di ammortamento sarà di 4 milioni l’anno. Se la società lo vende dopo due anni a 30 milioni, la plusvalenza si ottiene sottraendo ai 30 milioni una somma che è data dalla differenza tra i 20 milioni iniziali e l’ammortamento che resta (3 anni per 4 mln sono 12 milioni): il risultato sono 22 mln di plusvalenza.
Le plusvalenze diventano fittizie quando, attraverso lo scambio di giocatori, non vengono date valutazioni reali ai cartellini dei calciatori. Sono operazioni che vengono fatte per generare «guadagni» che servono a sistemare i bilanci. Quasi sempre, il vantaggio è per tutte e due le società che fanno lo scambio, più o meno come avviene con le operazioni «buy back». Ma a differenza di queste ultime, le plusvalenze fittizie richiedono minor trasparenza sulle valutazioni dei calciatori.
È probabile che si tratti di una pratica diffusa e il caso Juve è arrivato alle cronache giudiziarie per un uso/abuso eccessivamente disinvolto di tale pratica.
Tra economia dell’evento e finanziarizzazione, il calcio diventa un modello di business di primaria importanza, il settore di punta un grado di valorizzare le emozioni collettive a vantaggio di pochi. E come avviene sempre più spesso, gli appassionati sono coloro che pagano.
* * *
Andrea Fumagalli è docente di economia all’Università di Pavia. È stato fondatore della rivista «Altreragioni». Con Sergio Bologna ha curato Il lavoro autonomo di seconda generazione (Feltrinelli, 1997). Altri suoi lavori sono: Bioeconomia e capitalismo cognitivo (Carocci, 2007) e La moneta nell’impero (insieme a Christian Marazzi e Adelino Zanini, ombre corte, 2002). Per DeriveApprodi ha pubblicato Economia politica del comune (2017) e Valore, moneta, tecnologia (2021).
Σχόλια