Cultura di destra oggi
- Salvatore Spina
- 1 giorno fa
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![The Great Anxiety (Self-Portrait, in Three-Quarter Profile to the Right) (Die große Angst [Selbstportrat, Kopf im Halbprofil nach rechts]), 1918, Walter Gramatté](https://static.wixstatic.com/media/0e99dc_b1b8d3000f6c498085f61e71027cba36~mv2.jpg/v1/fill/w_980,h_1252,al_c,q_85,usm_0.66_1.00_0.01,enc_avif,quality_auto/0e99dc_b1b8d3000f6c498085f61e71027cba36~mv2.jpg)
Nell'articolo che pubblichiamo oggi, Salvatore Spina, a partire dall'analisi sulla «cultura di destra» di Furio Jesi, s'interroga sulla situazione politica globale.
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L’anno ormai prossimo alla conclusione ha registrato, nell’ambito delle scienze filosofiche, alcune interessanti pubblicazioni sul tema del fascismo.
Nel mese di settembre Roberto Esposito, probabilmente il filosofo politico più importante nell’ambito dell’Italian Theory, pubblica per Einaudi un intenso volume, intitolato Il fascismo e noi. Un’interpretazione filosofica. In queste pagine il filosofo napoletano dà forma a un’interpretazione affatto particolare del fascismo italiano e dei fascismi in generale, mettendo in evidenza come l’analisi storica del fenomeno fascista sia necessaria ma non sufficiente per coglierne fino in fondo la portata epocale. Solo gli strumenti della filosofia sono capaci di comprendere pienamente come «il fascismo non sia un regime, un movimento, una dottrina – o meglio, che sia tutto questo, ma prima di tutto sia una macchina metafisica che si può definire "generativa" in quanto capace di generare le sue stesse condizioni di esistenza ed espansione» (Esposito 2025, pp. XII-XIII).
Di qualche settimana successivo è Tecnofascismo di Donatella Di Cesare, anch’esso pubblicato da Einaudi. In questo testo l’autrice mette bene in evidenza il carattere ibrido del fascismo contemporaneo, il quale si avvale simultaneamente di istanze regressive, finalizzate a mettere in atto politiche securitarie, e di sofisticati strumenti tecnici, orientati al controllo e al dominio.
Senza entrare nel merito dei due testi, che andrebbero discussi in maniera approfondita e idealmente attraverso uno approccio comparativo, ciò che, in questo contesto, bisogna mettere in evidenza è il punto di tangenza individuabile a partire dalle tesi che emergono dalle loro pagine. Il fascismo non viene trattato esclusivamente come un fenomeno storico, appartenente a un passato con cui abbiamo fatto definitivamente i conti e che può, per ciò stesso, essere relegato nelle memorie archivistiche degli storici. Forzando volutamente la metafora, si potrebbe affermare, invece, che il fascismo si configuri come un Gespenst che si aggira per l’Europa e, con il suo carattere spettrale, penetra le fibre più profonde delle democrazie occidentali.
Bisogna, tuttavia, procedere in maniera accorta e sorvegliata, al fine di evitare anacronismi che rischierebbero di ridurre l’analisi del fascismo a un mero esercizio eristico, incapace di cogliere le sfide poste dalla politica nell’epoca in cui, probabilmente, ogni politica come è stata finora conosciuta non appare più praticabile. È proprio la natura spettrale del fascismo – cui si è fatto riferimento poc’anzi – a rendere ogni discorso sulle destre contemporanee intrinsecamente scivoloso e problematico. Se si eccettuano alcune manifestazioni folkloriche di nostalgie novecentesche, lo spirito del tempo sembrerebbe indicare che coloro che si strappano le vesti paventando il ritorno del fascismo siano ormai fuori tempo massimo, condannati al ruolo di perenni Cassandre.
Posato il moschetto e dismesso l’orbace, la nuova destra ha trovato, infatti, la sua forza immanente nel legame sotterraneo che essa ha stretto in maniera indissolubile con il capitalismo nella sua declinazione neoliberista.
Le analisi politiche, sociologiche e, ça va sans dire, filosofiche che oggi si confrontano con la cultura di destra e, in generale, con il pensiero conservatore, falliscono nel loro intento quando, limitandosi agli aspetti esteriori e superficiali, non riescono a cogliere il nesso strutturale che lega le élites economiche ai dispositivi di potere.
È a partire da questi presupposti che, in questo breve contributo, intendo mostrare come l’analisi della cultura di destra proposta da Furio Jesi richieda un’attenta rilettura e una possibile riattualizzazione alla luce dei profondi mutamenti che hanno caratterizzato la politica italiana e, più in generale, occidentale nell’ultimo mezzo secolo.
Quando nel 1979 Furio Jesi pubblica il suo testo ormai classico, Cultura di destra, la situazione politica globale si presenta, sotto molti aspetti, ancora simile a quella del secondo dopoguerra. Pur con delle incrinature, a reggere l’ordine del mondo è una visione bipolare: da un lato, le democrazie occidentali, sostanzialmente subordinate agli orientamenti provenienti da oltreoceano; dall’altro, il socialismo reale, disciplinato dalle direttive impartite da Mosca. Il muro di Berlino costituisce un discrimine fisico ma soprattutto simbolico tra due differenti Weltanschauungen.
Studioso di storia delle religioni, mitologia e letteratura tedesca, oltre che militante della sinistra extraparlamentare italiana, Jesi si interroga su ciò che debba propriamente intendersi con la nozione di «cultura di destra». In un’intervista rilasciata all’Espresso qualche mese prima della sua morte, avvenuta per un incidente domestico nel 1980, Jesi ne fornisce la definizione più appropriata:
La cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogenizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari. La cultura in cui si dichiara che esistono valori non discutibili, indicati con l’iniziale maiuscola, innanzitutto Tradizione e Cultura ma anche Giustizia, Libertà e Rivoluzione. Una cultura, insomma, fatta di autorità, di sicurezza mitologica circa le norme del sapere, dell’insegnare, del comandare e dell’obbedire. La maggior parte del patrimonio culturale, anche di chi oggi non vuole affatto essere di destra, è residuo culturale di destra (Jesi 2011, 285).
Nell’analisi della cultura di destra, Jesi trova un banco di prova privilegiato per la messa a punto del suo modello teorico più noto: la macchina mitologica. Sebbene inizialmente avesse fatto propria la distinzione di Kerényi tra mito genuino e mito tecnicizzato, egli giunge progressivamente alla conclusione che l’accesso al mito genuino – inteso come un mito capace di creare legami comunitari e identitari – sia definitivamente precluso. Neanche i «veri maestri» evocati da Kerényi sono più in grado di attingere a uno spazio autentico del mito, in quanto il mito stesso si dà esclusivamente nella sua forma tecnicizzata, cioè resa funzionale agli scopi del potere.
Proprio questa inaccessibilità alla genuinità del mito costituisce il punto di avvio della riflessione jesiana sul funzionamento della macchina mitologica. In estrema sintesi, essa può essere descritta come un dispositivo teorico capace di produrre orizzonti di senso al di là dei contenuti «mitici» che contiene in sé. Jesi si spinge addirittura oltre, sostenendo che la macchina mitologica al suo interno, nella sua «scatola nera», potrebbe essere abitata da un vuoto. Ed è precisamente questo vuoto a rappresentare il presupposto del suo funzionamento: ciò che conta non è tanto il contenuto, quanto il meccanismo che la macchina mette in moto e l’orizzonte valoriale che emerge dal suo girare su sé stessa.
Nella cultura di destra Jesi vede in azione un’esemplificazione paradigmatica di questo meccanismo. La macchina mitologica in azione nella cultura di destra ci mette di fronte a un orizzonte assiologico incentrato su «idee senza parole»: non è richiesto un sapere critico e speculativo, bensì l’adesione immediata a una serie di valori che non necessitano di essere spiegati, poiché presentati come «retaggio dei nostri padri, che abbiamo nel sangue». La macchina mitologica, ossia il mitologo e il suo racconto veicolato tramite il linguaggio, fornisce un materiale già «masticato e digerito», costituito da valori scritti con la lettera maiuscola, appartenenti a un passato immemoriale, che esigono solamente un’adesione fideistica e acritica.
Le parole d’ordine della cultura di destra sono, per usare un’espressione di Ernesto Laclau, significanti vuoti: contenitori semantici capaci di essere riempiti con i significati differenti in base all’esigenze politiche contingenti. È per questo che, per esempio, il «prima i padani» della Lega Nord si può trasformare agevolmente in un «prima gli italiani», provocando negli elettori la medesima risonanza emotiva. Scrive Jesi:
Tutto l’apparato culturale posto in atto (indipendentemente dalle sue contraddizioni interne o quanto meno dai suoi stili diversi) è tecnicizzato affinché si possa dire di avere una cultura, cioè è trasformato in un feticcio-cultura, sacrale ed essoterico. Gli elementi culturali sono per così dire omogenizzati: in questa pappa, dichiarata preziosa, ma anche ben digeribile da tutta la classe mediamente istruita, non ci sono più veri contrasti, vere punte, spigoli e durezze. Il suo veicolo linguistico è composto di luoghi comuni, ma non di luoghi comuni del parlare profano quotidiano, bensì di luoghi comuni decantati dal parlare letterario. Questo linguaggio per luoghi comuni di provenienza aulica è dichiarato modello di chiarezza, si dice che tutti lo capiscano, e di fatto (sebbene si debba molto esitare qui sull’uso della parola capire) non provoca sconcerto, tutti vi sono abituati. Non ha rapporto con la ragione, né con la storia: nasce da roba di valore che viene chiamata il passato, ma che è così storicamente indifferenziata da poter circolare nel presente. È sfruttabile, ed è generalmente sfruttato, come veicolo dell’ideologia della classe dominante; ma serve a difendere quell’ideologia anche quando non mostra apparenti contenuti ideologici. È già di per sé, per quanto vuoti restino in certi casi i suoi topoi ricorrenti, strumento efficiente di quell’ideologia. È l’elemento più caratteristico e diffuso della cultura di destra: possiede tutta la sua oscurità che è dichiarata chiarezza, tutta la sua ripugnanza per la storia che è camuffata da venerazione del passato glorioso, tutto il suo immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva perenne (Jesi 2011, 162-163).
Nell’intervista pubblicata sull’Espresso, a cui facevamo riferimento in precedenza, Jesi introduce un elemento significativo sul quale vale la pena soffermarsi brevemente. Egli sostiene che gran parte del patrimonio culturale, incluso quello di coloro che non si riconoscono nei valori conservatori della destra in senso stretto, costituisce un residuo assiologico prodotto dalla macchina mitologica di destra. Come aveva mostrato magistralmente in Spartakus, anche nello spazio culturale e politico progressista, e più in generale all’interno della cosiddetta sinistra, è sempre in agguato il rischio di scivolare nel campo minato delle parole scritte con la lettera maiuscola. Quando ideali quali «rivolta», «resistenza», «rivoluzione», «antifascismo» – per citare solo alcuni esempi – vengono elevati a orizzonte di senso ultimo, esigendo un’adesione incondizionata e una disposizione estrema al sacrificio, anche in questo caso, secondo Jesi, si è già coinvolti nel meccanismo di una macchina mitologica il cui effetto performativo risiede nell’imposizione di forme di dominio e di controllo.
A circa mezzo secolo dalla pubblicazione di Cultura di destra, le analisi di Furio Jesi sul rapporto tra mito e politica conservano una sorprendente attualità. È, tuttavia, necessario procedere a una loro riattualizzazione alla luce dei profondi cambiamenti che hanno caratterizzato la storia occidentale degli ultimi decenni.
La fine dell’esperienza del socialismo reale ha segnato un punto di non ritorno, favorendo la diffusione di un pensiero unico nel panorama politico occidentale. In tale contesto, quella che era la cultura di destra con cui si è confrontato Jesi ha subito una metamorfosi radicale e, per molti versi, inattesa, al punto da aver reso ancora più efficaci le sue prerogative originarie.
La destra occidentale, nelle sue diverse declinazioni, presenta un duplice volto. Essa, certamente, rimane fedele a quelle «idee senza parole» capaci di attivare immediatamente la reazione emotiva di coloro che sono alla ricerca di identità e di appartenenza. È la destra patriottica e nazionalista, le cui politiche securitarie sono finalizzate a creare una forma di rifiuto nei confronti di qualsiasi dimensione comunitaria. È la destra che si richiama ai valori ancestrali della tradizione, perfettamente riuniti nella triade Dio-Patria-Famiglia. È la destra che invoca forme estreme di territorializzazione, in difesa di particolarismi e localismi di diversa origine.
Tuttavia, attualizzando il Marx di Per una critica dell’economia politica, questi aspetti costituiscono solamente il livello sovrastrutturale della dimensione politica a cui fa riferimento il pensiero conservatore. A un livello più profondo di indagine emerge chiaramente come il successo delle destre contemporanee dipenda dalla loro capacità di coniugare gli aspetti più conservatori dell’immaginario politico con l’adesione ai più spregiudicati dettami del capitalismo e del neoliberismo. È il mercato, con le sue esigenze strutturali, a dettare l’agenda dei governi e a modellare le priorità dell’intervento pubblico.
L’erosione progressiva del Welfare State, il crescente divario tra una minoranza sempre più ricca e una maggioranza sempre più impoverita, le nuove forme di colonialismo esercitate in nome della democrazia: tutto ciò rende evidente che il rischio dell’emergere di nuove forme di fascismo costituisce solo la superficie — talvolta fuorviante — di un processo più ampio. Tale rischio, infatti, può finire per occultare la vera «volontà di potenza» che anima il disegno politico occidentale contemporaneo, un progetto che, dietro la retorica universalista che lo accompagna, tende a riprodurre — anche attraverso il ricorso alla guerra «giusta»— relazioni di sottomissione, marginalizzazione e violenza.
Negli anni in cui Jesi scriveva Cultura di destra queste dinamiche, che oggi appaiono evidenti, erano a una fase aurorale. Tuttavia egli ci fornisce un’indicazione preziosa che può essere assunta come regola aurea nel proporre forme-di-vita alternative rispetto all’ordine costituito delle cose. Nonostante il suo discorso fosse riferito alla possibilità di mettere in scacco la macchina mitologica della cultura di destra, credo che esso possa costituire ancora oggi l’obiettivo minimo di qualsiasi programma rivoluzionario:
occorre distruggere non le macchine in sé, le quali si riformerebbero come le teste dell’idra, bensì la situazione che rende vere e produttive le macchine. La possibilità di questa distruzione è esclusivamente politica […]. Distruggere la situazione che rende vere le macchine – la «macchina antropologica», la «macchina mitologica» – significa, d’altronde, spingersi oltre i limiti della cultura borghese, non solo cercare di deformarne un poco le barriere confinarie (Jesi 2013, 106-107).
Bibliografia minima
D. Di Cesare, Tecnofascismo, Einaudi, Torino 2025.
R. Esposito, Il fascismo e noi. Un’interpretazione filosofica, Einaudi, Torino 2025.
F. Jesi, Cultura di destra, Nottetempo, Roma 2011.
F. Jesi, Il tempo della festa, Nottetempo, Roma 2013.
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Salvatore Spina è dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università degli Studi di Messina. È autore, tra le altre cose, di due monografie: Esistenza e vita. Uomo e animale nel pensiero di Martin Heidegger (Mimesis 2015) e Immunitas e persona. La filosofia di Roberto Esposito (ETS 2020).
Per DeriveApprodi ha recentemente pubblicato Furio Jesi. Mito. Rivolta. Festa. Macchina mitologica. Cultura di destra (2025).








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