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Contro il potere consolatorio del pauperismo

Recensione a L'odio dei poveri di Roberto Ciccarelli (Ponte alle Grazie, 2023)

 

                                                                                            


L'odio dei poveri di Roberto Ciccarelli
Käthe Kollwitz, Bread, 1924

Chi sono i poveri, il governo della povertà diffuso, la possibilità di liberazione dal ricatto occupazionale. Intorno a questi tre temi si sviluppa la recensione di Vincenzo di Mino a L’odio dei poveri di Roberto Ciccarelli (Ponte alle Grazie, 2023). Un libro importante, che schiude un orizzonte di possibilità: può l’odio «per» i poveri può, infatti, trasformarsi nell’odio «dei» poveri?


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The best way to scare a Tory is to read and get rich!

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Idles-Mother

 

Povero, come lavoro, è un concetto-mondo, che apre ad una realtà composta e molteplice, fatta di una vastissima gamma emotiva e di una panoplia di situazioni visibili e invisibili, dicibili e negate, rappresentabili ed esposte al pubblico ludibrio. Va da sè, infatti, che per riportare materialisticamente con i piedi a terra il concetto di povertà bisogna inscriverlo all’interno della dimensione materiale del quotidiano: alla dimensione degli scambi e della sopravvivenza, in primis, e alla necessaria politicità di un tale termine. Come concetto-mondo, infatti, esso è allo stesso tempo un concetto polisemico, ricco di sfumature che possono essere ricondotte ad una matrice di assoggettamento centrale nella costruzione e nella narrazione del sociale, ovvero il lavoro. Lavoro e Povertà, in questo contesto, diventano termini interscambiabili, perché a loro volta riconducibili alla matrice di significazione, classificazione e divisione primaria che è il rapporto di scambio capitalista. Parlare di poveri e povertà evitando scientemente di nominare il mondo del lavoro è un esercizio sterile e retorico, colmo di pietismo e buoni sentimenti, spuntato da qualunque tipo di efficacia politica, utile a dare ordine al sociale. La torrida estate che, almeno nominalmente, è da poco trascorsa, è stata caratterizzata da un susseguirsi di morti sul lavoro, nelle campagne e nei lavori edili delle città, nella logistica dei servizi di commercio a domicili. Morti che, politicamente e giornalisticamente vengono attribuite alle condizioni climatiche invivibili o all’imperizia dei datori di lavoro (invisibili, a quanto pare), e che invece non vengono ricondotte alla loro causa primaria: l’iniquità dello scambio del proprio tempo di vita per un salario di sussistenza, dei documenti per la sopravvivenza in un territorio ostile e straniero (nel caso dei migranti), dei requisiti per accedere alle forme di assistenza previdenziali e sussidiarie. Viene da sorridere pensando oggi a quelle forze politiche che, in pompa magna, proclamarono di avere sconfitto la povertà, inscrivendo invece la vita della forza-lavoro dentro le griglie di un più stretto controllo e di una maggiore differenziazione sociale!

L’imperativo della produttività, che attraversa diagonalmente l’intero spettro politico, individua nel povero il soggetto a cui imputare i propri stigmi ed i propri strali, da controllare e dividere dal resto della società: povero, dunque, è sinonimo di negatività, che deve essere riqualificato per essere nuovamente immesso, come valore, nelle sfere del mercato, e che il classismo paternalista deve catturare e rendere docile. L’ultimo lavoro di Roberto Ciccarelli, intitolato L’odio dei poveri (Ponte alle Grazie, 2023), individua proprio in questo odio una invariante costituente della macchina sociale neo-liberale, sia nelle sue sfaccettature neo-keynesiane che in quelle più squisitamente ed arbitrariamente escludenti di certo ordoliberalismo d’accatto. Il volume, infatti, è il nuovo capitolo di una inchiesta filosofico-politica, iniziata con Forza Lavoro (DeriveApprodi, 2018), proseguita con Capitale Disumano (ManifestoLibri, 2018) e Una vita liberata (DeriveApprodi, 2022), affiancata al lavoro quotidiano come giornalista che, dalle pagine de «il manifesto», decostruisce le retoriche economiche del discorso politico italiano. L’equilibrio tra analisi filosofica e inchiesta economico-politica, è dimostrata dalla profondità d’analisi dei fenomeni, legandoli ad una complessa direzione sistematica piuttosto che limitandosi a descrivere le situazioni così per come esse si presentano. Un’analisi volta, in termini diretti, ad indagare le modalità attraverso cui avviene la trasformazione unilaterale e forzosa della potenza della forza-lavoro nella merce forza-lavoro, quindi in un orizzonte in cui il lavoro è finalmente escluso dalla sfera sociale e politica ed è ricondotto sic et simpliciter al mero ambito della produzione di plusvalore. In questo modo, Ciccarelli rende pienamente visibile la natura autoritaria del progetto neo-liberale, anche nelle sue versioni più cool e appetibili dei Novanta, gli anni della diffusione delle teorie di Rifkin sulla fine del lavoro e di Florida sulla centralità economica del capitale sociale e del capitalismo della conoscenza. E che oggi, in una fase storica in cui la teoria ordoliberale – che in un suo recente e monumentale studio Adelino Zanini ha ricondotto alla connessione tra decisionismo normativo, irenismo sociale e governo della concorrenza imprenditoriale – si sposta sempre più verso un nazionalismo aggressivo, scaricando il peso delle tensioni geopolitiche ed economiche sulle fasce sociali più deboli e su quelle marginali. Di seguito si proporrà un percorso di lettura del libro attraverso tre specifiche chiavi di lettura: la prima riguarda lo statuto filosofico del concetto di povertà; la seconda la microfisica della povertà, ovvero le forme di governo della questione sociale; con la terza si legge nell’ambivalenza della povertà le possibilità di una soggettivazione antagonista di classe.

 

CHI SONO I POVERI: LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ SOGGETTIVA

 

La povertà è una figura ricorrente della storia politica e teorica occidentale, presentandosi come contraltare dell’ordine costituito e della morale imperante. Pauper, come scrive Ciccarelli, è al contempo chi non possiede niente e allo stesso tempo chi è minore, piccolo, confinato ai margini della società, che necessita di una specifica assistenza da parte delle istituzioni. La povertà è dunque vista come uno stato di mancanza e privazione (morale e materiale) e di conseguenza viene imputata a specifiche categorie di soggetti: in questo senso il povero è un soggetto docile e alla ricerca di una guida, morale ed economica, che possa farsi carico dei suoi bisogni emotivi e materiali. In questa prima fase è il discorso cristiano a farsi carico della povertà, non puramente come modalità per formare una propria base ecumenica, ma, più in generale, come creazione di una parte di un popolo alla ricerca della salvezza. Come ha dimostrato Agamben, anche la visione della povertà nella dottrina cristiana gode di una ambivalenza ontologica, che ne apre l’orizzonte di senso. «Povera» è la vita che non possiede niente, ma che può fare forza su questa mancanza materiale per esprimere la propria potenza ontologica comune: nelle parole del filosofo, la povertà francescana va a definire una vera e propria forma di vista regolata da specifiche norme, tanto plastiche quanto cogenti, in grado di mostrare la potenza divina nell’atto ascetico del sottrarsi dalle abitudini terrene. D’altro canto, il povero è colui che attira l’odio in quanto escluso dalla polis e dalla divisione sociale del lavoro, in quanto malato, incapace o vagabondo: i grandi studi di Geremek e di Foucault hanno analizzato in profondità, infatti, quei processi di esclusione e di espulsione di poveri, marginali e infermi dal consesso urbano tra Medioevo ed età moderna ed il loro impatto sulla costruzione delle istituzioni di contenimento. Nel momento in cui il principio di divisione funzionale diviene la principale forma di ordinamento e di distribuzione del potere, infatti, il lavoro diventa un elemento centrale della costruzione dell’ordine strutturale della società, fungendo da soglia dell’accesso stesso alle capacità soggettive e politiche (in poche parole, alla cittadinanza intesa come capacità formale di partecipazione alle decisioni pubbliche). Proprio utilizzando il lavoro come cartina di tornasole delle capacità soggettive che il povero viene stabilmente collocato nel lato cattivo della storia, diventando soggetto di imputazione dell’odio diffuso e oggetto delle specifiche pratiche di governo. Concetti come merito, efficienza e debito vengono forgiati nel cuore delle trasformazioni indotte dal combinato disposto della Riforma –  e della conseguenza nascita dell’etica protestante –  e della nascita dell’organizzazione sociale e produttiva capitalista, dunque della formazione sociale borghese mercantile. In una società votata alla produttività come manifestazione della predestinazione divina (di stampo luterana o calvinista), chi non vuole o non può lavorare è trasformato immediatamente in un mostro da sorvegliare e curare. La svolta governamentale della sovranità politica, seguendo le periodizzazioni storiche di stampo foucaultiano, viene a coincidere temporalmente con la nascita della questione sociale come prodotto della rivoluzione industriale: il popolo è l’oggetto dei dispositivi di governo (attraverso la scienza economica e la polizia), mentre il povero è colui che, privo di ogni mezzo di sussistenza, è costretto a vendere la propria nuda capacità nel nuovo mercato del lavoro. Ed è in questo specifico contesto che può emergere tutta l’ambivalenza marxiana del povero: egli è colui che, in quanto miseria assoluta, carne da vendere al mercato, è allo stesso tempo ricchezza assoluta, in quanto produttore della ricchezza che gli viene sottratta. Tra plebe parigina della Prima Repubblica, radicalismo giovanile hegeliano che trova spazio tra le pagine della Fenomenologia dello Spirito, rivolta lionese dei Canut del 1831 e movimento cartista coevo in Inghilterra, la povertà si trasforma da spazio di imputazione morale in negativo a terreno di una soggettivazione antagonista all’ordine economico vigente, che domanda un miglioramento delle proprie condizioni di vita e una maggiore visibilità all’interno della sfera politica: se organizzata, la dimensione collettiva della povertà può trasformarsi in soggetto sociale, in classe. Da questa congiuntura storica, povertà e classe, se non coincidenti, diventano concetti appartenenti allo stesso orizzonte semantico-concettuale e politico.

Lo scandalo del povero e della povertà, allora, sta proprio nel volersi scrollare addosso lo stigma di impotenza e soggezione, nell’atto di prendere parola collettivamente, nel rivendicare la propria libertà dalle condizioni imposte dai rapporti lavorativi: nel riconoscersi, dunque, come soggettività, molteplice e multiforme, ma generata dagli stessi processi sociali.

Uscendo dall’ambito della ricostruzione genealogica, e provando a stringere il focus sull’attualità, viene quasi spontaneo domandarsi chi e cosa sono i poveri oggi: soggettività alla ricerca di «skills» per arricchire il proprio curriculum, alla ricerca di una indipendenza negata dall’assenza di salario e vincolati al paternalismo para-statale o al welfare familiare, inscritti in quel doppio meccanismo di sorveglianza e di controllo per cui alla macchina statale si sovrappone quella della macchina familiare, intesa come fondamento dell’ordine sociale vigente (Donzelot, 1977).

 

DAL LAVORO AL LAVORO: IL GOVERNO DELLA POVERTA’ DIFFUSO

 

I capitoli centrali del libro sono anche il suo cuore pulsante, il luogo in cui Ciccarelli mette a nudo i meccanismi di governo della povertà che, de relato, sono i meccanismi di governo della forza-lavoro. Deleuzianamente, l’autore si addentra nelle spire dei dispositivi e delle agenzie che presiedono all’amministrazione della questione sociale, in cui i soggetti sono ridotti a elementi numerici e dati statistici. Il povero dell’ordoliberalismo è ridotto ad essere un dividuale, un elemento scomposto che viene inscritto in più ordini discorsivi interni alle tecnologie di governo, puro valore attuariale da rendere compatibile con i programmi di occupazione. Un gran tour nella giungla delle agenzie di governo della disoccupazione, del recupero della occupazione lavorativa, dell’amministrazione del rischio individuale dovute alle proprie capacità lavorativa, dell’aiuto alla compilazione del proprio curriculum è una esperienza comune per coloro i quali hanno sperimentato la flessibilità e l’intermittenza nella propria esperienza lavorativa e, in senso lato, esistenziale. La ricerca di una occupazione è, paradossalmente, diventata una occupazione a tempo: come i personaggi di una pièce beckettiana, è usuale per chi ricerca lavoro passare le proprie giornate alla ricerca di annunci, migliorando il proprio curriculum, recitando solipsisticamente su un soggetto che è quello della disponibilità, dell’ubiquità, di una vera e propria teatralizzazione del sé. Il costante senso di spaesamento dovuto a questa attività propedeutica è stato restituito da molteplici inchieste e infinite ricerche, ma è tra le pagine di Works di Vitaliano Trevisan che emerge in tua la sua potenza alienante e paradossalmente antisociale: lo sguardo (e la scrittura, ça va sans dire) cinico e disincantato dell’autore fornisce la cifra morale e materiale della ricerca di lavoro come una sorta di giro a vuoto continuo che mette alla prova le fragilità di ogni soggetto, condannandolo ad un appagamento temporaneo e allo stesso tempo frustrante, alienante perché completamente distante dalle intenzioni o dalle aspirazioni soggettive. Prima di arrivare però all’autoimprenditorialità della forza-lavoro, alla performance costante a cui è costretto il povero, bisogna fare un passo indietro ed entrare nei meccanismi della governance. Ciccarelli, infatti, spazzola a contropelo il gergo dell’efficienza, ovvero il principale codice comunicativo dell’ordoliberismo: concetti ormai di uso quotidiano come merito, occupabilità, flexsecurity, perfomance designano specifiche pratiche di gestione del mercato del lavoro e delle sue eccedenze, differenziando di volta in volta le forme di accesso a quest’ultimo. Tanto si è scritto sul neoliberalismo come Nuova Ragione del Mondo e sulla sua affermazione come forma di rivoluzione dall’alto agli eventi del lungo ’68 su scala globale, ma vale la pena di sottolineare un aspetto centrale (tra i tanti che altrove sono stati sviscerati): la pregiudiziale fondamentalmente antikeynesiana, intendendo come «keynesismo» quell’insieme di politiche aventi come obiettivo la continua negoziazione del conflitto tra Capitale-Stato e Lavoro, concretizzatesi nel riconoscimento costituzionale (tanto dal lato formale quanto da quello materiale) del lavoro come elemento costitutivo della cittadinanza politica. L’esperienza weimariana, l’invenzione di un diritto ed una giurisprudenza del lavoro sensibile alle sirene della socialdemocrazia (le figure di Sinzheimer e di Preuss, ad esempio), è ancora oggi da considerare un caposaldo del tentativo di costituzionalizzare in forme concrete e positive i rapporti di forza tra le classi, attraverso la fondamentale mediazione del Welfare State (AA.VV., 1982). L’attacco a questo modello di compromesso, che garantì le basi per l’accumulazione nel dopoguerra, fu condotto in primo luogo dal punto di vista dell’ideologia economica, condannando il peso che la spese del welfare rivestivano all’interno delle finanze statali; in secondo luogo rivoluzionando le stesse agenzie di governo del sociale, moltiplicandole e rafforzandone le finalità di sorverglianza e controllo degli «assistiti»; in terzo luogo criminalizzando le stesse figure soggettive che beneficiavano dei servizi welfaristici: il povero è il folk devil del discorso neo e ordoliberale, sessualizzato e razzializzato come nel caso della «Welfare Queen» reaganiana o dei meridionali parassiti alle latitudini italiane ed europee. Lo stato neoliberale, infatti, si affermò scaricando verso il basso il costo dei meccanismi di aggiustamento economici propedeutici all’avvento della fase contemporanea della globalizzazione mercantile, normalizzando le relazioni tra capitale e forza-lavoro attraverso il depotenziamento degli strumenti offerti dal sindacalismo, trasformando la povertà in motore della nuova accumulazione molecolare. Questo insieme (provvisorio) di scelte politiche può essere sintetizzato evidenziando lo slittamento dal Welfare al Workfare, dal lavoro come diritto al lavoro come dovere sociale. Cercando di mettere ulteriore ordine: se il lavoro come diritto, dentro il compromesso socialdemocratico, presupponeva la presenza del salario e della sua contrattazione come elemento politico e la garanzia dell’assicurazione dello stato sociale come elemento di compensazione di tutti quei fenomeni che possono essere ricondotti al salario indiretto (abitazioni, sanità, trasporti ad esempio), ad oggi il lavoro è la soglia per accedere non solo ad un salario –  che non copre né il tempo di lavoro né le necessità dell’esistenza – ma, più generalemente, alla stessa dimensione pubblica e sociale. Ciò che viene oggi messo al centro è la potenzialità occupazionale delle soggettività (non solo la capacità di realizzare la propria potenza forza-lavoro, ma la stessa capacità di adattamento all’ambiente sociale) indirizzate costantemente all’arricchimento del proprio capitale sociale attraverso la scomposizione delle proprie capacità e il loro adattamento alle differenti situazioni occupazionali a cui la stessa soggettività è indirizzata (Chicchi, Simone, 2022). Dentro la sbornia trentennale del prefisso «post», il cui uso, con vezzo progressista, lasciava presagire la liberazione della forza-lavoro dalla soggezione del rapporto capitalista e la possibilità di reinventare la forma-impresa dentro le mutate condizioni dell’economia (circolare, di prossimità), poco si è insistito invece sull’intensificazione invece delle precedenti forme di sfruttamento e di controllo che, dentro questa transizione totale, si sono moltiplicate in ogni ganglio del tessuto sociale. Si può e si deve, invece, parlare di tempo dell’«iper», ovvero della ri-modulazione degli strumenti di misurazione e gestione della forza-lavoro. Quindi: alla maniera di Alquati, di ipertaylorismo, ovvero di un controllo delle prestazioni lavorative tarate su scala individuale, su standard di gestione costantemente aggiornati, di una rimodulazione costante e continua delle mansioni lavorative che fa saltare la sottile linea rosa tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (differenza su cui si è basata per lungo tempo la strategia organizzativa del Movimento Operaio), e che trasforma ogni lavoratore in piccolo imprenditore di sé stesso (Alquati, 1994). L’industrializzazione di ogni sfera dell’esistenza, così, si realizza attraverso la parola d’ordine dell’occupabilità, la dinamica performativa che spinge ogni soggetto alla ricerca costante di una occupazione, arricchendo le proprie capacità spendibili al livello occupazionale, inserendosi in circuiti di formazione continua che possano arricchire skills e curriculum, di dati in grado di far presa sugli algoritmi di selezione della forza-lavoro e su quelli che stabiliscono la meritorietà dell’assistenza sociale omnes et singulatim. Cicarelli non smette di insistere, giustamente, sul valore rivestito dal concetto di management –  come pratica amministrativa votata alla gestione dei rischi e all’ottenimento di specifici risultati, senza badare ai mezzi utilizzati – che sulla scia di Becker tende a considerare ogni soggetto come un bene di consumo il cui valore va realizzato all’interno della sfera economica.

Ed è proprio ciò che caratterizza maggiormente lo statuto epistemico del management, ovvero la compatibilità dei costi all’interno di processi tesi alla realizzazione del profitto, a fungere da cartina di tornasole del passaggio dallo Stato assistenziale (Ewald, 1986) – in grado di esercitare un controllo disciplinare diffuso attraverso istituzioni «molari» come la famiglia –  al Workfare e alla Flexploitation, inglesismo che si riferisce allo sfruttamento di una forza-lavoro ricattabile, mobile e flessibile. Come si esercita questo potere pastorale? Facendo forza sullo spettro della disoccupazione come esercizio costante di ricatto, usando il paternalismo come elemento in grado di colpevolizzare sempre più il povero che rifiuta l’occupabilità, producendo sistematiche campagne mediatiche – di dubbio stampo moralista ma di grande impatto sull’opinione pubblica –  sulla corruzione dei valori tradizionali operata dal consumo effettuata da quei segmenti sociali privi di occupazione –  i poveri, di nuovo, come nemici del buon senso, della moderazione e nemici del progresso sociale. Inoltre, il legame sempre più simbiotico tra impresa, management statale e sviluppo tecnologico ha trasformato il corpo sociale del povero (ed estensivamente della forza-lavoro) in una superficie di sperimentazione di tecnologie di controllo modulari sempre più perfettibili. La sorveglianza degli habitus individuali rafforza la rete di sorveglianza statale\manageriale e arricchisce al contempo la stessa piattaforma di sorveglianza, rendendo trasparente la vita di ciascuno e inscrivendola nei differenti registri statistici che ne misurano capacità e meriti. La combinazione di analisi cibernetica e paternalismo anti-assistenziale, che definisce sostanzialmente la razionalità del Workfare, contribuisce, ancor più delle contraddizioni economiche, a frammentare la composizione collettiva della forza-lavoro e a ridurre la povertà a questione di scelta, utilizzando come parametro di riferimento le condizioni di occupabilità presenti e future, spesso ottenute omettendo il fatto che le occupazioni stesse sono intermittente e temporalmente determinate.

A questa altezza, il dovere di essere occupabili è a tutti gli effetti la soglia che da vita al processo di degradazione sociale dello stesso soggetto. Il pauperismo, ritornello delle anime belle che vedono nella povertà una semplice distorsione dei meccanismi della democrazia di mercati, e l’odio dei poveri, motore del risentimento sociale nei confronti di chi si sottrae volontariamente al ricatto della precarietà, fanno il paio e designano la temperatura emotiva delle formazioni sociali liberali che, ogni giorno sempre di più, si avvicinano passo dopo passo alla guerra.

 

HOPEFULMONSTERS: I MOSTRI ALL’ATTACCO DEL RICATTO OCCUPAZIONALE

 

Ciccarelli offre una esaustiva panoramica dei meccanismi di sorveglianza ed esclusione e, allo stesso tempo, riesce a dare visibilità alla materialità della vita dei poveri, alle lotte intorno al miglioramento della qualità dell’esistenza, alla liberazione della necessita di vivere per essere perennemente occupabili. Come si accennava in precedenza (e come lo stesso autore fa nelle pagine iniziali del libro), la dimensione etica della povertà, apre ad un sentire collettivo, ad una potenza componibile e assemblabile come movimento antagonista, anche attraverso il maturare di sentimenti di opposizione e rifiuto. L’odio «per» i poveri può, infatti, trasformarsi nell’odio «dei» poveri per tutto ciò che li mantiene incatenati al circolo vizioso bisogno-occupabilità-sopravvivenza: la miseria assoluta, dentro le contraddizioni, si trasforma in potenza assoluta, ovvero in forza collettiva.

Il pauperismo ha sempre rivestito una funzione consolatoria, in grado di giustificare la presenza dei poveri nella società e di assolvere allo stesso tempo il povero dalla propria condizione, rimettendo la propria esistenza nelle mani di Dio (nelle versioni religiose) o nelle mani robuste dello Stato (nelle versioni più sinistre). In questo senso – dando per assunto che in questo scritto la figura del povero e le differenti figure della forza-lavoro contemporanea tendono a coincidere –  le differenti narrazioni mainstream sulla «fuga dei cervelli» sono state del tutto interne alla dialettica tra colpa-vergogna e vittimizzazione, identificando tout court le caratteristiche della composizione sociale migrante (alto tasso di istruzione e specializzazione, tendenza alla mobilità, attitudini cosmopolitiche) con le singole aspirazioni individuali e, nello specifico frangente politico, con le scelte dei governi di tendenze liberal-conservatrici. Grattando sotto l’inglesismo à la page, fuoriesce invece la più dura e realistica nozione di working poor, ovvero di una composizione sociale obbligata a dover svendere le proprie capacità per un salario di sopravvivenza, collocata nei gradini più bassi del mercato del lavoro globale, il cui capitale culturale veniva sistematicamente ridotto a lavoro sans phrase, dequalificato e conseguentemente pagato poco e male (Prunetti, 2018). Con grande lungimiranza, in un recente intervento, Sergio Bologna ha sottolineato come il problema dei working poor sia costituito dalle forme di lavoro iperprecario e sottopagate, davanti ad una costante ricerca di skills sempre più elevate per occupazioni sempre più generiche[1], prodotto da un mercato coccolato da destra e soprattutto da sinistra.

Organizzare politiche di ri-composizione significa oggi affrontare oggi anche l’orizzonte dell’exit, di quel processo che Francesca Coin ha chiamato delle «grandi dimissioni», senza però concedere nulla alla retorica dell’autoimprenditorialità: i reseaux sociali sono pieni di contributi di soggetti che invitano a reinventarsi fuori dal posto fisso o dai ritmi frenetici delle metropoli-piattaforme iperfordiste, ma soggettivandosi attraverso un’etica imprenditoriale. Come decostruire questa nuova estetica del sé, ridando spazio e voce ai working poor?

L’odio non è necessariamente una passione reattiva, o una semplice inversione delle passioni attive e positive che tende a sfiorare l’invidia sociale (in certe letture ottimisticamente liberali), ma può essere invece il polo emotivo con cui costruire assemblaggi politici in grado di produrre conflitto. Prendendo in prestito le parole di Ş. Kurt: l’odio può essere una passione strategica, che nasce attraverso le storie singolari, manifestandosi nel tempo ed esprimendosi in forme intensive non solo come forma di difesa e reazione ma come critica costante delle strutture e dei confini del quotidiano: una passione, dunque, che indica la premessa di un presente e un futuro degni di essere vissuti (Kurt, 2024, p. 104). L’odio dei poveri contro il ciclo reazionario della guerra e dell’austerità può esprimersi attraverso un programma organizzativo semplice a dirsi, ma che deve trovare spazio dentro la composizione di classe: un programma articolato a partire dalla riduzione del tempo di lavoro sociale, alla stabilizzazione del salario minimo, alla garanzia erga omnes del diritto alla salute e alla cura, alla rivendicazione di un reddito sganciato dal ricatto occupazione. Ciccarelli giustamente insiste sulla dizione «reddito di cittadinanza» differenziandola dalla retorica della politica sperimentata in forma tragicomica nell’ultimo quinquennio in Italia e interrotta in maniera ancora più tragica dall’attuale governo, costringendo e confinando sempre più soggetti dentro il perimetro governamentale della povertà.

Il reddito universale, differentemente dalle diverse sperimentazioni in vigore nei paesi europei, rompe il circolo vizioso della condizionalità del welfare, mettendo spalle al muro le retoriche paternaliste e sbeffeggiando le corifee imprenditoriali che lamentano sempre l’assenza di manodopera. Bisogna, in sostanza, farla finita una volta e per tutte con il gergo dell’efficienza e dell’occupabilità, riaffermando la pienezza di una esistenza degna di essere vissuta, attingendo a piene mani dalla memoria dei conflitti proletari su scala globale. Organizzare, così, significa rattoppare e cucire, ma anche rilanciare in avanti i processi di riappropriazione della ricchezza sociale, disertando le richieste di sacrifici e le bislacche promesse di occupazione sbandierate dalle agenzie ministeriali e governative (non ultime quelle del ritorno dei giovani all’agricoltura, degna del gergo dell’autenticità heideggeriano di adorniana memoria!).

In conclusione, questo libro, oggi ancora di più necessario, di Roberto Ciccarelli ha disvelato una volta di più la doppiezza dell’odio dei poveri: di quello socialmente ed istituzionalmente strutturato; di quello che nasce nelle pieghe del piano sociale che, con ottimismo marxiano, l’autore lega alla fenomenologia attuale delle lotte di classe che legano e attraversano la razza, il genere e la stessa classe. Ma, a questo punto, bisogna fare un passo in più ed evocare davvero i mostri, quelli che possono rendere amari i sogni dei dominanti. Lucio Castellano, in un classico fondamentale del 1981, parlava degli hopefulmonsters, di quei paradossi biologici e genetici in grado di far presagire le potenzialità dell’evoluzione delle specie, utilizzando questa figura come metafora della forza-lavoro intellettuale, che riconosceva come miseria e ricchezza assoluta del nuovo paradigma di produzione. I mostri che popolavano gli incubi dei padroni e che, nel processo di perdita di centralità della forma-fabbrica, si trasformarono negli spettri della lotta di classe dentro la fabbrica sociale (Castellano, 1997). Oggi quegli spettri hanno la forma dei poveri, dei working poor, dei «Neet», delle lavoratrici e lavoratori precari della cura, della formazione, dell’istruzione, della logistica, delle mani che programmano gli algoritmi: ciò che è necessario è il processo con cui dare forma e figura a questo mostruoso desiderio di libertà opponendolo ai ricatti mercantili e occupazionali.

 


Note

[1] S.Bologna, Hanno ragione i Neet, il problema è il il rifiuto del lavoro iper-precario in «il manifesto», 30 maggio 2024, p. 14


Bibliografia

  •  AAVV: Laboratorio Weimar. Roma, Edizioni Lavoro, 1982

  • R.Alquati: Camminando per realizzare un sogno comune. Torino, Velleità Alternative, 1994

  • L.Castellano: La politica della moltitudine. Roma, Manifestolibri, 1997

  • R.Ciccarelli: L’odio per i poveri. Firenze, Ponte alle Grazie, 2023

  • F.Chicchi, A.Simone: Il soggetto imprevisto. Meltemi, Milano, 2022

  • J.Donzelot: La police des familles. Parigi, Minuit, 1977

  • F.Ewald: L’Etat Providence. Parigi, Grasset, 1986

  • Ş.Kurt: Odio. Roma, Minimumfax, 2024

  • A.Prunetti: 108 metri. Roma-Bari, Laterza, 2018

  • V.Trevisan, Works. Torino, Einaudi, 2016


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Vincenzo Di Mino (1987), laureato in Scienze della Politica, è ricercatore indipendente in teoria politica e sociale.

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