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Contro il concetto di transizione: per un’ecologia liberata!


Elaborazione grafica da un’opera di Andrei Chehzin


Mentre in Italia si discute di transizione ecologica come fosse una formula magica in grado di risolvere tutti i problemi, altrove si mette in discussione proprio l’idea di transizione, individuando un problema nascosto che ha a che fare che fare con il tempo, vero protagonista di ogni pensiero sinceramente ecologico.


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Il 26 febbraio 2021 nasce ufficialmente il Ministero della transizione ecologica (Mite), che sostituisce definitivamente il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare.

Il nuovo ministro Cingolani, nell’esposizione delle linee programmatiche [1], apre il proprio discorso con una disamina del termine «transizione», a suo dire un tema problematico, perché non viene univocamente definita dagli Stati, ma si costituisce a partire dalle attuali disuguaglianze planetarie. Se gli obiettivi di sostenibilità ambientale sono chiari a livello globale, continua, meno chiara è la strada da imboccare, arduo è quindi il compito di trovare una giusta via ad un percorso non definito. Ancora più difficile poi, è percorrere questo cammino nel contesto attuale della pandemia: come conciliare istanze ambientali e sociali? Come ricomporre in un’unica soluzione politica queste diverse necessità?

La transizione diventa così un dispositivo retorico necessario ad amministrare una ristrutturazione che non metta in crisi i pilastri dell’ordine sistemico. Viene definita come periodo da gestire per raggiungere i grandi target internazionali, come momento di costruzione di una interconnessione tra governo dell’energia, sviluppo sostenibile e tutela ambientale.

Cingolani sostiene molto altro, seguendo le linee di un discorso vecchio nel momento stesso in cui viene pronunciato. Le parole d’ordine restano sempre le solite: governance, prevenzione, velocizzazione, competenze tecniche, Italia smart, digitalizzare.


A ben pensarci, anche il concetto di transizione non è poi così nuovo. Anzi, da decenni risulta essere al centro delle politiche così dette ambientali, dal protocollo di Kyoto alla COP21, che nel loro sedicente tentativo di limitare le emissioni di gas serra, mettono più spesso l’accento sulle tempistiche necessarie a questo raggiungimento, sul numero di nazioni firmatarie essenziali, piuttosto che sulla effettiva riduzione di emissioni e sul loro numero.

Tralasciando le ovvie, seppur indispensabili, critiche sul fatto che si tratti di stabilire quanto e in quale misura paesi e industriali possano inquinare il pianeta, più che di vere politiche a salvaguardia dell’ambiente, bisognerebbe forse far luce su questo aspetto della «transizione». Sul fatto che essa altro non è se non un escamotage per spingere i limiti del possibile sempre un po’ più in là, per continuare a parlare di ambiente senza fare effettivamente nulla per esso, per prendere tempo.

In questo tempo, che chiameremo tempo dell’assuefazione, troviamo e troveremo sempre più discorsi come quello di Cingolani, discorsi che hanno una doppia valenza: quella di dipingere la transizione come qualcosa di nebuloso, di indefinito, qualcosa di cui ci occuperemo, mentre si ristruttura il vocabolario di un capitalismo green, sostenibile, ecologico e rinnovabile. In questo senso quindi, il Ministero per la transizione ecologica è l’istituzionalizzazione del tempo e della politica dell’assuefazione. La transizione riorganizza le parole, definisce le priorità e, in fin dei conti, trattiene e inibisce le energie che potrebbero mettere in discussione il rapporto tra le varie forme di vita e gli ambienti. Le energie che potrebbero stravolgere la separazione tra vita mercificata e ambiente-contenitore, così innestata nell’immaginario sociale.

Sempre più spesso dimentichiamo che esiste un’altra opzione, quella per cui non c’è ecologia dove c’è il Capitale. Non si tratta di transitare altrove, ma di mettere in atto alcune rotture politiche, esistenziali ed epistemiche.

Dicesi transizione «una fase intermedia del processo, nella quale si altera la condizione, per lo più di approssimativo equilibrio, che si aveva nella fase iniziale, e che dà luogo poi a una nuova condizione di equilibrio» [2]. Ma non vediamo nessun equilibrio, né pensiamo che la biosfera lo abbia mai avuto, ci chiediamo quindi a cosa possa servire il linguaggio equilibrista dei nostri governanti. La risposta è ancora una volta nella separazione dai nostri ambienti: se il miraggio di un nuovo equilibrio viene alimentato, è sempre per essere preso in carico da una gerarchia, da una logistica energetica centralizzata, da forme del comando scientificamente legittimate. Ci si chiede di credere in questo futuro stabilizzato anche mentre la catastrofe si approfondisce, in modo da non prendere mai direttamente in mano il nostro disequilibrio contingente, così da non mettere mai realmente in discussione le forme dell’accumulazione che sostengono l’ecologia-dei-governanti.


Come viene esplicitato nel libro che ci apprestiamo a introdurre «c’è da chiedersi se l’idea stessa di transizione non abbia per funzione proprio di differire indefinitamente ogni vera trasformazione ecologica». Nello stesso testo, si riflette a lungo su uno slittamento lessicale difficile da rendere in italiano: quello tra un «ambiente», pensato sempre come spazio di movimento degli esseri viventi, ma esterno a essi, e un «milieu», letteralmente il mezzo, ciò che si trova tra le cose, inteso come una dimensione ambientale che si co-stituisce con chi l’abita e la attraversa. «Se preferiamo tornare alla nozione di milieu per definire la nostra ecologia, è perché l'ambiente e la natura definiscono solo oggetti da amministrare

La nuova commissione interministeriale presieduta da Mario Draghi e da Cingolani stesso promette di approvare entro tre mesi un piano volto a individuare le azioni, le misure, le fonti e i finanziamenti attraverso cui contrastare il dissesto idrogeologico e infrastrutturale, il consumo di suolo e le emissioni di gas serra. Promuoverà inoltre un’economia circolare, alta qualità dell’aria, una nuova e duratura mobilità sostenibile, con buona pace di chi si interroga su questi temi da decenni.

Possiamo però essere abbastanza sicuri che, ancora una volta, l’accento verrà posto sui tempi lunghi e infiniti di questo letterale trapasso a miglior vita del Capitale. Come fare quindi ecologia senza cadere nella trappola dell’assuefazione?

Seppur attraversata da un ricchissimo dibattito sull’ecologia, e in particolar modo sull’ecologia politica, l’Italia manca di una riflessione più approfondita sul concetto di transizione come politica dell’assuefazione e della ristrutturazione capitalistica. Per il collettivo d’oltralpe Désobéissance Ecolo Paris, tra gli organizzatori degli scioperi per il clima nella capitale francese, il tema della transizione assume una rilevanza fondamentale non solo in virtù della sua ambiguità temporale, ma anche perché, se questionata, essa ci permette di risignificare la relazione con l’ambiente, ristabilire i termini ambigui del rapporto con la scienza, combattere il diffondersi di una morale ecologica, green e progressista. L’ecologia senza transizione, inoltre, ridistribuisce le colpe e le responsabilità del problema ecologico, inserendosi quindi, con sguardo attento e a volte critico, dentro una lunga tradizione di lotte.


Dalle riflessioni maturate durante gli scioperi nasce allora il testo Ecologie sans transition, di cui proponiamo una traduzione dell’introduzione, come invito alla lettura e come stimolo alla riflessione.

Si è già perso troppo tempo a chiedere ai piromani di spegnere il fuoco.


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Traduzione dell’introduzione di Écologie sans transition del collettivo Désobeissance Écolo Paris.


C'è un'ecologia che è un'arte di abitare e difendere gli ambienti di vita, e un'ecologia che si presenta come un governo della natura e delle società. Non sono compatibili. Questo libro mira a riaprire il campo di battaglia che è la definizione della parola «ecologia». Parte dalla constatazione che questa definizione è troppo spesso lasciata alle forze sociali dominanti, quelle colpevoli della devastazione che ci circonda. È ora il momento di rompere la sacra unità che cercano di costruire intorno alla questione ecologica. In un momento in cui le foreste bruciano su tutti gli schermi e un virus costringe i governi a fermare l'economia, è il momento di scegliere da che parte stare e prendere atto delle linee di faglia.


Noi, che siamo della generazione formata all'ecologia attraverso i rapporti dell'Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), attraverso gli esperti dei media e attraverso la piccola disciplina quotidiana, vogliamo far rivivere la lunga storia della resistenza ecologica, dalle lotte per le terre comuni alle Zad (zone da difendere). Non vogliamo più un'ecologia senza nemici e che stringe la mano a tutti. Non vogliamo più partecipare a questa grande commedia di ecogesti insignificanti, piccoli passi e grandi marce, mentre il mondo continua a crollare intorno a noi.


La nostra ecologia non è «contabilista» e non stabilisce le priorità solo sulla base di indicatori scientifici

La nostra ecologia, quindi, difende dei milieu viventi, combatte la devastazione, e lo fa senza transizione. Quando alla fine del XIX secolo il concetto di ecologia è nato e ha cominciato a designare un'economia della natura, la parola era in concorrenza con il concetto di «mesologia», che letteralmente significa: scienza dei milieu. Se preferiamo tornare alla nozione di milieu per definire la nostra ecologia, è perché l'ambiente e la natura definiscono solo oggetti da amministrare. L'ambiente è qualcosa di lontano, estraneo e distinto dai soggetti che lo abitano; la natura è sempre considerata inumana, vuota, disabitata. La natura e l'ambiente: al massimo li gestiamo, ma non ci viviamo mai.


Il milieu, da parte sua, non separa ciò che è legato: è l'intreccio degli esseri che lo abitano e lo elaborano. Ciò che definisce un milieu come vivente è la qualità della vita, i legami, le dipendenze e anche i conflitti che hanno luogo in esso. Questa qualità di vita non si misura in termini di impronta di carbonio, ma nell'esperienza di vivere in un milieu, che sia una casa vivace, una zona umida, un quartiere, una foresta o un paese. Per questo la nostra ecologia non è «contabilista» e non stabilisce le sue priorità basandosi solo su indicatori scientifici. Non ha senso vivere su un pianeta decarbonizzato e ricco di biodiversità per ritrovarci privati delle nostre libertà, controllati e razionati. Un'ecologia dei milieu viventi combatte tutto ciò che rende il mondo inabitabile e inospitale, e quindi prima di tutto la morale ecologica con cui ci si vuole rendere innocui.


Trasformare o smantellare l'infrastruttura della devastazione

Se parliamo di lotte offensive, è perché è in atto una devastazione ecologica. Una crisi è temporanea. Un crollo, una catastrofe, un disastro, sono eventi impersonali, sembrano caderci addosso senza alcuna causa umana identificabile, sono fuori dalla nostra portata. Al contrario, una devastazione è un processo, attivo, aggressivo, guidato da un soggetto identificabile. È per sottolineare questo legame tra un'attività devastante, quella dell'economia capitalista, e i suoi effetti distruttivi sugli ambienti di vita, che preferiamo questo termine a tutti gli altri.


Contrariamente agli ecologisti che si aspettano una catastrofe nel futuro, noi collochiamo l’essenziale della devastazione nel passato. La sua estensione sul globo si misura con l'artificializzazione di aree sempre più grandi: autostrade, porti e aeroporti giganti, zone industriali e commerciali, dighe, centrali nucleari, reti energetiche, monocolture, espansione urbana. Un milieu singolarmente ostile alla vita ma estremamente favorevole allo sviluppo.


Mentre finiamo questo libro, questo milieu, quello dell'economia globalizzata, è il vettore della diffusione del Covid-19. Si sa che le pandemie stanno aumentando negli ultimi anni a causa della distruzione degli habitat naturali, dell'omogeneità genetica degli animali da allevamento e della mondializzazione dell'economia. Ecco perché la vulnerabilità delle nostre società alle pandemie oggi non è dovuta tanto al virus, quanto a delle cause umane. Negli ultimi decenni, i governi hanno perseguito politiche di austerità, intensificato l'estrazione di «risorse naturali», migliorato le tecnologie di sorveglianza e le forze di polizia. Tutto questo per mantenere a galla un'economia che devasta gli ambienti di vita. La linea di faglia è chiara. Questo periodo di paura e di isolamento mostra l’urgenza di studiare i modi per trasformare o smantellare le infrastrutture della devastazione, per poter sviluppare nuove condizioni di vita.


Un'ecologia senza transizione è un'ecologia di rottura

Adesso, cioè: senza transizione. Con queste parole non intendiamo immediatamente, come se fosse un capriccio. Siamo ben consapevoli che la strada da percorrere sarà lunga, difficile e insidiosa. Ma è urgente liberarci di certe idee paralizzanti, prima fra tutte quella di una transizione ecologica che si aspetterebbe dai decisori economici e politici. I governanti sono consapevoli dei pericoli ecologici da circa 50 anni, ma non hanno fatto nulla. Questo dovrebbe essere sufficiente per dimostrare che il problema non è la mancanza di «decisioni coraggiose» o di «buona volontà» politica. I governi e le grandi imprese sono bloccati quanto noi, perché sono parte del problema.


Ma noi non siamo bloccati come loro: siamo bloccati nel loro mondo, nell'economia e nei sistemi sociali che hanno costruito intorno ai combustibili fossili, all'automobile e ora al mondo digitale, un mondo da cui ora siamo dipendenti. Abbiamo comunque un margine di manovra, nella misura in cui riusciamo collettivamente a ridurre la nostra dipendenza da ciò che devasta il pianeta. Ecco perché un'ecologia senza transizione è un'ecologia di rottura: si tratta di rompere con le nostre dipendenze più distruttive, ma di rompere attraverso atti collettivi di solidarietà e di rivolta. Rompere per bloccare il più rapidamente possibile il progresso della devastazione, e rompere per avere le mani libere e poter configurare i nostri usi del mondo.


Costruire un'ecologia sensibile, popolare e offensiva

Le mani che hanno scritto questo libro sono lisce o ruvide, sottili o spesse, divergono per carnagione, dimensioni e sono segnate da esperienze diverse. Per questo il nostro testo non presenta una perfetta unità di stile e di tono. Rivendichiamo questa diversità collettivamente. Che questa sia l'occasione per dimostrare che la moltiplicazione delle prospettive non impedisce lo sviluppo di una direzione comune. Désobbeissance Ecolo Paris è un collettivo che riunisce persone provenienti da un'ampia gamma di background, da un ampio spettro di sensibilità ecologiche. Si è formato nell'inverno del 2018, dopo le dimissioni del ministro dell'Ecologia Nicolas Hulot, ed è stato tra gli iniziatori degli scioperi studenteschi per il clima a Parigi. Nel corso di marce, letture, scioperi, occupazioni, discussioni pubbliche e private, abbiamo messo insieme queste poche riflessioni che condividiamo per contribuire al dibattito strategico.


In questo libro, cominciamo cercando di liberarci dalla morale ecologica che pesa sulle nostre spalle, che maschera le relazioni di potere, le asimmetrie sociali e la violenza di questo mondo. È sotto forma di questa morale che l'ecologia ci appare ogni giorno, ogni volta che ci viene chiesto di fare piccoli gesti o che il governo gongola per dei piccoli passi, ogni volta che individualizziamo le colpe e celebriamo gli eroi della rinuncia e della scienza. Per costruire un'ecologia sensibile, popolare e offensiva, che possa non solo convincere ma anche spronare all’azione, dobbiamo liberarci di questa moralità, e sviluppare una strategia politica ampia. Per questo il nostro secondo passo è identificare le forze nemiche che strumentalizzano l'ecologia, e le possibili alleanze contro le differenti forme di deva

stazione: capitalista, coloniale e patriarcale. Infine, esponiamo alcune proposte e esplorazioni. Tracciamo le implicazioni strategiche della nostra proposta, e suggeriamo piste reali e sognate per ravvivare il desiderio di vivere nel presente con un orizzonte comune. Non abbiamo aspettative se non su noi stessi, quei «noi» che sapranno costituirsi in iniziative e lotte ecologiche.


Tratto da: Désobbéissance Écolo Paris, Écologie sans transition, Éditions Divergences, 2020


Note

1 Audizione del Ministro Cingolani sulle linee programmatiche del ministero della transizione ecologica. Disponibile all’indirizzo: Audizione del Ministro Cingolani sulle linee programmatiche del Ministero della Transizione Ecologica | Ministero della Transizione Ecologica (minambiente.it).

2 Definizione di transizione di vocabolario online Treccani. Disponibile a questo indirizzo: transizióne in Vocabolario - Treccani.


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