Pubblichiamo un estratto da Gli autonomi. L’Autonomia operaia meridionale. Parte prima. vol. X, a cura di Antonio Bove e Francesco Festa da poco edito da Derive Approdi. Ricordiamo che «Machina» ha promosso un corso on line ancora in svolgimento sul tema: Gli autonomi. Le storie, le lotte, le teorie.
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Il film I contrabbandieri di Santa Lucia[1], interpretato da uno straripante Mario Merola è un B-movie di culto e uno dei più noti fra quelli dedicati al contrabbando di sigarette. Nello stile a metà tra la classica sceneggiata e il «poliziottesco» in voga in quegli anni, la pellicola tratta il tema del conflitto fra la guapparia storica della città e le nuove mafie. Pur nei suoi tratti oleografici il film esce in un periodo di trasformazione profonda della malavita organizzata napoletana, di pari passo con la grande ristrutturazione del capitalismo internazionale del quale la vicenda del contrabbando è una chiave di lettura molto interessante. Il contrabbando è l’attività, fra quelle che hanno storicamente impegnato il proletariato napoletano, che più di tutte ha finito per costituire un elemento iconografico. Vera e propria «industria» sommersa, ha costituito un elemento centrale dell’economia della città, talmente radicato da divenire anche uno stigma, quasi un paradigma del carattere dei napoletani che, pur di non lavorare in maniera «regolare» si sarebbero inventati questa frode alle casse dello Stato. Nella ricostruzione di parte borghese, inoltre, si sovrappone quasi sempre questa attività a quella della camorra, operando una forzatura che a un’attenta rilettura storica mostra chiaramente il suo carattere parziale. Il ruolo della camorra, infatti, va letto dentro il progressivo trasformarsi dell’economia generale che ovviamente determina anche un cambio di passo nella struttura e nei metodi della malavita ma non riassume l’intera vicenda che è molto più complessa di quella che si pretende di rappresentare attraverso la retorica della legalità, paravento dietro cui si nasconde la materialità di questo fenomeno, la sua funzione nell’economia del proletariato urbano e anche i processi di politicizzazione che al suo interno sono avvenuti. Per comprendere a fondo la storia del contrabbando e il suo ruolo all’interno dell’economia e della vita sociale, politica e culturale di Napoli occorre guardare all’industrializzazione «monca» rispetto alle promesse di un certo meridionalismo che per decenni ha inseguito il mito dello sviluppo ma non ha mai trasformato Napoli in una vera città industriale[2], innescando trasformazioni della struttura urbana e di quella sociale senza mai toccare le contraddizioni sociali e anzi, sottolineandone i caratteri più controversi. È questa la chiave di lettura attraverso cui leggere la trasformazione della camorra napoletana, da fenomeno malavitoso locale a elemento di primo piano dell’economia, al centro di relazioni internazionali e legami politici e imprenditoriali, proprio a partire dall’inizio degli anni Settanta, in concomitanza con il declino delle politiche di sviluppo del sud e dello stanziamento di fondi pubblici. All’interno di questo processo che solo formalmente, o nelle pie intenzioni dei meridionalisti più onesti, poteva costituire un elemento di riscatto per la città, una grande parte della popolazione cittadina, da quei processi espulsa o da essi mai interessata, ha costruito una propria struttura economica di cui il contrabbando è stato l’elemento sicuramente più importante, arrivando a fatturare migliaia di miliardi di lire. I libri contabili del ras Michele Zaza, sequestrati in un’operazione di polizia, svelano l’entità degli affari ammontanti nel ’77 a circa 5000 tonnellate annue, per un fatturato di circa 150 miliardi di lire, una struttura di tipo industriale che arrivava a contare fino a 50.000 «impiegati»[3]. Sono, questi, i numeri di un’impresa al culmine del suo periodo d’oro, fiorito tra il ’73 e il ’74, quando l’attività perde definitivamente il carattere originario, crescendo fino a diventare «la Fiat di Napoli» e arrivando a superare il volume di vendite del Monopolio di Stato.
Iniziato nel Dopoguerra, con la presenza delle truppe americane in città, in quartieri della zona orientale con una forte presenza operaia come S. Giovanni a Teduccio e Barra, il contrabbando non era in origine un’attività di esclusivo appannaggio della criminalità organizzata, come spesso viene raccontato e l’identificazione tout court con quel mondo è una narrazione delle classi dominanti[4]. Negli anni Sessanta Napoli assunse un ruolo centrale in questa attività, grazie alla sua posizione nel Mediterraneo, resa cruciale dalla chiusura del porto franco di Tangeri e lo spostamento dei depositi di sigarette sulle coste della Jugoslavia e dell’Albania o in territori «neutrali» come la Grecia e la Turchia, dove il commercio dipendeva da contrattazioni delegate a intermediari in contatto con le multinazionali. La presenza di capimafia siciliani in domicilio coatto a Napoli all’inizio degli anni Settanta produrrà una metamorfosi della vecchia malavita locale, con la quale alcuni capi camorra già impegnati nel settore verranno affiliati a Cosa Nostra, avviando un processo di evoluzione della «vecchia camorra». È proprio grazie a questo passaggio che il contrabbando passa a un modello imprenditoriale mafioso, incredibilmente più redditizio e feroce di cui negli anni Settanta le organizzazioni criminali locali assumono il controllo totale, trasformandolo in un’industria sulla cui struttura si svilupperà il business del narcotraffico. In questa trasformazione è leggibile anche la metamorfosi della figura del contrabbandiere che da «lavoratore autonomo» diventa dipendente dei gruppi criminali che investono nell’acquisto della merce all’ingrosso, distribuendola poi a strutture cooperative costituite da gruppi di proprietari associati dei motoscafi, scafisti «professionisti», celebrati da canzoni e pellicole cinematografiche per gli epici inseguimenti con la Guardia di Finanza attraverso il Golfo, capi paranza che mediante un walkie talkie dirigono le operazioni di sbarco da terra dove marinai addetti allo scarico della merce provvedono al trasporto in luoghi sicuri e successivamente alla distribuzione a una rete di commercianti al dettaglio, dei quali è un’icona Sofia Loren nei panni di Adelina in Ieri, oggi e domani[5]. Il boom del contrabbando si verifica fra il 1970 e il 1973, quando un esercito di manodopera trova in questa attività la propria fonte di sostentamento e proprio le azioni di contrasto delle istituzioni, in realtà, in assenza di politiche economiche e sociali in grado di intervenire sulla difficile situazione sociale napoletana, forniscono un notevole impulso allo sviluppo di forme nuove di organizzazione del fenomeno operate dalla camorra. A tale proposito è utile considerare quello che accade con la Legge 359 del 14 agosto ’74, quando si estende la territorialità da sei a dodici miglia dalla costa. Prima di questa legge le navi che trasportavano le sigarette potevano arrivare, nelle acque internazionali, a una distanza che permetteva anche a gruppi di proletari autorganizzati di raggiungerle con piccole imbarcazioni. Con la Legge 359 cambia tutto, sono ben altri gli scafi necessari a raggiungere i carichi al largo e solo i mafiosi possono investire tanto, così quel commercio diventa un affare monopolizzato dai clan marsigliesi. La vera svolta, la ristrutturazione capitalista del contrabbando è questa. L’attività si incrementa, negli anni successivi, in seguito all’allentamento della pressione poliziesca, sostenuta dalla Legge 724 del 1975 che depenalizza l’attività, una risposta dello Stato alle lotte sociali che puntava a consentire uno sfogo alla rabbia popolare, in mancanza di investimenti nel welfare. Anche Valenzi, sindaco del Pci, si espresse pubblicamente per un allentamento della pressione delle forze dell’ordine. Dopo il 1975, in concomitanza con la crescita del potere delle organizzazioni criminali si scatena una guerra fra i clan marsigliesi e la mafia siciliana per il controllo di questo ricco settore commerciale che va incontro a una ristrutturazione dentro la quale si inserisce il fiorente mercato degli stupefacenti che comincia a prendere spazio utilizzando proprio i canali distributivi della rete del contrabbando. Dal 1979 la pressione della Polizia ricomincia a diventare alta e solo le organizzazioni camorristiche, che dispongono di capitali e mezzi possono affrontare quella guerra con lo Stato che i piccoli contrabbandieri non possono sostenere[6]. In quel periodo la città viene investita dai primi scontri della guerra fra la camorra urbana e quella legata a Raffaele Cutolo che prova a monopolizzare il settore imponendo ai contrabbandieri una «tassa» sul fatturato. I proletari fino ad allora impegnati nell’attività si trovano quindi sospesi fra lo Stato e la malavita che da sponde apparentemente opposte richiedono sottomissione, disciplina ed estrazione di plusvalore. In questa morsa fra la repressione statale e l’espansione della malavita organizzata nascono, dall’incontro con alcuni militanti politici attivi nei quartieri popolari della città, forme di soggettivazione che provarono a sottrarsi al binomio Stato/camorra, come il Collettivo autonomo contrabbandieri, nato a Forcella nel 1974, che annuncia una delle sue prime uscite pubbliche all’Università Federico II, con un volantino su cui si scrive:
Il contrabbando a Napoli permette a 50.000 famiglie di sopravvivere a stento. Da poco meno di un anno, oltre a chiudere i posti di lavoro, lo Stato e la Finanza hanno dichiarato guerra al contrabbando. Ci sparano addosso quando usciamo con i motoscafi blu. Il contrabbando non si tocca! Fino a quando non ci daranno un altro mezzo per vivere. Dobbiamo organizzarci ed essere uniti per difendere il nostro diritto alla vita. Riunione di tutti i contrabbandieri napoletani. Giovedì 15 alle ore 10 davanti all’Università di Scienze di via Mezzocannone 16 di fronte al Cinema Astra. Collettivo autonomo contrabbandieri[7].
Il collettivo lo fondarono alcuni compagni del Vomero che facevano i contrabbandieri. In quel periodo erano molti i comunisti napoletani che vivevano da «illegali» e quella esperienza, quindi, non nacque da «avanguardie esterne» ma all’interno del loro mondo. Tra il ’72 e il ’74 furono molte le trasformazioni della città che colpirono il proletariato napoletano per il quale le attività «illegali» avevano un ruolo importante. È chiaro che di fronte a quegli attacchi i compagni sentissero l’esigenza di organizzarsi. Quel collettivo è vissuto poco perché ha subito una repressione pazzesca, appena venne fuori la notizia quasi tutti i compagni furono arrestati ma è un errore analizzarne la portata politica solo alla luce della sua «durata». Noi spesso abbiamo un’idea retrò nei confronti di questi fenomeni, pensiamo che le strutture di movimento che nascono per un’esigenza debbano avere la stessa vita di un collettivo politico o di un partito ma non è così. La storia dei movimenti che nascono nei territori è quella che è, le strutture di movimento spontanee come questo collettivo possono anche durare poco ma quella che sopravvive è l’idea di fondo. Quello che resta è la valenza politica dell’illegalità organizzata e il suo ingresso dentro il processo rivoluzionario, la fine dell’idea di sottoproletariato come elemento marginale anche nel ragionamento dei compagni. Il collettivo dura poco in termini temporali ma le lotte del colera nascono da lì, da un percorso politico che si era avviato in seno al proletariato e al sottoproletariato urbano che si organizza dentro la crisi. Bisogna, quindi, sempre rintracciare dentro queste vicende, gli elementi politici di base, le aperture sulle quali cambia il corso degli eventi storici più che la durata della singola esperienza. Nella vicenda dei contrabbandieri è possibile leggere molto delle contraddizioni che avvenivano a Napoli in quegli anni. Nel ’73, con il colera, lo Stato avvia una guerra ai proletari della città attaccandone il sostentamento economico che consisteva nella vendita per strada di generi alimentari, fra cui le cozze. La guerra al contrabbando è dello stesso segno. Dopo la Legge 359 i compagni fino a quel momento avevano avuto un ruolo importante in quel mondo, gli operai licenziati si mettevano insieme per comprare una barca ma dopo questa legge cambia tutto e finisce la struttura cooperativa dal basso che, pur senza teorizzazioni, era la modalità su cui era organizzata quell’attività. Alla fine il contrabbando muore per interessi diversi, una volta che si sono strutturati quei canali commerciali è più conveniente trasformarlo in circuito di droga e armi. Quella non è una vicenda di scontro fra mafiosi e Stato, anzi, è la storia di trasformazione in senso capitalista di un settore dell’economia dentro cui c’erano molti compagni e dentro quelle vicende va letta la storia del collettivo autonomo di contrabbandieri che nasce per lottare contro quell’aggressione del capitalismo alla vita dei proletari. La trasformazione imposta dal Capitale pesa sui territori perché distrugge strutture sociali ed economiche che si reggevano su quello. È lo Stato che le distrugge, attaccando i proletari del centro storico nella materialità delle loro fonti di sostentamento[8].
Note [1] I contrabbandieri di S. Lucia, regia di A. Brescia, con M. Merola e A. Sabato. Prod. Atlas, Italia 1979. [2] G. Mazzocchi – A. Villani (a cura di), Sulla città, oggi. La periferia metropolitana. Nodi e risposte, Franco Angeli, Milano 2004. [3] F. Barbagallo, Il potere della camorra, Einaudi, Torino 1999. [4] Si veda L. Manunza, Geografie dell’informe. Le nuove frontiere della globalizzazione. Etnografie da Tangeri, Napoli e Istanbul, Ombre Corte, Verona 2016. [5] Ieri, oggi e domani, regia di V. De Sica, con M. Mastroianni e S. Loren, Prod. C. Ponti, 1963. [6] I. Sales, La camorra, le camorre, Editori Riuniti, Roma 1988. [7] Volantino del Collettivo Autonomo Contrabbandieri, 1974. [8] Raffaele Paura, intervista, 2019.
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Antonio Bove è nato nel 1975 a Napoli, dove vive e lavora come medico.
Francesco Antonio Festa, storico di formazione, ha pubblicato numerosi articoli sulla storia del Sud Italia, sui movimenti sociali e sui dispositivi di razzializzazione. Entrambi hanno curato il volume decimo della serie Gli autonomi (DeriveApprodi 2021), la prima parte di una trilogia dedicata all’Autonomia operaia meridionale.
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