top of page

Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri (a cura di Anna Curcio e Ceren Özselçuk)

 



Toni Negri, Mario Tronti ed Étienne Balibar in occasione della presentazione de "Il demone della politica" (Parigi, aprile 2019 - foto di Matteo Cavalleri)
Toni Negri, Mario Tronti ed Étienne Balibar in occasione della presentazione de "Il demone della politica" (Parigi, aprile 2019 - foto di Matteo Cavalleri)

Nella primavera del 2009, mentre questa conversazione si sviluppava, la crisi è ancora un fenomeno che non sappiamo dovremmo assumere come strutturale, il termine comunismo, che sarà sdoganato solo qualche anno più tardi dal mordere della crisi, è ancora impronunciabile nell’accademia americana (Fred Jameson, che ci aiutò a trovare i finanziamenti per il simposio che ospitò questa conversazione, ci suggerì di far sparire il termine dal titolo, altrimenti non avremmo neanche un dollaro dalle istituzioni accademiche). Il movimento globale, benché uscito sconfitto dalla prova della guerra nel 2003, è ancora un ricordo vivido e la trilogia di Hardt e Negri: Impero (2000), Moltitudine (2005) e Comune (2009, in via di pubblicazione nell’autunno di quell’anno) gode di larga attenzioni dentro e fuori l’accademia, in America e in Europa; mentre il concetto di «comune», inflazionato negli anni successivi, non ha ancora fatto i conti con gli egoismi profondi che segnano una società in crisi. Insomma, i quindici anni che ci separano da allora, hanno il peso di un’era geologica. Eppure la conversazione tra due eminenti teorici politici e militanti, che da posizionamenti intellettuali differenti condividono una prassi orientata ad «abolire lo stato di cose presente», resta di grande attualità per le questioni che pone e gli snodi teorici che discute. Nello stesso tempo permette di ricostruire e sistematizzare gli sviluppi del pensiero di Étienne Balibar e di Toni Negri al giro di boa del millennio, metterli reciprocamente a critica, evidenziare affinità e divergenze, punti di blocco e proficui salti in avanti. Nella settimana in cui «Machina» dedica le sue pubblicazioni alla memoria di Toni Negri, questa conversazione restituisce tutta la densità politica e la carica sovversiva irriducibile che un’intera generazione militante, la mia, ha avuto la fortuna di apprendere. (A.C.)


* * *


Nel pensare questa conversazione abbiamo inteso incoraggiare un dialogo tra due filoni teorico-politici nella tradizione marxista: l’operaismo (o marxismo autonomo) e il marxismo althusseriano[1]. Tuttavia, parlando di operaismo e marxismo althusseriano non intendiamo far riferimento a correnti mutualmente esclusive o a scuole di pensiero omogenee. Né vogliamo considerare Toni Negri e Étienne Balibar come rappresentanti rispettivamente dell’una o dell’altra tradizione, che risultano al contrario estremamente variegate al proprio interno. In questo senso, Balibar durante la costruzione di questa conversazione ha esplicitamente affermato: «Io non rappresento la scuola “althusseriana”, per il semplice motivo che questa scuola non è mai esistita come dottrina unitaria». Condividendo tale assunto, abbiamo piuttosto riconosciuto le diversità interne e le disseminazioni incrociate che hanno attraversato lo sviluppo di ciascuna esperienza. E soprattutto abbiamo considerato le problematiche e le idee ma anche le possibilità irrealizzate che queste hanno contribuito a costruire e che si sono riprodotte al la luce delle proprie tensioni interne e di un presente sempre in mutamento. È questo, a nostro giudizio, ciò che rende oggi tali tradizioni di grande interesse.

Comunismo è nello specifico il termine intorno cui abbiamo voluto organizzare questa conversazione. Gli studiosi di tradizione operaista e althusseriana hanno offerto spunti decisamente stimolanti per ripensare il comunismo, aprendo la strada a considerazioni non essenzialiste che riflettono su un’idea di comune o comunità che non corrisponde meccanicamente a un modo di essere omogeneo né a una necessita storica. In questa prospettiva, la rivalutazione del comunismo e la divaricazione dalla tradizione marxista che hanno proposto, ha condiviso un terreno comune: la critica dell’economia politica di Marx, l’ontologia di Spinoza e una critica dello storicismo hegeliano. Rimangono tuttavia alcune produttive divergenze nel modo in cui le due tradizioni considerano il comunismo che vale la pena indagare. Questa conversazione si propone proprio di esplorare le dimensioni condivise e le divergenze produttive tra il pensiero di Étienne Balibar e quello di Toni Negri.

 

L’idea di comunismo

Nei recenti lavori di Toni Negri e Michael Hardt, il comunismo è inteso come ontologia del comune. È insieme il prodotto e il presupposto della cooperazione sociale, un potenziale di espansione della cooperazione sociale che accompagna la trasformazione delle forze produttive e l’affermarsi di nuove forme di lavoro nel capitalismo contemporaneo: il lavoro affettivo, creativo, più in generale immateriale e la produzione sempre più socializzata della conoscenza e della comunicazione. Il comune rimanda dunque a una forma di socializzazione che rompe la divisione formale tra vita e lavoro, tra produzione e riproduzione, tra materiale e immateriale.

Nei recenti scritti di Étienne Balibar e di alcuni studiosi post-althusseriani, il comunismo e il connesso concetto di emancipazione sociale sono pensati in relazione a una paradossale idea di universalità che è al contempo impossibile da realizzare e necessaria per la politica. Contro il falso universalismo del comunitarismo e del feticismo delle merci, tale universale presuppone e insieme politicizza i limiti interni a ogni formazione politica. Balibar definisce tale idea «universale» come égaliberté, sottolineando l’inseparabilità di uguaglianza e libertà. Il principio di égaliberté interroga dunque i limiti di ogni discorso sull’universale, estendendo il potenziale emancipatorio dei diritti oltre le funzioni che esercitano nel presente.

Nel corso di questa conversazione vogliamo ripercorrere ed esplorare le implicazioni teoriche e politiche di questi due approcci. Ci interessa, in particolare, indagare come comprendere e praticare il comunismo oggi e più precisamente nel contesto della crisi economica globale. Ci sono due aspetti di questa crisi che vogliamo discutere: da un lato come la crisi economica rende visibile la colonizzazione dei processi finanziari sul corpo sociale, dall’altro come le prime risposte formulate dall’Impero fanno riferimento al management keynesiano, richiamano il New Deal e aspirano a un postfordismo green. Intorno a questi aspetti abbiamo qui di segui to formulato due blocchi di domande che costituiscono la trama della conversazione.

 

Comunismo e le questioni aperte nella crisi

La finanziarizzazione, tema riproposto in Comune, segnala che i processi finanziari cristallizzano il modo in cui il valore della cooperazione sociale (presente e futura) e il lavoro vivo sono resi omogenei, assoggettati all’astrazione attraverso la moneta e espropriati dal capitale. In questo processo di finanziarizzazione, un ruolo particolare è svolto dai soggetti, oggi in modo crescente chiamati a farsi manager dei propri consumi, gestori dei propri piani pensionistici e imprenditori del proprio capitale umano, come risposta alla costante erosione del welfare. Abbiamo dunque chiesto a Toni Negri e Étienne Balibar: come possiamo, a fronte di questo intervento soggettivo nei processi della finanziarizzazione neoliberale, distinguere gli affetti, i desideri e le forme della cooperazione che producono il comune da quelle che riproducono la cooperazione capitalistica? In questo senso, non c’è nella produzione del comune un ruolo per l’etica (oltre l’ontologia del comune)? Possiamo immaginare il comunismo come il nome da dare a un’etica di questo tipo? E poi, data la ridefinizione del welfare attraverso i processi di privatizzazione e individualizzazione, come l’idea del comune ci permette di ripensare, o andare oltre, il concetto di pubblico?

Si diceva inoltre che la risposta alla crisi tende soprattutto a far riferimento ai protocolli keynesiani. E mentre i discorsi sull’eguaglianza cominciano a essere articolati nello spazio pubblico (sia da parte dei detrattori conservatori che da parte dei liberal che li sostengono), si impone (nelle intenzioni sia dei moralisti conservatori sia degli umanisti liberal) il richiamo a moderare la sfrenata ricerca dell’interesse privato. La nostra impressione, tuttavia, è che tali richiami all’eguaglianza e alla moderazione sostengano un particolare regime di distribuzione che non necessariamente annullerà i processi di gerarchizzazione sociale storicamente surdeterminati e i regimi di «esclusione interna» sulla base di razza, genere, classe, etnicità, sessualità e così via. In questo quadro, attraverso quali domande politiche possiamo oggi ampliare e intensificare il potenziale emancipativo dell’égaliberté? In che modo queste richieste possono essere in continuità con, o prendere le distanze da, i diritti sociali che costituiscono il pubblico sotto forma di stato sociale? Possiamo immaginare il comunismo come un supplemento della lotta di classe che spinge l’égaliberté oltre l’orizzonte keynesiano del pragmatismo, del diritto e della moralità (ovvero oltre la democrazia liberale capitalista)?

 

Il nodo della composizione

TONI NEGRI – A me sembra, entrando nel vivo della questione, che bisogna distinguere, all’interno del concetto di moltitudine, quel soggetto singolare che teniamo in conto in quanto forza-lavoro, in quanto lavoro vivente nella produzione sociale, e d’altra parte quell’individuo assoggettato che è qualificato dentro l’ordine politico della cittadinanza. Faccio questa distinzione non perché sia reale (le due figure non possono essere realmente distinte, nella realtà sono reciprocamente funzionali) ma perché può permetterci, nell’attuale fase di crisi della finanziarizzazione e all’interno dei processi di lotta che in questa situazione si sono aperti, di affrontare sia i problemi posti da Michael e da me (che non pretendiamo di rappresentare la corrente operaista in generale), sia quelli posti da Étienne Balibar (che a sua volta cerca con giusta ostinazione di distinguersi dalla tradizione althusseriana). Tale distinzione ci permette di fissare due facce dello stesso problema.

Se assumiamo per cominciare la seconda figura, quella dell’individuo assoggettato nell’ordine civile e politico, essa mi sembra poter essere qualificata dentro il rapporto di égaliberté, sempre che lo si assuma come condizione materiale di una congiuntura giuridica e/o costituzionale e come tensione «inattuale» e cioè instabile e insoddisfatta. Credo tuttavia che il paradosso di questa definizione di égaliberté (una universalità impossibile da realizzare ma necessaria per fare una politica democratica e progressista) possa essere riportato ad altre dimensioni che non sono semplicemente quelle dell’uguaglianza e della libertà ma sono, né più né meno, le dimensioni economico-politiche dell’ordine capitalistico della società – brutalmente definite come «salariali» (considerando genericamente il salario come la condizione di partecipazione diretta o indiretta del cittadino al rapporto sociale di capitale): la figura del cittadino storicamente inserito dentro l’ordine biopolitico del welfare. Se può essere assunto questo nesso che lega la figura del cittadino a quella del lavoratore, entrambi soggetti alla misura del «salario necessario», cioè a quella misura storica del soddisfacimento di bisogni necessari che valgono sia per produrre che per sopravvivere, una volta definita questa misura/quantità di bisogni, eccoci al centro del problema.

E cioè dobbiamo chiederci come sia possibile, a partire da queste determinazioni, porsi la questione di mantenere o di aumentare, di qualificare o di trasformare politicamente quella massa di bisogni che solo un certo livello del «salario necessario» soddisfa. Sappiamo che l’attuale trasformazione della forza-lavoro (il lavoro vivo è sempre più immateriale e cooperativo) e la sua socializzazione (la valorizzazione del lavoro può essere ormai colta solo al livello della moneta e della finanza) modifica il problema. Lo sottraggono cioè all’analisi dei tempi della giornata lavorativa e lo sottopongono alle leggi della finanza. Conseguenza: la lotta economica per il sovvertimento delle regole del salario relativo si trasforma in lotta sociale-politica per il sovvertimento delle regole della distribuzione finanziaria, del reddito, nel welfare state, etc. La libertà e l’eguaglianza costano. Sono valori indipendenti che hanno tuttavia sempre una base economica determinata. Così come, quando il lavoro diventa intellettuale, la libertà ne è un elemento imprescindibile; così, quando il lavoro diventa cooperativo, l’eguaglianza ne è un elemento qualificante: sicché senza libertà e/o eguaglianza non c’è ormai più lavoro produttivo.

È chiaro che, su questo terreno, il problema della distinzione tra il «comune» (come insieme etico-politico costituito dalle singolarità, come prodotto del fare-moltitudine) e il «comunismo del capitale» (come forma di accumulazione del capitale, rappresentazione simmetrica dei nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore) è un problema inesistente. È evidente infatti che qualsiasi azione si muova su questo terreno, e cioè per conquistare un livello superiore di salario necessario, e qualsiasi riferimento si faccia alla finanza su questo terreno, ciò ha a che fare con il valore di scambio e solo con il valore di scambio, con le merci e solo con le merci. Non esiste la possibilità di identificare sul terreno del salario, e in generale sul terreno del welfare, un’alternativa a quello che qualifica il mondo del capitale, e che oggi cioè costituisce il cosiddetto comunismo del capitale. Questo vuol dire che l’approccio al problema della finanza da parte di una teoria di égaliberté e un qualsiasi riferimento all’égaliberté, sul terreno della critica all’economia politica, non può che essere proposto all’interno della tematica del valore di scambio, del tutto all’interno del discorso sulla merce.

Ma se riapriamo il discorso dal primo punto di vista (segnalato all’inizio) e cioè da quello che confronta la natura effettiva della forza-lavoro (la particolare composizione tecnica e politica della forza lavoro), è allora che possiamo cominciare a parlare del lavoratore partecipe della moltitudine. In questo caso possiamo insistere su quella che è la nuova figura del soggetto produttivo: esso ha ormai conquistato una relativa autonomia sia nelle forme della cooperazione che esprime, sia per la complessità della materialità cognitiva, intellettuale, affettiva, relazionale della forza-lavoro messa in opera. Ed è su questo terreno che comincia a darsi un’eccedenza specifica (che è legata al farsi comune del lavoro, al divenire comune dell’attività umana per la riproduzione), rispetto alle difficoltà di alienare la soggettività intrinseca alla produzione autonoma, o di espropriare l’oggettiva eccedenza di questa produzione. È a questo punto che la riflessione deve approfondirsi. Il presupposto è che il capitale è sempre una relazione (fra elementi costanti ed elementi variabili, fra elementi morti e elementi vivi) e che questo rapporto è, nella prospettiva del capitale, sempre dialettico. Il capitale deve ricondurre la sua opposizione all’unità, risucchiandone la forza vitale. La questione che ci poniamo è se il rapporto di capitale possa essere rotto. Se gli elementi che costituiscono la sintesi del capitale possono essere divisi. Ogni qualvolta che c’è crisi capitalista, questa rottura e questa divisione sono evidenti. Ma poi il capitale ricompone il processo. Ora, la nuova struttura del lavoro vivo, la nuova composizione tecnica della forza lavoro, il fare-moltitudine (e quindi la nuova, eventuale composizione politica), potrà tenere definitivamente aperta, ovvero rompere, la struttura tecnico-politica del capitale?

Rispondendo a questo domanda, possiamo cominciare a porci il problema della non-omogeneità tra il divenire comune (il fare moltitudine delle singolarità) e il comunismo del capitale (cioè il dominio globale nella figura del capitale finanziario).

Sotto un primo punto di vista, cioè quello del comunismo del capitale, noi vediamo una possibilità di movimento solo sul terreno del valore di scambio: sono lotte per il salario necessario. La rottura che possiamo qui determinare è una rottura che segue le lotte, ma la natura del valore resta la medesima: è sempre valore di scambio. Quando si chiede salario o welfare si ridistribuiscono merci e moneta la cui natura non cambia. Questa lotta è completamente inserita dentro lo scambio di valore, vale a dire nel valore di scambio.

È solo quando noi ci riferiamo alle nuove figure della forza-lavoro e cioè, come abbiamo fatto precedentemente, insistiamo su quella forza-lavoro che produce eccedenza (sul terreno produttivo di relazioni e di affetti, linguaggio, comunicazione, che soprattutto esaltano la nuova natura cooperativa del lavoro), è solo su questo punto che la rottura si determina in maniera ontologicamente rilevante. È il comune quello che emerge. Qui la rottura si spinge anche sul terreno del welfare verso la conversione dei valori (dallo scambio all’uso) e verso la conquista di un modo di produrre orientato alla «produzione dell’uomo per l’uomo»: salario sociale, reddito universale, non più come quantità bensì come figura di una rottura progressiva del rapporto di capitale e come potenza di un’autonomia del lavoro. Credo che su questo terreno si possano fissare nuove analogie col processo dell’égaliberté. Ma il problema è quello di conquistare la figura della produzione dell’uomo per l’uomo e cioè un cambiamento radicale nella struttura del produrre.

 

Pensare la (congiuntura della) crisi

ÉTIENNE BALIBAR – Ritornerò sulla questione dell’égaliberté anche se sono sempre un po’ a disagio quando si tratta di spiegare o difendere le mie idee. Dopotutto però questo è probabilmente ciò che un intellettuale, un intellettuale pubblico, deve fare. Proverò dunque a ritornare sulla questione dell’égaliberté e a rispondere alle critiche di Toni che comprendo perfettamente. Per replicare alle sue posizioni vorrei dire tre cose.

Prima di tutto, partendo dalla questione della crisi e della finanziarizzazione, credo veramente che la crisi contemporanea, se è davvero quello che sembra, ovvero una crisi profonda, globale, una crisi che non riguarda esclusivamente meccanismi economici ma – come il presidente del Brasile Lula ha scritto [nel marzo del 2009] in un commento pubblicato credo in tutto il mondo – è una crisi di civilizzazione che interessa l’ordine mondiale in cui viviamo, e ci spingerà a ripensare, correggere e ridimensionare più o meno completamente le categorie politiche e teoriche con cui abbiamo lavorato in passato. È sempre stato così in congiunture storiche simili. È stato così in particolare svariate volte durante la drammatica storia del marxismo come progetto teorico e politico. E ogni volta, per dirlo con le parole di Althusser, ciò ha significato non solo pensare quella congiuntura applicando o provando ad applicare nel modo più intelligente possibile categorie già esistenti ma anche cominciando di nuovo a pensare dal di dentro della congiuntura e secondo i vincoli della congiuntura stessa. Oggi, in particolare, dobbiamo determinare le dimensioni strategiche di questa crisi. Sicuramente ognuno di noi ha idee e ipotesi a riguardo ma nessuno ha delle certezze. Dunque ogni alternativa che possiamo proporre, anche dal punto di vista linguistico, dovrà probabilmente essere riesaminata, che si tratti dell’ontologia del comune e della filosofia politica della moltitudine come soggetto rivoluzionario globale o di una certa idea di cittadinanza non-esclusiva e di «democratizzare la democrazia» come io provo ad attribuire alla categoria di «égaliberté».

Per venire al secondo e terzo punto e per ritornare alle posizioni energicamente espresse da Toni, ci sono almeno due importanti idee che, dal mio punto di vista, sono non solo contributi decisivi ma anche elementi cruciali nel nostro tentativo di pensare alternative nella fase di capitalismo avanzato in cui viviamo. Non mi addentro in dettagli ma voglio nominarli. Il primo è l’idea del «potere costituente». Su questo punto penso che probabilmente abbiamo terminologie leggermente diverse ma in realtà, ripercorrendo un eredità storica e una tradizione rivoluzionaria che per grandi linee condividiamo, quello che io cerco di dire in termini di «égaliberté» e quello che Toni cerca di dire in termini di «potere costituente» siano fondamentalmente convergenti. Questo, certamente, ha a che fare con l’idea appena ribadita da Toni che solo le lotte, solo una natura conflittuale delle relazioni sociali – e io assolutamente condivido l’idea che il capitale sia una relazione – può spiegare la trasformazione delle istituzioni (siano queste economiche, politiche o civiche) e dunque rappresentare il motore del cambiamento sociale. Il punto importante è certamente non solo questa primazia dell’insurrezionale o del costituente sul costituito – che non nega la necessità di istituzioni e potere costituito – ma il fatto che la materialità delle lotte emerge sempre esattamente dove un certo discorso costituito, ufficiale, il discorso dello Stato e della classe dominate, il discorso egemonico nega la sua presenza e fa di tutto per convincerci che in realtà non esiste – perché escluso o destinato a rimanere marginale. La gamma e l’ampiezza, nella storia, nella cultura e nella società, di spazi in cui il potere costituente, l’insurrezione come forza trainante della storia emerge e riemerge è estremamente affascinante. E io, almeno in un primo momento, non vedo difficoltà a considerare tali spazi costituenti e insurrezionali sotto l’ombrello «moltitudine», se intendiamo la moltitudine non come un soggetto esistente ma come ciò che definirei un’idea regolatrice di una possibile convergenza di questi elementi insurrezionali.

Il secondo elemento che trovo centrale nelle riflessioni di Toni riguarda il modo di pensare il lavoro e la potenza produttiva. La mia grande divergenza, per metterla in termini concisi, è che io ho da tempo abbandonato il prerequisito ontologico di Toni rappresentato dall’assoluto primato, per non dire unicità, delle forze produttive come fondamento antropologico per il cambiamento politico e storico. Io vedo un numero di altre dimensioni che hanno a che fare con la cultura e la società, che non possono essere ridotte a un’analisi in termini di forza produttiva e di cui abbiamo bisogno se vogliamo comprendere qualcosa delle lotte delle società in cui viviamo. Sono tuttavia d’accordo con ciò che Toni ha messo in evidenza sulla base di varie inchieste che combinavano psicologia, sociologia, rapporti di lavoro e certamente teoria politica, ovvero che il concetto di lavoro utilizzato dallo stesso Marx era troppo limitato e non teneva conto dello sviluppo dei rapporti di lavoro. Toni ha anche insistito su qualcosa che in Marx era presente solo in modo marginale, ovvero l’importanza della dialettica tra lavoro materiale e intellettuale, il ruolo che questa gioca nella permanente contraddizione tra aspetti individualistici e cooperativi del lavoro, e soprattutto ci ha ricordato che il lavoro non è solo intellettuale o materiale ma che ha anche una dimensione affettiva e, per questo, è intrinsecamente connesso a tutte le passioni sociali che costruiscono o distruggono il comune. In questo modo ha davvero rivoluzionato quella visione limitata, forse utilitaristica del lavoro sostenuta da Marx. Io penso che queste due cose sono assolutamente ineludibili e in tutto ciò che dirò cercherò di non dimenticarle o confutarle.

Per finire un breve appunto: il mio problema è con l’interpretazione ontologica di Toni di questi problemi. Lui ha sempre posto la dimensione ontologica o dell’unilateralità a partire dalla definizione degli uomini come animali produttivi capaci di ogni cosa. Ciò gli ha permesso di riprendere la narrazione del comunismo come telos della progressiva socializzazione del lavoro. Così facendo ha spinto la dimensione ontologica all’estremo opposto e, dal mio punto di vista, questo è completamente metafisico. Quello che mi manca – lui non ne sarà sorpreso, è il vecchio motivo althusseriano – è certamente la politica. Non può esserci politica dove ogni cosa è già anticipatamente determinata da uno sfondo ontologico. Non puoi avere l’incertezza della politica. Non puoi avere il carattere imprevisto delle crisi o dei conflitti politici che è radicato nei fenomeni economici e nella dimensione ideologica della politica contemporanea: dov’è la religione, dov’è il nazionalismo, dove sono tutti i discorsi e le pratiche ideologiche che pesano profondamente in tutti i passaggi della fase storica che viviamo e che la rendono assolutamente irriducibile a una semplice alternativa tra la più o meno irresistibile crescita e sviluppo del comune come dimensione futuribile da una parte e il «comunismo del capitale» dall’altra? Un bell’ossimoro che apprezzo ma che non dice niente della congiuntura.

 

Lo spazio costituente del comune

TONI NEGRI – Primo punto: non credo che il materialismo storico sia un’ontologia costrittiva, un determinismo e/o una teleologia. Penso che sul terreno del materialismo storico, fra le sue condizioni ontologiche, debbano annoverarsi il caso, il clinamen, le produzioni alternative di soggettività, l’aleatorietà delle connessioni modali etc… L’ontologia spinoziana integra e qualifica l’orizzonte del materialismo.

Secondo: ho l’impressione che quando si parla di lavoro nella maniera in cui abbiamo cominciato a parlarne da Impero fino a oggi con Michael e con molti altri compagni, la dimensione politica sia stata esaltata piuttosto che ridotta. Libertà ed eguaglianza sono interni all’attività umana produttiva, economica e politica, nella misura in cui il lavoro diventa biopolitico.

In terzo luogo, il politico non è semplicemente sovrastruttura della cooperazione sociale. Ne consegue che esso è innovato da quei valori che non sono di mercato ma sono piuttosto eccedenze che vanno oltre l’ordine e la misura del mercato. C’è in questo discorso che vorrei riprendere, un’apertura piena alla questione della politica, in particolare ai problemi della crisi della sovranità e del governo. È dentro questa crisi, di sovranità e governo, che si apre per il potere costituente la possibilità di esprimersi. E ciò significa appunto far fronte in maniera propositiva a quei problemi di crisi della civiltà capitalista (sia essa liberale o socialista) e dell’organizzazione globale, che ormai da più di un decennio, proponiamo con Michael Hardt. Se quanto detto precedentemente ha un senso, quando noi parliamo del comune come nuovo valore d’uso che si oppone alla regola capitalista del profitto e del comando, ci apriamo alla crisi politica attuale – crisi eminentemente politica (in senso stretto dunque: come crisi del governo e della sovranità – del politico moderno per antonomasia). Io non vorrei ora ritornare sulla crisi della sovranità (e quindi della trasformazione della sovranità nell’epoca imperiale, sulla quale troppo ormai mi sono altrove intrattenuto) quanto sulla crisi del governo, sulla crisi della figura moderna del governo. Il fatto è che l’amministrazione statale si è radicalmente trasformata. Essa è sempre meno disegno di una decisione unitaria e articolata che discende dalla legge, è sempre di più invece sistema dinamico, pluralista e disarticolato di decisioni/contratti/convenzioni, stabilito appunto fra più soggetti. Al governo man mano si sostituisce la governance. Dal punto di vista della scienza politica rigorosamente intesa, noi verifichiamo le stesse alternative che avevamo riscontrato nell’economia politica: critica dell’economia politica e critica della scienza politica si sovrappongono. Se poi volessimo guardare il problema dal punta di vista del diritto (sempre rappresentato come scienza formale e come coerente presa di coscienza di un ordinamento singolare) ci troveremmo davanti alle stesse difficoltà: non solo il governo si stacca dalle qualificazioni giuridiche della sovranità ma anche la governance, l’amministrazione prendono le distanze dal diritto costituzionale e/o amministrativo.

Sia chiaro, queste trasformazione avvengono perché, ovunque, ci sono eccedenze che resistono oppure che si pongono in alternanza alla messa in ordine giuridica o amministrativa. Il governo è sempre sottoposto a questo gioco. Potete aver vinto le elezioni con un grande vantaggio sull’avversario ma sarete parimenti sottoposti alle alternative della governance. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi ed estendersi all’insieme delle esperienze di governo e costituzione nella contemporaneità (Obama docit). L’unico problema, a questo punto, diventa quello di comprendere se questo insieme di eccedenze e di disegni alternativi possa essere ricondotto a nuove forme di sussunzione dentro strutture rinnovate della sovranità o del governo capitalista, o se invece questo insieme di contraddizioni non si configuri come spazio di un potere costituente. Che è come dire, alla maniera di Mao: l’uno si divide in due. Il riferimento a Mao è evidentemente ironico, non per questo meno efficace, se si pensa con quanta poca ironia l’idea dell’Uno teleologico-politico nella figura in cui il moderno l’ha proposta, da Bodin a Carl Schmitt, ci venga continuamente suggerita. È solo un’ipotesi, evidentemente. Per il momento si tratterà di comprendere (1) se il comando capitalistico riuscirà, dentro le nuove condizioni dello sviluppo e della crisi, a ricostruire un suo equilibrio interno; (2) se invece l’insieme dei soggetti che cercano una nuova prospettiva comune e nuove figure della libertà e dell’eguaglianza riuscirà a costruire istituzioni che oppongano il comune alle strutture di governo del capitale. Nella governance, così come negli spazi aperti dall’indebolimento delle pratiche sovrane al livello imperiale, è ormai evidente un certo dualismo istituzionale, identificabile con qualche precisione. Si tratta allora, con ogni probabilità, di approfondire questo dualismo e di accumulare l’eccedenza su un solo lato di questo rapporto di crisi: quello caratterizzato dalla domanda del comune.

 

Il comune come universale a venire

ÉTIENNE BALIBAR – Per articolare ciò che Anna e Ceren hanno generosamente indicato come segno distintivo del mio intervento in questo dibattito focalizzato intorno a una centrale preoccupazione per il comune e il comunismo, voglio partire con una riflessione epistemologica sull’uso della categoria «comune». La prima cosa – e non credo che io e Toni siamo in disaccordo, anzi concordiamo su questo, lo testimonia il suo uso provocatorio della formula «comunismo del capitale» – è che dobbiamo riprendere in considerazione il fatto che «comune» sia una categoria che sottende ciò che in francese chiamiamo équivocité: non solo una varietà di significati e applicazione ma anche una tensione permanente tra significati opposti.

Io vedo almeno tre direzioni possibile per ogni riflessione sul comune mai completamente riducibile l’una all’altra. Una di queste ha a che fare con la questione dell’«universalità» e dell’«universale». In passato ho discusso come la stessa nozione di universale sia intrinsecamente frammentata e conflittuale, comprensiva di aspetti estensivi e intensivi e, soprattutto in Occidente, contesa tra tradizioni filosofiche e politiche diverse. Da una parte l’idea di diritti individuali universali, idea certamente connessa a una certa omogeneità del mercato o a un sistema di equivalenze dominante nel mercato. Dall’altra le rivendicazioni e i tentativi di ripensare l’universale in modo differenziato e dunque dialettico. Ovvero ponendosi il problema della dimensione universale di singolarità portatrici di profonde differenze antropologiche: sesso, razza, cultura, l’opposizione salute malattia, l’intera questione di normalità e anormalità comunque venga definita. Per riassumere, io vedo una dimensione imprescindibile a ogni riflessione sul comune che per rapidità si potrebbe definire come il tentativo di ripensare l’universale in termini di differenze antropologiche. In questo senso l’universale, rimanendo essenzialmente un’idea regolativa o un’aporia permanente, ha molte poche possibilità di coincidere immediatamente sia con il progetto di costruire uno Stato o un sistema di istituzioni pubbliche sia con il problema di promuovere una dimensione comunitaria delle relazioni sociali che prenda una delle forme che conosciamo: nazionale, religiosa e anche rivoluzionaria. Questi due problemi riguardano il pubblico, il cittadino, che si identifichi con lo Stato o che assuma una posizione critica. Nelle nostre società non ci sarebbero diritti se non fossero esistiti gli Stati e la dimensione comunitaria. Io non vedo come gli esseri umani possano vivere al di fuori delle comunità, ma il problema è che le comunità sono mutualmente incompatibili perciò nessuna di questa dimensione è riducibile.

Il comunismo è la terza e maggiormente enigmatica direzione in cui io vedo andare una riflessione sul comune. Il comunismo è una nozione o un nome che io non voglio rinnegare o abbandonare non solo sul già menzionato piano etico ma anche, e forse più profondamente, sul piano logico. Tuttavia, il problema con il comunismo è che oggi non solo è denigrato e disprezzato, ma profonda mente scosso e distrutto al suo interno dalla storia del Ventesimo secolo. Cosicché oggi, ogni discorso sul comunismo non solo deve essere formulato in termini di un’alternativa allo sfruttamento e a varie forme di oppressione – e, in fine al capitalismo – ma anche nei termini di un’alternativa all’alternativa della sua realizzazione storica. Se tale discorso non coglie le ragioni per cui il progetto comunista basato su concetti marxiani, benché distorti, si sia risolto nel suo assoluto opposto, non produrrà niente o, ancora una volta ci condurrà al peggio. Il problema non è che Lenin o Stalin fossero cattivi, o che Mao fosse un leader ipocrita che ingannò la gente. Il problema è: perché le masse, le «moltitudini», pensano il comunismo in quel modo e perciò si trovano ingabbiate nell’incapacità di riorientare ciò che loro pensavano essere un movimento emancipatorio e invece si è dimostrata una strada verso l’inferno? Così ogni comunismo anche oggi deve essere alternativo all’alternativa. È da questo punto di vista, che certamente tutti noi proviamo a ripensare il comunismo. Toni lo fa a suo modo, ritornando all’ispirazione Cristiana (più precisamente Francesca: un grande «comunismo» nella tradizione storica, il comunismo di povertà, amore e fraternità); io lo faccio ritornando a una forma borghese radicale o civica di comunismo pre-marxista, il comunismo dell’égaliberté. Non è certamente il comunismo del mercato. È il comunismo dei Levellers, di Blanqui e Babeuf. Un’idea politica di comunismo che precede la sua fusione marxiana con il socialismo. Questo è quello che stiamo facendo, nella speranza di indirizzare in modo critico le «equivocità» della nozione di comune nel mondo contemporaneo. Ripeto infine le tre dimensioni che devono essere presenti in ogni riflessione sul comune: (1) la questione dell’universalità a venire, (2) la questione di una sfera pubblica oltre lo Stato ma non necessariamente oltre la cittadinanza o i diritti, e (3) la questione di come considerare le comunità e le loro reciproche incompatibilità.


Affinità e divergenze per un lavoro intellettuale «comune» 

TONI NEGRI – Io credo che le tre proposte finali – capaci di riassumere la discussione – avanzate da Étienne indichino correttamente il problema che dobbiamo approfondire.

1) Credo che la ricerca della qualificazione «universale» vada riportata al processo concreto della costruzione degli universali e quindi alla prospettiva spinozista di costituzione delle «nozioni comuni». Il tema epistemologico e quello ontologico vanno tenuti strettamente congiunti. Mi riferisco qui, anch’io, a quella aporia (che aporia non era) proposta da Derrida nei suoi Spettri di Marx.

2) Insisto, a proposito del tema proposto da Étienne, sull’importanza di non escludere i principi del diritto e della cittadinanza, relegandoli in una sfera, pure comune, oltre lo Stato – ma di collegarli strettamente ai nuovi diritti del lavoro vivo. Senza che questa congiunzione avvenga, temo che i diritti di cittadinanza, l’égaliberté, possano venir meno.

3) Su questo terreno il fare-moltitudine, il costruire comune, non solo in termini dialettici, di mediazione, ma anche in termini costituenti, etico-politici, dovrebbe essere considerato centrale. Il problema proposto qui da Étienne, è certo molto difficile. È, né più né meno, il tema del conflitto sociale e della sua soluzione, un tema da assumere nella sua continuità prospettica, fino all’ipotesi, sempre presente, della guerra civile. Ma forse, come abbiamo visto qui sopra, una definizione realista della governance (e delle sue interne articolazioni) può aiutarci ad avanzare.

Io tuttavia non penso che le idee o le utopie pre-marxiste del socialismo e/o del comunismo ci permettano di risolvere questo problema con più facilità di quanto è avvenuto nel confronto coi movimenti che hanno fatto riferimento al marxismo rivoluziona

rio. Anche se il radicalismo democratico, in felice sintesi col marxismo, fosse alla base della costruzione delle istituzioni del comune, resterebbero necessari la resistenza allo sfruttamento e l’esercizio della violenza nella costruzione della libertà e dell’eguaglianza. Come insegna Rosa Luxemburg, l’irenismo e la costruzione della democrazia degli oppressi non vanno sempre d’accordo.

E per finire: la crisi economica presente ci indica che il rovesciamento del domino capitalistico potrebbe essere più facile di quanto mai sperato. Quindi, l’equilibrio della governance potrebbe esser rotto e rovesciato e il «comune della moltitudine» avere la meglio sul «comunismo del capitale». Ciò non costituirebbe una situazione tragica ma una semplice soluzione democratica della crisi – anche se siamo certi che il 99 per cento degli scienziati politici e degli accademici che si occupano della materia, griderebbero al pericolo di una dittatura, alla minaccia del socialismo (= stalinismo). Ma dittatura non è: si tratta semplicemente dell’egemonia di un polo (finora subordinato) su un altro (finora dominante). Naturalmente, nessuno ha il monopolio della regola, ovvero della bilancia della governance, ma tutti sono tenuti a garantire democraticamente la regola.

Dal momento che finora la scienza politica ha molto parlato del governo capitalistico, io proporrei al contrario di sviluppare (per riempire il terzo punto indicato da Étienne) la discussione attorno al tema delle nuove istituzioni del comune. Sarebbe sufficiente, ad esempio, riprendere come trama della critica la Filosofia del diritto di Hegel, laddove articola le istituzioni dello spirito oggettivo, borghese e pubblico, attorno ai tre grandi capitoli «famiglia, società civile, Stato». Proporrei dunque di avanzare, dal punto di vista del comune, discutendo criticamente l’avvenire della famiglia come istituzione economica ed eventualmente la sua distruzione in quanto strumento identitario nella sfera educativa, riproduttiva e in quella ereditaria (che mostruosità!) a favore di forme più adeguate e felici di rapporto coniugale e filiale. Discuterei la produzione sociale e la sua organizzazione democratica piuttosto che di mercato e di impresa. Discuterei di reti di comunicazione e di welfare piuttosto che di gilde e nuovi sindacati e infine delle nuove forme di «produzione dell’uomo attraverso l’uomo» piuttosto che dell’individualismo proprietario, di banche, di comunismo finanziario, etc. fino a costruire (e a immaginare l’esercizio di) proposte costituenti di una nuova figura del diritto – non più privato né pubblico, ma comune.

Bon, questo sembra a me un ottimo programma di lavoro, da discutere e da sviluppare in molti.

 

ÉTIENNE BALIBAR – Molto di ciò che Toni ha detto meriterebbe risposte complesse! Proverò a seguire la sua accurata articolazione per punti di convergenza e divergenze, ognuno dei quali fornisce elementi per un prosieguo della discussione: questo è infatti un lavoro intellettuale «comune».

Ci sono (principalmente) cinque questioni su cui vorrei proseguire e a partire da queste vorrei riesaminare i nostri taciti assunti nella lettura di Marx o nell’interpretazione degli eventi contemporanei.

1) C’è la tesi dialettica che Toni riprende (ironicamente) da Mao: «l’uno si divide in due». Senza questa tesi non c’è possibilità di critica immanente, nessuna politica che radicalizza le contraddizioni prodotte dalla storie e vi reagisce, nessuna liberazione di forze generata dall’esperienza collettiva, e così via. Su questo principio generale siamo d’accordo e in un certo senso questo non è sorprendente dato il background marxista su cui entrambi lavoriamo. Ma chiaramente ci sono differenti modi di intendere ciò. Uno di questi, radicato nel concetto giuridico-politico di «sovranità» (e il suo rovescio nella problematica della lotta di classe intesa come guerra civile, dittatura del proletariato, etc.), culminava nell’idea di «doppio potere» e descriveva una «fase di transizione» più o meno interminabile, ma non pensiamo più in questi termini (e devo ammettere che mi ci è valuto molto tempo per comprendere perché ciò fosse inseparabile dal catastrofico esito delle «rivoluzioni comuniste» del passato). Un altro modo, probabilmente non di per sé semplice, è l’idea di «biforcazione» che ho sviluppato alcuni anni fa a partire da una rilettura dell’analisi di Marx sulla «riproduzione». Su questo punto, mi sembra che ci sono delle affinità con ciò che Toni e Michael Hardt descrivono come l’opposizione tra la produzione del «comune» e il «comunismo del capitale» anche se questa rivalità mimetica andrebbe ulteriormente discussa.

2) Tali considerazioni conducono, del tutto naturalmente, a un altro punto nelle teorizzazioni di Toni che risulta molto affascinate per ogni marxista: la sua descrizione di «eccedenza» o «surplus», prodotta dal lavoro sociale in termini qualitativi e non quantitativi e tuttavia quantitativamente appropriata dal capitale finanziario. Come sappiamo questa idea deriva dalla descrizione di Marx degli effetti della cooperazione dopo la rivoluzione industriale ma sostituisce il capitale finanziario al capitale produttivo come «soggetto» dell’appropriazione. Ciò, da una parte permette a Toni di associare l’«eccedenza» a un altro concetto marxiano, cioè l’idea che il processo di produzione non solo «produce» le merci ma anche «riproduce» le relazioni sociali di produzione. Presi insieme, questi concetti conducono all’idea che nel presente sviluppo del capitalismo, le «relazioni» che sono riprodotto nel processo produttivo sono non più capitaliste ma già «comuniste» o capaci di ricreare «comune». Dall’altra parte conduce all’idea secondo la quale, adesso che i suoi cicli e tendenze comandano direttamente il processo di lavoro, la funzione del capitale finanziario non è quella di organizzare questo processo ma solo quella del saccheggio e del controllo politico sui suoi agenti. Un’idea simile è stata brillantemente sviluppata da Michael Hardt, nei termini dell’accumulazione di capitale finanziario oggi più simile alla rendita che al profitto, dunque esterna al «lavoro vivo» collettivo[2]. Io vedo come profondamente ambiguo l’uso che Toni e Michael fanno del concetto di «vita» per colmare la distanza tra il concetto marxiano di «lavoro vivo» e la nozione Foucoultiana di «biopolitica». La vita è simultaneamente intesa come categoria ontologica che designa l’immanenza dell’intero processo di produzione (entro il quale il momento politico è organicamente incluso) e come categoria etica che autorizza un’antitesi dualistica tra «il vivo» e il «morto» (o l’artificiale, il repressivo, l’intervento del potere, etc.). Io penso che non si possa rendere indistinte le tensioni ideologiche insite nel concetto di «vita».

3) Non ho problemi con l’idea dell’esistenza di un elemento direttamente politico nell’organizzazione della produzione, anche qualora si tratti di un elemento di lotta e violenza. Al contrario, come ho detto prima, ritengo si tratti di uno dei più preziosi e indiscutibili lasciti della tradizione operaista. Dunque non ho obiezioni da muovere all’idea che tra il processo produttivo e l’intervento politico dello Stato non c’è «distanza» ma un’interazione diretta (questo è ancora qualcosa che si può far risalire a quei passaggi di Marx che partono dalla metafora «architettonica» di base e sovrastruttura, o all’eredità della distinzione hegeliana di «società civile» e Stato). Un’idea la cui importanza cresce quando, come fa Toni, si insiste sul fatto che il processo produttivo non è più racchiuso nel lo spazio della «fabbrica» o del «posto di lavoro»: sta prendendo forma qualcosa come una nuova era di putting out che implica anche un ampliamento considerevole della categoria di lavoro (vivo). Ma quando dico «non vedo la politica in Negri» ho in mente un altro aspetto. Per me la filosofia di Toni rappresenta una forma estrema (spettacolare per questa ragione) della riduzione della «società» a un organismo produttivo, un modo di comprendere ogni relazione antropologica (e ogni differenza) come una funzione del lavoro umano (che certamente comporta anche che il «lavoro vivo» diventi una realtà molto complessa, nei fatti una totalizzazione dell’umano). Come conseguenza di ciò, il modo in cui Toni si confronta con la vecchia problematica che contrappone socialismo e comunismo appare molto strana. Critica indubbiamente e, dal mio punto di vista giustamente, l’idea di una «transizione socialista» attraverso il comunismo (Goodbye, Mister Socialism![3]) ma spinge all’estremo l’idea che il comunismo o l’emergere del comune, sia il risultato della «socializzazione delle forze produttive» il cui stadio «finale» è raggiunto attraverso la primazia del lavoro immateriale sul lavoro materiale e la reintegrazione della dimensione affettiva nell’attività produttiva. Io sono fortemente contrario a questa idea e questa è la base delle mie osservazioni sull’implicita «teleologia» della filosofia di Toni. Supporre che tutte le differenze antropologiche (sesso/genere, normale/patologico, culturale/razziale, etc.) siano irriducibili a differenze nel «lavoro» (o, in termini più etici, alla «produzione dell’uomo attraverso l’uomo») mi sembra empiricamente sbagliato e teoricamente rischioso. Sebbene ne ammetta, nella pratica, il costante intreccio e sovrapposizione, penso che le differenze antropologiche rimangano eterogenee; c’è qui un’essenziale pluralità di azioni soggettive o, nel gergo althusseriano, di surdeterminazione: non tanto la surdeterminazione di base e sovrastruttura ma la surdeterminazione delle stesse relazioni sociali. Per questo motivo, connetto la «politica» non solo al conflitto ma anche alla diversità delle lotte, dei valori emancipativi, delle azioni collettive il cui «produttore sociale» è solo uno, benché importante. Questa è anche una della ragioni per cui io credo che oggi i radicali (incluso lo stesso Toni) «ritornino» a modelli di comunismo pre-marxista: questo è anche un modo per slegare la questione del comune dall’assolutismo onto-teleologico del lavoro (e, in verità, io non condivido l’idea secondo la quale l’égaliberté sia un espressione della logica del valore di scambio, questa è stata la comprensione riduzionista di Marx da parte di quella tradizione rivoluzionaria borghese da cui voleva distanziarsi).

4) Questo ci conduce a un altro interessante punto di discussione: la questione delle istituzioni e della loro relazione con ciò che ho chiamato il modello della «biforcazione». Apprezzo l’idea che i comunisti non dovrebbero limitarsi a fare «proposte», ad apparire come forza «creativa» (non solo «reattiva» o “«resistente»): le proposte dovrebbero riguardare la creazione di istituzioni alternative. Forse questa insistenza sulle istituzioni e sulla distinzione della dimensione istituzionale della politica dalla sua rappresentazione «artificiale», è qualcosa che viene da Hume attraverso l’intermediazione di Deleuze. Ma ha anche una dimensione spinozista e rousseauiana. Tradizionalmente il marxismo è stato piuttosto incapace di affrontare il dilemma delle istituzioni (per esempio partecipazione versus rappresentanza), anche quando esse giocavano un ruolo chiave nell’esperienza politica (il «partito», il «movimento sociale» i «consigli», etc.). Tutto ciò ha chiaramente a che fare con la riunificazione delle questioni del comunismo e della democrazia, che entrambi sosteniamo (insieme a molti altri: Rancière per esempio). Poi viene il problema istituzionale della governance e della sua tendenza a sostituire il          «potere sovrano» nella costruzione dello spazio politico del capitalismo; dunque anche l’interpretazione del cambiamento prodotto dalla globalizzazione e la virtuale biforcazione tra una governance neoliberale e una governance della moltitudine (che per Toni sarebbe essenzialmente la sua autorganizzazione, o la sua autoistituzione: siamo qui molto lontani da Castoriadis?). Certamente dovremmo avere una discussione completa su governance e governamentalità. Sono d’accordo che oggi le figure della politica stanno cambiando, che il ruolo dello stato-nazione, massimizzato dal welfare state «keynesiano», affronta la sfida posta da altre strutture basate sulle reti piuttosto che sul territorio. Ma mi stupisce l’idea proposta da Toni che la governance finanziaria e transnazionale debba essere se non esattamente meno violenta del potere imperialista dello Stato, almeno una condizione più favorevole per l’istituzione del comunismo, come la crisi finanziaria dimostrerebbe. Ancora una volta la metafisica dell’autonomia virtuale della moltitudine precede l’analisi concreta. Non solo mi sembra che l’introduzione di queste forme di governance e il corrispondente discorso tecnocratico oggi pervasivo non hanno eliminato sic et simpliciter la centralità politica dello Stato e le sue «funzioni di territorializzazione» (anche la crisi lo dimostra) ma io credo che la governance neoliberale sviluppi, nelle relazioni capitaliste, forme di «sussunzione reale» dell’individualità che hanno anche dimensioni psicologiche o generano «servitù volontaria». Così, io davvero non credo che una politica comunista sia diventata oggi più facile o più spontanea di quanto non sia sempre stata. C’è da sperare, piuttosto, che non ci troviamo in una situazione opposta: che una politica comunista sia diventata più difficile. In ogni caso, questa è una contraddizione interna che va affrontata se il discorso sul «comune» non vuole sembrare una sorta di wishful thinking.

5) In fine, la mia domanda – che mi auguro continuiamo a tenere a mente quando parliamo di forze democratiche o movimenti anticapitalisti in questo mondo globalizzato – sarebbe la seguente: non «cos’è comunismo?» (come viene definito, qual è il suo fondamento ontologico, quali le sue basi materiali e immateriali?), ma piuttosto «chi sono i comunisti?» (e anche dove sono, cosa stanno facendo?). Non posso non ricordare che la sezione finale del Manifesto del partito comunista non offre una definizione di comunismo ma una risposta «pragmatica» all’interrogativo: chi sono i comunisti, cosa li distingue da «altri partiti dell’opposizione», cosa sostengono e cosa rappresentano? Questo è, per molti aspetti, l’elemento più politico di ciò che Marx scriveva del comunismo, benché non vengano qui esaurite le questioni teoriche. Indica anche che «il comune» è fondamentalmente il risultato di una pratica politica collocata in una specifica congiuntura storica o in una «differenza di tempi», soprattutto attraverso l’insistenza di Marx sul fatto che il «partito comunista» non è tanto orientato a proporre una propria agenda politica ma a rivelare la possibile unità di tutti i «movimenti» contro l’ordine dominate. Mi sembra che valga la pena riprendere quest’atteggiamento nel discutere oggi un revival comunista oltre la «catastrofe» del «socialismo reale». Certamente i comunisti, definiti in modo concreto, non stanno necessariamente dove viene evocato il nome comunismo. E noi possiamo tentare di riflettere sulla riformulazione di quelle che per Marx erano le due dimensioni cruciali di questa politica: la critica della proprietà e l’atteggiamento internazionalista. Per Marx la loro unità si basava sulla condizione del proletariato. Se vogliamo definire le forme dello sfruttamento e dell’oppressione contro cui ribellarci, questo è per noi molto problematico e troppo limitato. Oltre la critica della proprietà, esiste il problema di inventare le modalità del «condividere» i mezzi di sussistenza e distribuire le dimensioni soggettive della vita tra il polo «individuale» e quello collettivo della personalità, entrambi necessari (è qui, in particolare, che io vedo l’«égaliberté» come un’idea importante). Oltre l’internazionalismo, reiterazione del vecchio ideale cosmopolita che non si è misurato con le radici del nazionalismo, del tribalismo, del razzismo e dell’antagonismo religioso (perché Marx pensava che queste «ideologie» non riguardassero più i proletari), esiste il problema di creare un nuovo cosmopolitismo che, in particolare, trasformi lo scontro delle culture in una reciproca capacità di traduzione. Sono tentato di dire che i «comunisti», comunque si definiscano, sono quelli che contribuiscono praticamente alla realizzazione di questi obiettivi che, forse, non sono stati completamente abbandonati.

 

 Cosa farne del potere: «La nostra discussione sul comunismo comincia da qui»

TONI NEGRI – Vorrei concludere, senza concludere. Propongo solo alcune brevissime osservazioni alle conclusioni di Étienne. Rispetto al punto 1). Ok, hai interpretato bene: la tesi di Mao, «l’uno si divide in due», non è dialettica, è piuttosto una biforcazione. Il cammino si biforca; non semplicemente il cammino che noi percorriamo, ma la strada, in senso oggettivo. Nella condizione che determinata dall’accumularsi delle eccedenze del lavoro immateriale, cognitivo, affettivo etc., il capitale ha sempre più difficoltà a fissare una sintesi fra il suo comando e lo sviluppo autonomo della forza-lavoro.

Rispetto al punto 2). Ok, anche questa posizione espressa da Étienne mi sembra corretta. Ma non si tratta di una contraddizione bensì di una condizione. La vita è il sostrato ontologico nel quale ogni vicenda umana si svolge. La vita è l’immanenza di ogni comportamento ma anche il luogo di emergenza di ogni valore. Il bene, il fine etico, è vivere. Il nemico, si raffigura e consiste in tutto ciò che spossessa la vita della sua potenza e la restituisce alla morte. La vita è il bene, la non-vita è il male: credo che ci sia qualcosa di spinozista in quest’affermazione.

Rispetto al punto 3). Come sopra. La società è sicuramente una sinergia produttiva, e lo diviene in forma sempre più intensa, quanto più l’artificio capitalista, la manipolazione capitalista della vita controllano, modellano e bloccano le potenze produttive. Ma questa invasione capitalista della vita resta pur sempre un rapporto produttivo e quindi antagonista. L’invasione capitalista della vita aumenta (e non toglie) la forza antagonista dei rapporti sociali. Qui è facile obiettare: dove vedi l’antagonismo quando non c’è opposizione politica? Lo vedo come possibilità, come tendenza, come accumulazione di forze che preannunciano un evento risolutore. Vale la pena allora sottolineare che dentro l’allargamento della capacità capitalistica al dominio, attorno alla primitiva e originaria resistenza e potenza della forza-lavoro contro lo sfruttamento capitalistico, altre attività umane (contro il dominio coloniale, contro il dominio di genere, eccetera) si pongono in una condizione (ed eventualmente in una opzione) di resistenza, come comportamenti che emergono in una figura antagonista. Qualora l’«eguaglianza-libertà» avesse la capacità di svilupparsi nella praxis come tendenza alla ricomposizione delle soggettività resistenti, questa sarebbe una buona notizia.

Rispetto al punto 4). Sulla linea di esodo che prolunga la biforcazione, i soggetti si organizzano come istituzioni. Nel biopolitico, sempre, i soggetti appaiono come istituzioni (produzione di soggettività, accumulazione di soggettività, moltitudine di singolarità), altrimenti sarebbero ombre (così come sono ombre, feticci, dentro il dominio capitalistico: Derrida insegna). Nel biopolitico, i soggetti non sono mai individui, sono sempre insiemi di resistenza. Di qui la difficoltà di considerare la loro costituzione transindividuale. Quest’ultima costituzione è sicuramente determinata da un rapporto orizzontale tra «individualità» (soggetti, singolarità) ma è sovradeterminata dall’eccedenza di quest’incontro. Ancora una sottolineatura: noi non siamo francofortesi, non viviamo la sussunzione reale come un destino, non la consideriamo lineare ma sempre fratturata, discontinua – la vediamo, insomma, come un processo contraddittorio nel quale il rapporto tra azione e reazione, fra resistenza e oppressione, non si dà mai in maniera conclusiva ma sempre in maniera aperta. Machiavelli, Spinoza, Marx e gli operaisti hanno sempre rifiutato ogni teleologia (soprattutto quelle catastrofiste) e posto la chiave dello sviluppo nella resistenza.

Rispetto al punto 5). Anche qui mi sembra che siamo abbastanza d’accordo. Il mio problema, come comunista, non è solo quello di prendere il potere, ma è soprattutto quello di sapere cosa farne, una volta conquistato (è chiaro che tutta la storia della lotta di classe, sia prima che dopo la presa del potere, costituisce, da questo punto di vista, un processo di transizione). Cosa farne del potere, dunque? La nostra discussione sul comunismo comincia da qui. Sono anch’io convinto che due problemi fondamentali da risolvere siano quelli della proprietà e dell’internazionalismo. Ed è qui che cominciano le difficoltà: nel costruire il comune, nell’istituirlo dentro strutture democratiche, nel superare il diritto pubblico (oltre naturalmente al diritto privato) e nell’inventare nuove figure della costituzione e dell’espressione del comune. Altrettanto vale per quel passaggio che potremmo definire: «oltre l’internazionalismo verso un comune cosmopolitico». I problemi che qui emergono sono quelli della pace e della libertà dei commerci, della difesa del pianeta e della conquista dello spazio, della lotta contro la miseria e contro la morte, eccetera eccetera. Già nelle condizioni attuali di «comunismo del capitale», si è posta la necessità di un’associazione mondiale degli Stati, ben più profonda di quello che l’internazionalismo otto e novecentesco avesse mai potuto rappresentare. Governare l’esodo dal capitalismo, spingere la biforcazione fuori dal due nella molteplicità, conquistare una forma di vita nella quale l’articolazione del comune si costituisca come rete dei diritti singolari: questi sono i problemi che attraversano oggi l’«essere comunisti» e che costituiscono la militanza comunista, quando vengano assunti non semplicemente come problemi ma come terreni, tensioni e desideri dell’esperienza politica.



Note

[1] Questa conversazione, a cui Toni Negri ha partecipato in videoconferenza, è stata l’evento di apertura del Simposio The Common and Forms of the Commune: Alternative Social Imaginaries, tenutosi a Duke University il 9 e 10 aprile 2009 e organizzato da Anna Curcio e Ceren Özselçuk con la collaborazione del Franklyn Humanities Institute. Attraverso una serie di scambi successivi gli autori hanno rivisto e rielaborato le trascrizioni originali, conseguendo il risultato del testo così come lo si può leggere oggi. La conversazione è stata originariamente pubblicata come On the Common, Universality, and Communism: A Conversation between Étienne Balibar and Antonio Negri, A. Curcio - C. Özselçuk a cura di The Common and the Forms of the Commune, Special issue «Rethinking Marxism», 22(3), p. 303 (trad. it. Comune, universalità e comunismo Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in Comune comunità, comunismo, ombre corte 2010).

[2] M. Hardt, Il comune nel comunismo, in A. Curcio a cura di, Comune, comunità, comunismo, ombre corte, Verona 2011.

[3] A. Negri, Goodbye, Mister Socialism!, Raf «Valvola» Scelsi a cura di Feltrinelli, Milano 2006.

bottom of page