Pubblichiamo un testo di Agostino Petrillo sulle trasformazioni urbane avvenute negli anni '90, in cui l'autore tenta di ricostruire sinteticamente tre linee interpretative emerse nell'epoca della proliferazione dei saperi urbani: la costruzione di città-Stato, o città contro lo Stato, organizzate attraverso la forma-rete e incentrate sul modello della governance; la contrapposizione tra le città occidentali e non, e le contraddizioni interne ai diversi poli
(fine delle città/città globali e villes-comptoir/città-fabbrica); il rapporto tra mutamento della città e mutamento di classe riassumibile nel rapporto tra povertà dei moderni e iperprofessionalizzazione.
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Come spiegò benissimo Reinhart Koselleck, nei momenti in cui la storia accelera a volte diviene difficile cogliere lo specifico di determinati passaggi, il cui pieno significato si coglie solo a posteriori. Così è stato per le trasformazioni urbane degli anni Novanta, a lungo opache, contraddistinte da una perdurante ambiguità, che hanno alimentato tanto speranze di ripresa della politica e di miglioramento delle condizioni di vita, quanto letture in chiave di totale contaminazione e sconfitta dei movimenti. Non a caso è stata questa anche l’epoca della proliferazione dei saperi dell’urbano, in rapida moltiplicazione intorno ad un oggetto dai tratti a volte sfuggenti. Proveremo a mostrare in estrema sintesi tre delle linee interpretative emerse in quegli anni, spesso evidentemente interconnesse.
Il primo percorso è stato certamente il risultato della estremizzazione della ipotesi teorica delle città globali. Se la città era sempre più forte contro lo Stato, si poteva dunque pensare a una sua autonomizzazione? Cosa stavano diventando le città? Che ruolo giocavano le città nell'economia e nella politica? Come si modificavano in simile contesto le relazioni tra una città e le altre? Si poteva parlare dell’emergere di vere e proprie città-Stato? La grande trasformazione avvenuta nell'economia mondiale aveva infatti combinato in maniera originale dispersione territoriale e integrazione globale, legando la dimensione locale direttamente a quella internazionale, e inducendo così un «nuovo disordine» nei territori, attraversati da mutamenti economici, tecnologici, politici e finanziari che parevano progressivamente minare l'ordine consueto delle cose. Vacillavano le gerarchie e i sistemi urbani che si erano andati costituendo a partire dal secolo scorso e consolidando nel corso dei «gloriosi trenta», negli anni cioè tra il 1945 e il 1975. Veniva meno l’ordinamento dei tre decenni postbellici, in cui l'internazionalizzazione economica aveva via via rafforzato un sistema di scambi di tipo «interstatale»; gli Stati nazionali si costituivano in soggetti centrali del commercio internazionale, di cui organizzavano i flussi. Nei Novanta lo spazio mondiale si trasformava invece a velocità rapidissima in un unico spazio di relazione, e l'elemento locale diviene di importanza centrale per i molteplici circuiti attraverso cui si costituiva la globalizzazione economica.
La città diventava il luogo strategico fondamentale per questo tipo di sviluppo, e vedeva così mutare il suo ruolo di mera fornitrice di servizi pubblici e di esecutrice locale di decisioni prese a livello nazionale, passando ad essere un laboratorio privilegiato per nuovi modelli che avevano tra i loro obiettivi quello di proiettare le città direttamente nel contesto internazionale e di sfruttare vantaggi territoriali a fini competitivi, regolando al contempo le proprie contraddizioni interne. Attrattività, coesione sociale e competizione diventavano le parole d’ordine del periodo. Mentre alcune città assurgevano a nodi indispensabili del transnational network, con la nascita di un sistema urbano transnazionale parevano perdere via via di senso i sistemi urbani tradizionali basati sulla gerarchia nazionale. Le riflessioni di Saskia Sassen sull'emergere di «città globali», sul ruolo delle nuove tecnologie e sulla «perdita di controllo» da parte degli Stati, di cui abbiamo parlato in un precedente articolo per Machina dedicato agli anni Ottanta, hanno rappresentato un importante tentativo d'esplorazione effettuato in questa terra incognita, pur affrontando in prima battuta la questione prevalentemente dal punto di vista della sociologia economica.
Rimaneva da verificare e da esplorare il punto più eminentemente politico della questione, quello di indagare quali fossero le forme di governo che si sarebbero definitivamente affermate nella lunga transizione postfordista, quali sarebbero state le modalità di organizzazione politica e istituzionale che si prospettavano nel futuro prossimo, le tipologie del comando. Il luogo privilegiato del politico diveniva in prospettiva il network, la forma-rete, una dimensione relazionale in cui l'elemento locale non era più subordinato, come avveniva quando si trovava inserito in una gerarchia regionale prima e nazionale poi, ma veniva valorizzato proprio in quanto nodo della rete stessa. Dall'ambito economico l'idea di uno strutturarsi dei rapporti tra città per reti orizzontali venne per traslazione e suggestione riportato all'ambito politico. Ci si chiedeva dunque se questo paradigma reticolare non potesse finire per permeare anche l'universo istituzionale. Se in economia la forma-rete pareva un potente modo di organizzare le transazioni, dal lato della politica essa lasciava intravedere uno spazio di interazione più orizzontale e meno gerarchico rispetto al modello fin qui conosciuto. Non si era più «prigionieri dello Stato». Il ridimensionamento, se non il declino dell'istituzione statuale, faceva sognare la possibilità di una sua progressiva integrazione e parziale sostituzione da una serie di istituzioni multiple, alimentate da movimenti di base. Non si poteva allora più parlare di big government, di governo e amministrazione in senso forte, quanto piuttosto era necessario parlare di governance, di una forma di governo più debole, che nasceva dalla contrattazione, caratterizzata da politiche pubbliche costantemente rinegoziate tra attori pubblici e attori privati. Ma lo sviluppo dell'intreccio tra forma-rete e nuove possibili dimensioni della democrazia schiudeva anche un orizzonte più ampio: fu formulata l'ipotesi teorica, di una «città di reti», che avrebbe potuto in una sua dimensione più allargata fornire un modello planetario di democrazia come rete, in grado di gettare le basi di un nuovo cosmopolitismo. Questo il sogno degli ottimisti, tra cui gli «iperglobalizzatori» alla David Held. Il trionfo delle città-Stato, che pareva adombrare l’affermarsi del criterio della rete come base di nuove democrazie cittadine a venire, se non addirittura come modello di governo planetario, si è andò però pian piano ridimensionando. E d’altro canto troppe nebbie gravavano sul concetto di città-Stato: già Max Weber era convinto che le città potessero nascere e le loro libertà autonome potessero prosperare solo in «intervalli», in momenti di affievolimento o di «distrazione» di poteri territoriali più estesi e radicati, come quelli dei grandi imperi. Ma la rinascita di regimi imperiali non era forse un'altra possibile alternativa storica, che appunto prendeva le mosse proprio dalle «rovine» degli Stati-nazione? I decenni seguenti hanno confermato come l’ipotesi delle città-Stato e della «democrazia delle reti» fosse troppo fragilmente fondata, e in sostanzialmente priva di soggetti abbastanza forti da animarla e sostenerla nel tempo.
Una seconda e diversa linea interpretativa metteva invece l’accento sul fatto che nel corso dello stesso decennio il costante spostamento di produzione ad alta intensità di lavoro aveva provocato fenomeni di urbanizzazione accelerata su scala planetaria, avvenuti con ritmi e tempi senza precedenti nella storia, come vide chiaramente Paul Bairoch. Un processo che conduceva alla formazione di città-fabbriche in regioni del mondo dove per lo più prima non esistevano che villes-comptoir, città-filiali delle potenze coloniali, e che generalizzava la condizione operaia in luoghi che non avevano nessuna tradizione di movimento e di organizzazione dei lavoratori, mentre nel primo mondo venivano smantellate storiche concentrazioni operaie, e tramontavano i centri urbani delle vecchie regioni industriali. Simultaneamente veniva sconvolta da un sempre più accentuato riorientamento in direzione del mercato mondiale la equilibrata rete economica che si era stabilita in Europa tra città e regioni e tra le più importanti città di una stessa regione. Secondo alcuni autori tutti questi fenomeni erano da leggersi come i diversi aspetti di un sempre più intensivo sfruttamento del tempo di lavoro mediante una sua estrema razionalizzazione tecnologico-organizzativa. Certo è che solo i progressi nelle tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni avevano reso possibile il crescente dislocamento della produzione al di fuori dell’Europa. E proprio come conseguenza dello sviluppo delle moderne tecnologie di trasmissione di dati e di comunicazione da più parti si parlava addirittura di «fine della città» o quantomeno si ipotizzava il venir meno della necessità della sua esistenza. Proliferavano teorie che sottolineavano la «relativa indifferenza del luogo», ove si trattasse di impiantare e di far funzionare attività economiche e produttive di tipo moderno. I fantasmi della metropoli dispersa e policentrica, dei technoburbs dello sprawl come destino non solo americano aleggiavano ovunque.
Nello stesso periodo l’economia mondiale si finanziarizzava, divenendo dato immateriale, gioco economico apparentemente svincolato dalla produzione, e si profilava una nuovo ruolo proprio per le città che concentravano in sé i luoghi in cui si tengono le redini che guidano l’economia stessa, le sedi delle grandi imprese e delle più importanti banche. Alcune «città globali» apparivano in questa lettura sempre più autonome non solo rispetto al loro retroterra produttivo come si era andato storicamente configurando, ma anche nei confronti delle regioni e delle stesse nazioni in cui erano situate. Città che assumevano delle decisive funzioni di management finanziario, di orientamento del commercio internazionale. New York, Tokio, Londra, San Paolo, Montreal, Sydney, Miami, evolvevano in «spazi di mercato transnazionali», in cui vengono operate le scelte determinanti per l’economia mondiale. Non che non esistessero più città che facevano capo a strutture economiche di tipo più tradizionale, come città guida di economie nazionali, ma alcune delle grandi città potevano essere meglio comprese solo considerandole sotto il profilo dei loro legami e delle loro connessioni transnazionali. D’altro canto le vicende di rapida ascesa o declino di alcuni centri rimanevano altrimenti incomprensibili, se lette nelle chiavi esplicative proposte dalla tradizione. É certo che le diseguaglianze tra le città si accentuavano, che sistemi di città un tempo equilibrati tendevano a disgregarsi. Nel nuovo gioco a somma dispari dell’economia mondializzata c’erano città che vincevano e città che perdevano, e queste ultime pagano un prezzo altissimo dal punto di vista sociale ed economico, divenendo shrinking cities, realtà urbane in rapido declino economico e demografico. Non era più sufficiente per una città essere collocata nel Nord del mondo per garantirne la sopravvivenza e la continuità storica, niente era più scontato. La vagheggiata «democrazia delle reti» diventava una spietata gerarchia di città dominanti e di città subordinate, in un pianeta che vedeva nella competizione internazionale affermarsi nuovi protagonisti, a volte situati in quello che era un tempo il Sud del pianeta. Emergevano così capitali planetarie e piccole potenze locali ferocemente egoiste, e si configurava una nuova epoca del capitalismo, contraddistinta dalla concorrenza tra città in parte indipendenti. Isole in cui si andava concentrando il potere economico, finanziario e decisionale, spesso circondate da oceani di povertà e marginalità. Le città globali e «globalizzate» non erano però luoghi unicamente della concentrazione di nuovi poteri direzionali e finanziari, ma anche centri in cui nascevano nuove disuguaglianze, e al cui interno si disegnavano nuove linee di conflitto. Si cominciava a comprendere come fossero al loro proprio interno estremamente differenziate e divise. L’apparente unità con cui si proponevano, quasi a inseguire un modello di integrazione totale, di «città corporata» alla Singapore, lasciava però al tempo stesso intravedere profonde divisioni sociali che le attraversavano, divisioni e fratture ancora più nette di quanto non cercasse di segnalare la teoria delle divided cities, delle città duali. L’immagine di urbanizzazione che offriva la città del capitalismo concorrenziale e le forme di lotta sociale che essa inevitabilmente prospettava cominciavano a diventare evidenti. Le capitali planetarie assurgevano a catalizzatrici non solo di flussi comunicativi, finanziari e commerciali, ma anche di correnti migratorie. Si assisteva così a una profonda trasformazione interna nella composizione delle società cittadine, che procedeva di pari passo con l’inasprimento dei processi di polarizzazione socio‑spaziale, mentre si riducevano fino quasi a scomparire gli sforzi in direzione di un maggiore uguaglianza sociale. Città come New York vedevano il dilagare del lavoro nero, l’economia informale superare come fatturato l’economia normale. Sono note le conseguenze sociali ed economiche che accompagnarono la decantata «rinascita» della città statunitensi nei Novanta: pauperismo, marginalità, estensione della condizione di homeless anche a fasce di popolazione non tradizionalmente marginali, deterioramento dei servizi pubblici, in particolare istruzione e trasporti, diffondersi di condizioni abitative estreme, crescita vertiginosa in alcuni quartieri della mortalità infantile, ricorso a strategie securitarie estreme come la tolleranza zero. Immigrazione, terziarizzazione e industria dei servizi rappresentavano fattori essenziali di uno sviluppo basato su salari ridottissimi. Nuove ombre si allungavano quindi sulle grandi agglomerazioni urbane, in cui le trasformazioni della produzione e della divisione internazionale del lavoro stavano creando una situazione sociale inedita, segnata da una estrema divisione e frammentazione. Cresceva, inquietante, una «povertà urbana» planetaria con nelle grandi concentrazioni metropolitane il suo punto di accumulazione. Se l’abissale miseria degli slums terzomondiali appariva ormai fuori da qualunque possibilità di intervento «risanatore», come denunciavano un anno dopo l’altro i rapporti di Un-Habitat, anche nelle metropoli dei paesi ricchi settori sempre più ampi della popolazione si trovavano messi ai margini, esclusi dal godimento delle enormi ricchezze prodotte, costretti a mangiare le briciole della torta. Una disparità sociale che nessuna misura di tipo welfariano o postwelfariano pareva in grado di attenuare, strutturale, profondamente iscritta nelle nuove modalità di organizzazione del lavoro e dell’economia.
Col mutare delle relazioni tra le città molto cambiava quindi anche nelle città stesse, e un terzo filone di ricerca ha insistito proprio sulle trasformazioni della stratificazione sociale urbana, e ha richiamato alla necessità di tornare agli studi sul campo, di studiare le singole città, insistendo sulla necessità di comprendere il mutamento della loro struttura di classe. Le vecchie concezioni della stratificazione apparivano ormai inadeguate a dare conto della nuova realtà sociale. In ambito sociologico si aprì in quegli anni una discussione tra chi ricorreva a strumenti di analisi più tradizionali e chi variamente, e spesso genericamente, parlava di una società postfordista in cui avevano luogo processi di autonomizzazione dei singoli e di individualizzazione delle chances e delle «carriere» lavorative. Una società caotica, in cui avevano luogo processi tali da permettere di parlare di realtà urbane in cui le collocazioni si sarebbero progressivamente date «al di là di ceto, strato e classe». Né il concetto di stratificazione né quello di classe sociale parevano a questi sociologi in grado di dare conto delle complesse interazioni che costituivano il fondamento delle società avanzate. Una prospettiva questa estremamente radicale, avanzata in particolare dai teorici della società del rischio, che finiva quasi per suggerire l’ipotesi paradossale di un capitalismo senza classi sociali. Ma, se le dimensioni della differenza sociale parevano moltiplicarsi, e i vecchi confini tra classi divenire meno netti e progressivamente diluirsi, per contro c’era un permanere della diseguaglianza, anzi un suo ampliarsi, che andava ben al di là delle differenze costruite sulla pluralizzazione degli stili di vita o sulle «fini distinzioni» di cui parlava Pierre Bourdieu, ma assumeva aspetti di massa sempre più evidenti. Anzi da più parti si cominciava a denunciare una crescita di forme sempre più estreme di marginalità. Ma come dare conto di processi di differenziazione sociale che apparivano per molti versi sfuggenti e di difficile circoscrizione? La proposta di una sociologia multidimensionale della diseguaglianza avanzata all'inizio dei Novanta era certamente interessante, ma molte suggestioni giungevano anche da approcci più tradizionali. Se la differenza pareva assumere tratti meno materialmente ed empiricamente circoscrivibili che in passato era però evidente che una nuova stratificazione sociale si palesava e diveniva particolarmente visibile sul terreno della città. I mutamenti della divisione internazionale del lavoro con il tramonto delle grandi concentrazioni operaie nei paesi avanzati e la riallocazione di buona parte della produzione di beni materiali nelle aree terzomondiali avevano condotto ad una radicale modificazione delle strutture urbane. Le trasformazioni del lavoro e della produzione nei paesi avanzati avevano condotto alla rottura del patto sociale fordista, che prevedeva il contenimento dei conflitti in cambio di redistribuzione reddito, servizi e consumi, schiudendo le porte ad una ridefinizione dei rapporti tra le classi sempre meno normata da una pattuizione istituzionale. Le città erano diventate luoghi in cui le imprese concentravano solo una parte del ciclo produttivo, data la delocalizzazione e frammentazione della produzione, e crescevano il settore del terziario e i servizi. La classe operaia era in parte sostituita da lavoratori del terziario e da personale super-qualificato impiegato nei lavori high skilled, mentre si formava una inedita nebulosa di lavoro precario e informale. Prendeva così forma la tesi della polarizzazione sociale: nel quadro di contesti urbani sempre più divisi socialmente e profondamente segnati da povertà di tipo nuovo emergeva una nuova classe sociale dominante: la classe globale degli specialisti dell’informazione, delle tecnologie, degli analisti finanziari, di tutto quel personale tecnico-scientifico iperqualificato indispensabile al funzionamento delle città di rilevanza mondiale. A partire da queste prime intuizioni è stata poi formulata la tesi della polarizzazione: l’analisi si è focalizzata sulla crescente divisione del mercato del lavoro urbano: una sottoclasse di poveri, migranti e persone che non disponevano di una adeguata formazione per riuscire ad entrare nell’ambito di quelli che erano chiamati i «lavori centrali» e lavoravano in attività di pulizie, manutenzione, servizi alla persona o nell’economia informale, e una élite che lavora invece nei servizi, nelle tecnologie, nelle comunicazioni, nella finanza. Le città globali apparivano dunque strutturalmente divise tra lavori precari e sottopagati svolti da persone ai margini della città, che abitano in quartieri dei poveri, e lavori «buoni» e ben retribuiti, svolti da persone che vivono nei quartieri belli, storici e non. Da una realtà urbana in cui predominava la classe operaia si consumava il passaggio ad una in cui si diffondevano in maniera crescente professionisti, colletti bianchi, managers, operatori che lavorano nelle industrie finanziarie, culturali e creative. Il mutamento della struttura di classe aveva conseguenze immediate sulle città, dato l’orientamento culturale dei nuovi ceti medi, che preferivano vivere nei centri storici piuttosto che fare i pendolari dai sobborghi. Non solo lavoravano, ma vivevano in centro, mentre le popolazioni più povere erano sospinte verso i margini della città con un tipico processo di sostituzione. Si profilava dunque come fosse caratteristico delle nuove forme assunte dalla stratificazione sociale metropolitana l'intreccio tra la presenza di queste nuove élites e i processi di rinnovamento urbano dei vecchi centri, la soi-disant rigenerazione urbana che già andava in molti casi assumendo gli aspetti speculativi noti oggi sotto il nome di gentrification, con una rilevante valorizzazione della rendita fondiaria. Rendita fondiaria che veniva esasperata e rivitalizzata dalla finanziarizzazione dell’economia, secondo la tesi avanzata da David Harvey della moltiplicazione della rendita nei termini di «capitale fittizio». Rimaneva il fatto che anche i poveri erano diversi dal passato, la forza-lavoro precaria rappresentava in ogni caso un motore occulto del funzionamento della città, e nelle periferie veniva respinta anche una intelligenza produttiva, le cui reti e la cui cooperazione diventavano una componente strutturale del nuovo lavoro immateriale.
La tesi della polarizzazione è stata in seguito ulteriormente approfondita e meglio dettagliata da studi, che hanno mostrato come la crescita della disuguaglianza sia sempre legata al modello di sviluppo scelto dalle singole città e dalle modalità di inserimento che queste hanno adottato per competere nell’economia globalizzata. Lì dove è stata operata la scelta di aprirsi a modelli di tipo «predatorio», con presenza massiccia di investimenti di capitale straniero in cerca di rapida valorizzazione, e lì dove si è optato per uno sviluppo a «bassa intensità di conoscenza», basato principalmente sullo sfruttamento di manodopera impiegata in lavoro non skilled, la crescita delle disuguaglianze socio-spaziali è notevolmente più accentuata, basterebbe pensare a quanto poi avvenuto a Milano negli ultimi due decenni, mentre la polarizzazione è meno marcata in realtà come Monaco di Baviera, in cui le amministrazioni sono state in grado di esercitare un controllo sui venture capitals .
Nei primi anni duemila sono state mosse pesanti critiche al modello della polarizzazione sociale, identificando almeno tre punti deboli dell’analisi: primo un'ambiguità concettuale: si tratta di polarizzazione della struttura occupazionale o della distribuzione del reddito? E in questo caso come la si misura? Secondo punto: la tesi della polarizzazione non da ragione di molte trasformazioni sociali e occupazionali nelle società avanzate, quali il processo di professionalizzazione dei ceti medi e la nascita di un «nuovo ceto medio». Terzo punto: il processo di crescita delle economie informali si è mostrato nettamente più forte nelle realtà metropolitane americane, specialmente a New York e a Los Angeles, di quanto non sia stato attivo in quelle europee. Una celebre ricerca su Londra, condotta da Chris Hamnett, ha mostrato che le cose in UK erano andate diversamente: pur essendoci un indubbio aumento della povertà e della disuguaglianza, che colpiva soprattutto chi era privo di competenze e formazione, l'andamento della stratificazione sociale in città si sarebbe differenziato dal modello duale proposto dai teorici delle global cities per una sostanziale tenuta dei ceti medi. Una ipotesi dunque di «aggiornamento sociale», con la nascita di un diverso ceto medio, non più legato alle tradizionali occupazioni nel settore della pubblica amministrazione e nelle attività impiegatizie, ma piuttosto legato ad un mondo delle professioni libere (da noi forse si direbbe il mondo delle partite IVA o del lavoro autonomo di seconda generazione) estremamente variegato dal punto di vista delle attività e del reddito. Va detto che anche in questa chiave di lettura permane in ogni caso una netta differenziazione di redditi e status complessivo tra il mondo privilegiato dei top manager, di coloro che realmente decidono, e la scomposta realtà dei «nuovi ceti medi». Anche prendendo con le molle la tesi della polarizzazione sociale, rimane il fatto che l’evidenza empirica continua a mostrare che le città, siano esse globali o globalizzate restano divise sia sotto il profilo socio-economico che spaziale in «chi ha» e chi «non ha». La «professionalizzazione» dei ceti medi pare avere luogo principalmente in alcune grandi concentrazioni metropolitane in cui si danno le possibilità perché questa si realizzi, quali Londra o Francoforte, ma non dovunque, basti pensare alle analisi su Barcellona che hanno mostrato come la crescita economica della città sia andata di pari passo con un drammatico aumento della povertà. Per questo insieme di motivi appaiono più che giustificate le inquietudini che, anche in Europa, continuano ad attraversare la questione della nuova stratificazione sociale urbana, e, oltre alla categoria di polarizzazione è stato introdotto anche il concetto, ancora più estremo, di frammentazione sociale. Altre voci hanno insistito sulla fine della città europea come macchina di integrazione, con una conseguente dispersione dell'urbano in una serie di mondi sociali non comunicanti e marginalizzati. Si sono andati moltiplicando nel frattempo in Francia e in Germania gli studi che indagavano su nuove marginalità urbane e sulle forme spaziali assunte dalla povertà. La categoria dei nuovi poveri continuava ad allargarsi: giovani con contratti part-time o occasionali, disoccupati di lungo periodo, migranti, riders, persone con scarsa formazione, lavoratori espulsi dal mercato del lavoro e non più in grado di esserne assorbiti. La ricerca era obbligata a spingersi oltre le considerazioni ormai classiche sui working poor e sulle «sacche di povertà» che l’avevano caratterizzata nei primi Novanta. Una indagine innovativa condotta ad Amburgo sul finire dei Novanta già mostrava come il concetto di povertà andasse aperto a tutta una serie di declinazioni nuove per potere compiutamente descrivere la realtà. Il fatto che la città si fosse molto arricchita come conseguenza dei nuovi equilibri economici e commerciali creatisi dopo la caduta del muro non aveva impedito una crescita della povertà. L'arricchimento di alcuni gruppi, dovuto all'apertura della città alla globalizzazione vedeva come sua conseguenza una crescita del numero assoluto dei poveri, con una sempre maggiore apertura della forbice tra ricchi e poveri fino a far parlare di Armut durch Reichtum, impoverimento mediante l’arricchimento, povertà da ricchezza potremmo dire. Per paradossale che potesse parere il fatto che la ricchezza piovuta in città non avesse avuto una redistribuzione equilibrata significava che la parte degli abitanti che aveva visto i redditi compressi verso il basso, tendenzialmente sarebbe continuata ad aumentare. Si profilava, come avevano intuito anche i sociologi francesi, una «nuova questione sociale», che era difficile ricondurre ai consueti «gruppi problematici». Al di là dell’oceano, la ricerca americana sulla underclass suonava campane molto simili: nei ghetti delle inner-cities la povertà si intrecciava all’isolamento, che ne potenziava gli effetti: le popolazioni sfavorite si concentravano in determinate aree, in cui le «catene della povertà», l’eredità culturale e la separazione sociale, finivano per rappresentare un condizionamento che si tramanda per generazioni, una condanna cui è difficilissimo sottrarsi: diventava evidente come i quartieri «svantaggiati» avessero anche una funzione ulteriormente «svantaggiante». In essi proliferavano sottoculture che avevano perduto quasi completamente i contatti con il resto della società. Le cause di questa netta separazione sono da ricondursi tanto alle difficoltà che chi abita in queste zone stigmatizzate ha ad entrare nel circuito del lavoro «stabile», quanto all’accentuarsi della discriminazione di origine etno-nazionale e alle sue ripercussioni sul mercato degli alloggi.
Se era certo difficile, e forse fuorviante, parlare in Europa di underclass e di «isolamento socio-spaziale» nei termini in cui se ne discuteva in America, era comunque evidente l’emergere di una relazione reciprocamente implicante tra quartieri, condizione abitativa e condizione sociale, che era possibile rilevare con chiarezza se si analizzavano le diverse dimensioni dell’esclusione in diversi ambiti, in particolare per quanto riguarda le dinamiche di polarizzazione sociale e l’accesso a risorse e servizi.
Si profilava quindi già alla fine del decennio una «povertà dei moderni» con delle «qualità» sue specifiche, legate strettamente alle trasformazioni dei modi di produzione e alla riallocazione della divisione internazionale del lavoro: si incrementano e crescono le posizioni occupazionali ai due estremi della scala sociale: alte qualifiche e alti salari e basse qualifiche e bassi salari, mentre aumentano i disoccupati di lungo periodo. Si riducono i posti per i lavoratori non qualificati, mentre la formazione e i titoli di studio assumono un nuovo valore. Il sistema formativo diviene parte integrante della selezione sociale, e in esso vengono prefigurate le possibilità di un inserimento efficace nel mercato del lavoro, e quindi si giocano le chances decisive per tutta la vita. Nelle metropoli si disegnano dunque con nettezza le forme nuove della povertà, e si riapre al tempo stesso una questione socio-spaziale che diviene costitutiva del concetto, anch’esso ambiguo, di esclusione.
A distanza di ormai quasi un quarto di secolo possiamo dire che l’eredità dei Novanta per gli studi urbani consiste da un lato nell’avere fissato definitivamente il nuovo orizzonte politico economico globale in cui si inserivano le città, forse esagerando l’importanza di queste ultime, ma di avere altresì sottolineato come le trasformazioni nei rapporti di produzione e di lavoro, e la loro ridislocazione planetaria implicassero lo sviluppo di nuove gerarchie urbane e di nuove subordinazioni e dipendenze, all’insegna della coppia concettuale «competizione/cooperazione». L’altra acquisizione importantissima è avere progressivamente compreso come la stratificazione sociale delle città mutasse alla radice, lasciando apparire forme di povertà e di disuguaglianza diverse dal passato, avviando così un dibattito, ancora oggi aperto, sulla «giungla concettuale» cui conducono la pluralità di approcci e le differenti concezioni di povertà. Un dibattito che prosegue e in cui spesso si continuano a privilegiare le categorie di reddito e di occupazione, per cui la marginalizzazione spaziale sarebbe la mera conseguenza di una precedente marginalizzazione economica; pare però necessario sganciarsi da questo tipo di paradigmi, dato che la «povertà dei moderni» si manifesta come il risultato di una «posizione strutturalmente debole» nella società, che non è individuabile solo con strumenti meramente economici. La posizione che si ha nel mercato del lavoro finisce infatti per condizionare pesantemente anche gli spazi di azione in altri settori. Si viene a creare non solo una marcata interdipendenza tra il mercato del lavoro e quello dell’abitazione, ma la fragilità sociale si esprime anche nell’incapacità di accedere a determinate prestazioni dei servizi. E’ il contesto complessivo in cui la persona si muove che si precarizza. Come molti sperimentano quotidianamente si può essere molto poveri in una fase limitata della vita e tuttavia permanere indefinitamente in un continuum di precarietà che non approda mai ad una condizione di sicurezza e di benessere. La «dinamica della povertà» conosce tutta una serie di oscillazioni e di varianti possibili, senza che con questo si giunga mai ad un sostanziale miglioramento. Ma tutto questo appartiene ormai stabilmente al nostro presente e alla dimensione urbana contemporanea…
Bibliografia di riferimento
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Agostino Petrillo, architetto e filosofo, professore associato al Politecnico di Milano. È direttore del corso di perfezionamento in Cooperazione internazionale allo sviluppo. Collabora a riviste specializzate – «Sociologia urbana e rurale», «Mondi migranti», «Filosofia politica», «Territorio», «Archivio di studi urbani e regionali» – e al quotidiano «il manifesto». Traduce articoli e saggi di numerosi studiosi tra cui Foucault, Maffesoli, Mike Davis, Loic Wacquant. Tra le sue pubblicazioni: I confini della globalizzazione. Lavoro culture cittadinanza (manifestolibri 2000); Max Weber e la sociologia della città (Franco Angeli, 2001); Città in rivolta. Los Angeles, Buenos Aires, Genova (ombre corte 2004); Villaggi città megalopoli (Carocci 2006); Peripherein: pensare diversamente la periferia (Franco Angeli 2013).
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